I. La cultura medievale da Cassiodoro a Gioacchino da Fiore

La vita e la cultura calabrese fin dalle origini, dopo la caduta dell’impero romano, risentono del sostrato magno greco su cui si verrà fondando nel Medioevo l’elemento bizantino.

La lingua, la religione, l’arte (soprattutto l’architettura), i codici sono espressioni per lunghi secoli della cultura greca della quale la Calabria resterà l’estrema depositaria in Italia. Sia stata interrotta o no la grecità classica come lingua1, durante il periodo romano, l’elemento greco era in prevalenza a Thurii, Crotone, Locri, Reggio, Sibari ecc., irriducibili al nuovo dominio furono i territori interni, la civiltà e la lingua greche costituirono un sostrato continuamente radiante, come vita etnica, come ethos, come topoi e come onomata, come religiosità: profondissimi motivi tragici e mistici di origine orfica, la concezione della vita come dolore e sacrificio, come scheggia dannata e maledetta che solo nell’ultraterrena esistenza si può purificare, hanno creato la psicologia calabrese che ha alimentato, più tardi, il misticismo medievale. In una laminetta orfica di Strangoli un’anima, figlia «della terra e del cielo stellato», esprime la sua «grande sete» e chiede ai custodi dell’Ade «la fresca acqua che polla dal lago Mnemosine»: motivi cosmici, orfici, mistici entrano a far parte anche del pitagorismo, dottrina più intellettuale, per la quale geometria dell’universo – uno nel molteplice – è l’armonia.

Nelle principali colonie della Grecia in Calabria vi fu una notevole attività di cultura nella poesia, nella musica, nella storiografia, nell’arte plastica, nella pittura. Ricordiamo soltanto la scuola reggina (Ibico, Toagene, Glauco), la scuola lirica locrese (Senocrito, Erisippo, Teano, Nosside). Simbolico di questa continuità del mondo greco nella Calabria ci pare essere il riporto di venti colonne dei templi greci locresi dell’età classica nella grandissima cattedrale di Gerace: una saldatura spirituale del mondo antico con quello cristiano. Ma la grecità si rinfrescò con l’alterna e lunga conquista bizantina e fu una grecità che ebbe magie e intellettualismi d’Oriente, che portò nella regione – terra di passaggio, sottile crinale fra Occidente e Oriente – antichissimi sgomenti, apocalittiche paure e sogni biblici di universali rinnovamenti.

La prima grecità ebbe vigorose radici e le ricerche archeologiche e storiche documentano riti, miti, misteri che si diffondono nei secoli, memorie di realtà contornate da leggende. Alcmeone è considerato l’iniziatore dell’anatomia umana nel cui studio mantenne alla base i rapporti matematici nella correlazione delle parti, colui che per primo studiò le sensazioni, che fece consistere l’anima nel cervello in quanto mobilità continua. Pur essendo le sue ricerche legate a concetti di armonia e di proporzioni secondo motivi orfici, hanno una loro originalità nell’indirizzo biologico-sperimentale. Dall’intuizione della soggettività integrale dell’uomo Alcmeone risalì all’universale e all’anima mentre Pitagora mosse dal macrocosmo per giungere all’uomo. Il cervello sede del pensiero fu per Alcmeone anche la sede delle sensazioni e della vita psichica. Dalla fisiologia al pensiero e all’anima: in questo itinerario è la sintesi della natura umana integrale. Dall’armonia dei contrari nasce la salute, dalla disarmonia la malattia e i contrari sono originari e basilari del ritmo dell’essere.

L’orfismo, poco accetto in Grecia per il carattere iniziatico, fu bene accolto nella Magna Grecia dove Dioniso perseguitato dai Titani fu visto come l’immagine dei sofferenti e di quanti aspiravano alla libertà. Per Podismo l’anima era di origine divina ma, viziata da un peccato originale, doveva purificarsi liberandosi dalla prigione del corpo. Nella Magna Grecia il dilaniamento di Dioniso cedette al mito solare di Apollo con Pitagora per il quale il numero è il principio metafisico, essenziale, la superiore armonia in cui i contrari si ricompongono ma nell’enantiosi.

Il Lemmatista dell’Antologia chiamò Nosside «compagna di Saffo di Mitilene» e Meleagro la disse «odoroso fiorente giaggiolo» cui lo stesso Eros spalmava di cera le tavolette. Nosside giunse circondata da miti e leggende. Cantò l’amore: «Nulla è più dolce dell’amore […] Non sa quali splendidi fiori siano le rose di Cipride chi non fu amato da lei».

Da leggende è circondato anche Zaleuco, legislatore di Locri del VI secolo a.C., le cui leggi contro i trafficanti di schiavi, sull’ubbidienza assoluta alle norme anche se ingiuste indicano inflessibilità e arcaicità, spirito conservativo aristocratico.

La cultura non ha l’impronta che troviamo nei territori i quali sono stati appartenenti al Sacro Romano Impero bensì all’Impero Bizantino: essa non è influenzata dal mondo germanico ma da quello classico e, poi, da quello cristiano medievale, arabo, da un feudalesimo privo di valori etici e sociali, fondato sulla subalternità del mondo contadino. In séguito la regione, soggetta alle incursioni di corsari e pirati turchi, malversata dal dominio spagnolo, non svilupperà una classe borghese illuminata e aperta alla scienza e alla cultura moderna industriale come avverrà nell’Europa continentale.

Dopo il primato di Sibari si ha quello di Crotone, lo sviluppo crotoniate sarà fermato da Locri e Reggio che con la battaglia sul fiume Sagra (550 a.C.) ne arrestarono l’espansione. Locri fu anche patria di Zaleuco, Reggio anche dello scultore Clearco e dello storico Ippia, a Reggio si rifugiarono i pitagorici espulsi da Crotone. Complessi furono i rapporti tra i greci colonizzatori e gli indigeni nel territorio della regione durante il processo di ellenizzazione dalle pianure costiere verso l’interno; matrimoni, alleanze, scambi di doni, trattative diplomatiche documentano le varie forme della convivenza fino a che nelle aree interne calano i bruzi-lucani i quali indeboliscono le città greche già minate da contrasti politici interni e da rivalità. Nell’età ellenistica esistono coincidenze di interessi tra greci e bruzi-lucani, si adotta l’alfabeto greco, il bilinguismo dei Bretti, i culti greci accettati creano una comunanza culturale grecobrettia.

Le colonie greche joniche e tirreniche erano collegate dalle vie istmiche, dalla valle del Crati alla zona di Cetraro, dal golfo di Squillace a quello di S. Eufemia, da Locri a Rosarno. Durante la guerra tra Roma e Taranto (alleata di Pirro e dei Bruzi) i Romani diedero inizio alla conquista della regione. I Bruzi, ultimi ad avere abbandonato Annibale nella guerra punica, vinti, vennero resi schiavi e le loro terre furono incamerate; la regione venne latinizzata, la Sila fu sfruttata nei suoi boschi tanto intensamente da turbare gli equilibri naturali del territorio e dar luogo alla formazione di zone malariche. La condizione dei Bruzi venne ribadita dall’esito della guerra italica e da quello della rivolta di Spartaco (73-71 a.C.) che vide il massacro dei ribelli. La romanizzazione indebolisce le istituzioni greche, le città diventano municipi romani, i colonizzatori creano grandi proprietà rustiche che diventano centri della coltivazione agraria, si spopolano gli antichi centri di Crotone, Locri, diventano importanti Tropea e Nicotera che fioriscono nel quadro di una organizzazione rurale più moderna e più produttiva. I Romani organizzano le comunicazioni via mare, aprono la via Popilia (II secolo a.C.) che muovendo dall’Appia giunge fino a Reggio.

Il latino penetra nella regione insieme con la romanizzazione politica che comincia con la fine della seconda guerra punica (201 a.C.) e si attua con la riduzione delle cittadine italiote a municipia aeraria, con la resa dei Bruzi, l’espropriazione dei latifondi dell’aristocrazia terriera, la deduzione di colonie, la concessione della cittadinanza romana (90-89 a.C.) ai Bruzi in séguito alla rivolta sociale, l’organizzazione di aziende agricole nelle ville in tutta la regione.

Dopo la fine delle istituzioni dell’impero romano abbiamo all’inizio del V secolo la prima notizia sicura di vescovi in territorio calabrese, di patrimoni della Chiesa romana in Calabria. La diffusione del cristianesimo si ha fin dal tempo dell’apostolo Paolo che fu a Reggio e vi fece venire il vescovo Stefano di Nicea. Il carattere mediorientale del cristianesimo aiutò la diffusione nei centri già ellenizzati in cui il Vangelo tradotto in greco (dall’originale aramaico) poté essere compreso. All’inizio del VI secolo troviamo in Calabria numerose diocesi della Chiesa romana e grandi proprietà ecclesiastiche (silana, tropeana, nicotrese) che indicano anche il potere economico raggiunto dall’istituzione.

La Calabria nel periodo successivo alla caduta dell’impero romano ha una identità in cui si ritrovano elementi di cultura greca, latina e cristiana mentre nel suo territorio si scontrano la civiltà longobarda, quella araba (che trasmette all’Europa il meglio del proprio sincretismo moderno), quella bizantina. Ma bisogna considerare il peso politico esercitato dalle grandi famiglie aristocratiche di diversa origine e consolidatesi con immensi possedimenti fondiari come avvenne per la famiglia degli Aureli, di origine siriana, avente un ramo bizantino e uno calabrese romano. Aurelio Cassiodoro II, padre del Magnus, fece camera come grande dignitario di corte ed ebbe forza politica dall’amicizia con Ezio, l’ultimo grande generale romano; fece parte del ristrettissimo gruppo che poteva prendere decisioni operative e fu nell’ambasceria guidata da papa Leone I che nel 452 si recò a Peschiera sul Garda a parlamentare con Attila capo degli Unni che minacciavano l’Italia. L’impero romano non esisteva più di fatto e nella ricerca di un assetto nuovo erano presenti l’aristocrazia terriera, i guerrieri barbari, i grandi magnati del Senato di Roma. Questi ultimi (tra essi erano gli Aureli) tendevano a fare rinascere l’impero romano tenendo conto dei nuovi rapporti esistenti con l’Oriente e della necessità di romanizzare i guerrieri barbari, le aristocrazie provinciali e la Chiesa.

Le Variae di Cassiodoro Magno ci danno un’immagine ottimistica e idillica della Calabria contrastante con la realtà di decadenza che è caratteristica dell’epoca. Un anno dopo la morte di Teodorico saliva sul trono di Bisanzio (527) Giustiniano, continuatore ideale degli imperatori romani ma greco per quanto riguardava l’idea dello Stato. L’imperatore controllava rigorosamente la Chiesa di cui era il capo riconosciuto e obbedito dai vescovi.

Bisogna giungere a Magno Aurelio Cassiodoro per incontrare la prima grande personalità organizzatrice e creatrice di cultura, la prima vera mente filosofica, storica e dottrinaria.

Da famiglia venuta dall’Oriente siriano nacque Cassiodoro a Squilllace poco prima del 490. Il padre aveva avuto da Teodorico il governo della Lucania e del Bruzio, la carica di praefectus praetorio e il patriziato, il figlio intravide in Teodorico colui che avrebbe potuto attuare la concordia (il tema della concordia tra il passato e il presente in vista dello svolgimento di quello che dovrà avvenire è uno dei principali lineamenti spirituali dell’anima calabrese: Gioacchino da Fiore creerà la Concordia veteris et novi Testamenti) tra i Romani e i Goti e si pose al servizio di questa idea.

Dopo la morte di Teodorico (526) Cassiodoro fu, sotto Atalarico guidato da Amalasunta, praefectus praetorius, comandante supremo delle forze armate dal 533 al 537, in anni difficili, quelli della morte di Atalarico, del matrimonio di Amalasunta, dell’assassinio di lei per opera del marito Teodato (535), della nomina di Vitige a re dei Goti (536) quando i Bizantini, sbarcati in Sicilia, rapidamente giungono a Napoli, Roma.

Cassiodoro è, in questa fase, anche un politico di grande levatura, il quale pone tutte le sue attività in funzione dell’idealità politica. Sotto Teodorico è quaestor, consul ordinarius, magister officiorum, il morto Teodorico egli esalta nella Historia gotica e da Atalarico gli viene conferita la prefettura. È questo il momento di più alta potenza burocratica e politica di Cassiodoro: ufficiale e funzionario di altissimo grado, tende a installare l’idea di giustizia nello stato, in epoca nella quale il diritto è del più forte e in cui la guerra greco-gotica deprime e impoverisce l’Italia (535-553).

Dopo la deposizione di Teodato è Cassiodoro ad annunziare l’elezione di Vitige; ma quando Belisario entra a Ravenna e fa prigioniero Vitige, crolla per Cassiodoro il sogno per il quale egli aveva lavorato, l’organizzazione politico-statale in cui si potesse conciliare il mondo germanico e quello romano. Cassiodoro comprende che altre forze si spingeranno in Italia, altre dominazioni cancelleranno un poco per volta le opere e il ricordo di Roma. Egli aveva pubblicato nel 537 una silloge di lettere scritte per incarico dei re goti e le aveva intitolate Variae, un XIII libro vi aggiunge adesso, De anima.

La seconda parte della vita di Cassiodoro ha una forte caratterizzazione religiosa e intellettuale. Il grande funzionario nel 540 si ritira in Calabria, nei suoi estesi possedimenti, vicino Squillace e fonda due conventi: il primo è un eremitaggio su un colle, il Castellanense, il secondo è un monastero, il Vivarium, lungo il Pellena.

Dagli splendori della corte Cassiodoro si ripiega, lontano dai fasti, ad litus aeternae securitatis, sulla meditazione e l’interiorità della vita spirituale. Ma non si tratta di un misticismo che spenga tutti i suoi ardori nella contemplazione ché il Vivarium con l’annessa chiesetta di S. Martino presso Stalettì fu un centro di studi e insieme di preghiera, in cui l’abate Cassiodoro e i suoi monaci leggevano testi sacri e profani e attendevano a trascrivere i codici2.

Cassiodoro raccoglie la cultura della romanità tardoantica creando una scuola cristiana per la formazione degli studiosi, una scuola specializzata nel favorire l’applicazione agli studi senza fini pratici, incentrata nello scriptorium che accresce e moltiplica i libri.

Il papa Agapito (535-536) avrebbe dovuto attuare questo progetto ma guerre e lotte di fazione lo impedirono; le Institutiones contengono questo programma che egli cercherà di attuare nel Vivarium, il cenobio da lui fondato. Tutta l’opera di Cassiodoro è da vedere in questo quadro, in questo progetto della funzione della cultura.

Tutti i possibili operai culturali del passato, tutti i teorici, i maestri, i manovali, i lapicidi, i dipintori, gli scultori ecc. vi sono presenti; ma al centro è la figura di Girolamo traduttore, esegeta, polemista, commentatore che muove dall’allegorismo origeniano, difensore dei suoi monaci, grande letterato e scrittore, di erudizione sia sacra che profana, autore di lettere dallo stile mirabile in cui c’è il dramma culturale tra Cicerone e Cristo che sarà vivo nel Petrarca e negli umanisti dei secoli successivi. Cassiodoro tramanda il passato, ciò che può essere utile alla formazione dell’intellettuale latino-romano cristiano; nulla è più utile dello stile, della retorica rigogliosa, esuberante, ben più importante dei concetti della dialettica. Prima che si scopra l’importanza della natura, la filosofia in Calabria (la regione comincerà a chiamarsi Calabria nella sua parte meridionale nel VII secolo) non avrà carattere particolare. Cassiodoro non è un filosofo. Quando era prefetto del pretorio aveva pensato di creare a Roma un istituto di studi teologici, una scuola di conservazione e di ricerca religiosa nell’ambito della Chiesa (si era accordato su questo con Agapito nel 535). Il De anima indica il ripiegamento di Cassiodoro dopo gli insuccessi politici verso lo spirituale (l’anima è da lui concepita come sostanza spirituale, dotata di razionalità, libertà, immortalità, delle virtù cardinali, di memoria, giudizio morale e della contemplatio); ciò avviene nel 538, due anni dopo Cassiodoro si ritrae dalla politica attiva in Calabria nei suoi possedimenti terrieri. Ascesi e cultura sono i termini della vita morale di Cassiodoro da ora in poi.

L’esercizio della cultura è il progetto di formazione di intellettuali religiosi, cristiani; continua l’insegnamento di Boezio e per certi aspet ti (il lavoro) precorre Benedetto da Norcia nell’organizzare cenobi monastici caratterizzati culturalmente. Il complesso monastico destinato a monaci dediti alla preghiera liturgica, al lavoro manuale, alla preghiera e all’attività culturale, l’attuazione del progetto cassiodoreo. Il commento ai salmi della Bibbia esprime la direzione religiosa della personalità che nei salmi predilige l’interpretazione allegorica e nei salmi vede la prefigurazione del nuovo Testamento; le Institutiones compendiano il mondo classico e cristiano, trattano delle arti liberali che devono servire alla formazione monastica, della logica, della musica, della medicina; hanno come sostegno opere complementari sull’ortografia, sulla trascrizione dei codici. Nel Vivarium dove era la direzione del metodo e dell’attivi tà Cassiodoro era coadiuvato da studiosi traduttori, epitomisti come Epifanio, Bellatore, Murziano con i quali, e con altri, aveva costituito un istituto di cultura e una comunità ascetica in cui la cultura classica era trasfigurata in senso cristiano. Tale fondazione culturale era legata alla persona di Cassiodoro, era elitaria, aveva sede sulla costa che sarà invasa dai Bizantini; non ebbe le radici delle istituzioni benedettine, saranno i benedettini a diffondere in Italia e in Europa i codici del Vivarium.

Cassiodoro non conosceva la regola di Benedetto da Norcia, la sua attività è in primis culturale: di avviamento dei monaci allo studio delle sacre scritture per mezzo del latino (solo i monaci irlandesi della fine del VI secolo credevano nella formazione del latino per raggiungere una buona conoscenza della Bibbia). Come era avvenuto ad Alessandria e a Nisibi, Cassiodoro vuole creare un centro di studi per la formazione umana del futuro monaco impadronendosi delle conoscenze reperibili e trasmettendole: anche per non farsi vincere dai tempi barbarici, per opporsi al fluire dell’irrazionale della storia. Tale lavoro intellettuale non fu sorretto da strutture di base, da volontà collettiva dotata di autorità.

Non poteva avere un séguito che per pochi decenni dopo la morte del suo ordinatore; ma nel tempo lungo, nei secoli, il lavoro di Cassiodoro costituì il metodo storico – di quel tempo – della futura ricerca umanistica, dell’effigie di una Europa nella quale egli ha lasciato la sua impronta. Cassiodoro è il più notevole tramite che incontriamo in Italia fra la cultura classica romana, quella barbarica e la cristiana. I due momenti della sua vita, quello trascorso presso i Goti quale altissimo ufficiale e funzionario della corte e quello trascorso in Calabria tra il monastero e gli studi, sono caratterizzati, pur nelle fondamentali differenze di attività, pratica il primo e intellettuale-religioso il secondo, dalla volontà di armonizzare, tramandare, perpetuare il patrimonio di cultura che l’antichità aveva elaborato. Con Cassiodoro si ha anche l’inizio delle figure dei grandi intellettuali calabresi che nel corso della storia hanno rilievo spiccato come giganteschi archetipi, come sommità di un’epoca per lo più travagliata o di attesa: nei momenti di riposo di solito la cultura calabrese è fredda, accademica, di scuola, perfino leziosa o manierista, rumina miti. Cassiodoro vuole difendere, nel tardo crepuscolo, quasi notte incipiente, la civiltà romana dalla morte, per un chiaro intuito della grandezza della civiltà latina.

Il latino è per Cassiodoro sermo patrius, il Bruzio è ormai latinizzato all’età sua. Le sue Variae sono una scelta, consapevole dal punto di vista politico e dal punto di vista formale. Esse sono la prima summa medievale del materiale utile all’organizzazione di uno Stato che cerca di collaborare con l’elemento ariano su un piano di equità, di uno Stato plasmato cristianamente secondo ideali di pace e solidarietà. Il progetto di Cassiodoro, intellettuale cosmopolita preparatore del Medioevo latino, era che la cultura classica (romana, per lui) dovesse essere il fondamento di quella sacra per la quale occorrevano scuole pubbliche.

Cassiodoro in Calabria con il suo Vivarium è consapevole di organizzare la cultura romana e di essere tramite fra questa e la cultura cristiana. Istituisce una biblioteca, compone le Institutiones divinarum lectionum in cui sono cenni sui libri della Bibbia, sugli storici cristiani, compone il De orthographia, organizza gli studi come culmine a cui si giunge attraverso i gradi degli studi letterari. Ritenendo letteratura che non si debba vietare la profana scrive le Institutiones saecularium lectionum, riguardanti le arti liberali delle quali è origine e fondamento la grammatica. Per questa attinge a Donato, per la rettorica a Cicerone, Quintiliano, Fortunaziano; la parte più ampia del libro è la dialettica, che dà un’interessante immagine di Cassiodoro, per il quale «philosophia est meditatio mortis». Le Institutiones tramandano alla posterità le testimonianze della civiltà letteraria classica e costituiscono il collegamento tra il mondo declinante e quelli barbarici e cristiani.

La sua opera di vigilante custode del mondo romano che trapassa in quello cristiano rappresenterà nel Medioevo, da Alcuino a Rabano di Fulda, a Sedulio Scoto, un punto di fermata per rielaborare la cultura antica durante l’evoluzione verso le lingue neolatine. Non si tratta di facili conciliazioni, neanche per le Institutiones divinarum ac saecularium lectionum poiché con questi «insegnamenti» si scioglieva il lungo contrasto fra scrittori sacri e profani; Cassiodoro poneva, infatti, alla base della cultura sacra del monaco la necessaria preparazione nelle arti liberali. Nella sua lunga vita (morì nel 580 a Squillace) scrisse una storia dei Goti di cui ci resta solo il compendio dovuto al goto Jordanes (De Getarum sive Gothorum origine et rebus gestis), le quasi cinquecento lettere intitolate Variae, d’ufficio, adorne e frondose ma storicamente molto importanti, una Historia ecclesiastica tripartita, opere grammaticali, enciclopediche. Cassiodoro sognava la fondazione di scuole classico-cristiane, essendo ben consapevole del valore del mondo declinante e della necessità di far continuare nel nuovo mondo cristiano i valori stilistici tradizionali: da lui inizia il cursus della prosa mediolatina che scandisce il periodare mediante le clausole, che generano nella prosa un andamento ritmico diviso.

Insieme con il grande organizzatore e tramite di cultura bisogna, quindi, ricordare in Cassiodoro l’iniziatore delle forme dello stile mediolatino e nelle caratteristiche del suo stile egli è stato studiato da Sister M.Y. Suelzer (The clausolae in Cassiodorus, Washington 1944). La preoccupazione di Cassiodoro di recuperare alla cultura moderna i codici antichi, di interpretare i testi classici, di collegare le lettere humanae con le divinae, di preparare scuole di calligrafi, miniaturisti, amanuensi ecc. quando si affaccia una nuova civiltà, quella di Bisanzio, è il segno più importante dell’umanesimo calabrese del VI secolo. Cassiodoro si era ritirato dal ricordo delle corti feroci e dei delitti dinastici, dalla vita politica e burocratica in Calabria ma proprio in Calabria la nuova civiltà entrava veemente pur se con un corteo di guerre, carestie; dal cuore greco il sangue bizantino – ma anche armeno, siriaco – inizia a fiottare nelle vene della Calabria in cui i monasteri, i conventi, le scuole calabro-greche cominciano la preziosa opera di trascrizione di codici che raggiunge il punto più alto di operosità e di utilità con i monaci basiliani, tra i secoli X e XII.

Almeno seicento codici di provenienza calabrese si spargeranno nel mondo ma in Calabria è rimasto soltanto il Codex rossanensis detto purpureus, del VI secolo. È un codice mirabile e prezioso in pergamena violaceo-sanguigna, composto da 188 fogli, in bellissimi caratteri grecoonciali, con miniature di grandissimo pregio. Rappresenta il più illu stre monumento della civiltà bizantina in Calabria e probabilmente fu eseguito nella stessa Costantinopoli. Fu segnalato per la prima volta nel 1846 ma fu scoperto nel suo valore nel 1879 dai tedeschi Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnack, i quali nel 1880 pubblicarono il volume Evangeliorum codex graecus purpurea rossanensis litteris argenteis scriptus mentre il Muñoz nel 1907 riprodurrà in tricromia in volume le miniature. A noi avanza una parte del codice, che conteneva i Vangeli: avanzano il vangelo di Matteo, una parte di quello di Marco, una parte della lettera di Eusebio a Carpano, sulle concordanze degli Evangeli, con quattordici miniature di scene della vita di Cristo e con un ritratto di Marco. Si notano affinità delle miniature con il ciborio di San Marco a Venezia, con i mosaici di Santo Apollinare nuovo a Ravenna, ma gli influssi del codice rossanese giungono fino al Beato Angelico nelle arti figurative. Quasi tutte le miniature sono a due piani: la scena inferiore è costituita dalle figure dei profeti recanti cartigli con le profezie, il cui avveramento è descritto nelle scene superiori. Le scene derivano dagli Evangeli ma con una certa diversità, ed è assai singolare il tema delle concordanze tra le profezie dell’antico Testamento e il realizzarsi di esse nel nuovo Testamento. I colori suggeriscono un sentimento vetusto e sacrale, una sorta di ritualità inaccessibile nella sua aulicità, una distanza che ren de estremamente spirituali e teofaniche le immagini che troveremo, più avanti nel tempo, tremolanti nell’oro di più vasti spazi, supremamente ermetiche ed enigmatiche3

La grecità bizantina si afferma ancor più in Calabria con il monachesimo basiliano dal VII secolo in poi. Il monachesimo greco ha per almeno tre secoli notevole sviluppo in Calabria perché nella regione si vengono consolidando nuclei bizantini di funzionari e profughi sfuggiti, in diverse ondate, alla conquista della Siria, dell’Egitto, dell’Africa Settentrionale, della Sicilia da parte dei Musulmani; ma se si guarda anche alle estreme propaggini, la ripresa della grecità in Calabria giunge fino al secolo XL I monaci basiliani si distinguono per una attività culturale notevolissima sia nella letteratura sacra, nell’agiografia che nella trascrizione dei codici. La cultura di Bisanzio si trapianta in Italia e in questi secoli sono fiorenti nei monasteri le officine che elaborano codici con scuole di calligrafi e miniaturisti, si introduce in Calabria il rito antiocheno o alessandrino, sorgono nuove diocesi, vi sono dei greci di Calabria eletti al soglio pontificio, si costruiscono le più importanti chiese e basiliche.

Nella zona montuosa del Mercurion si costituisce una celebre provincia monastica formata da asceti italo-bizantini che in quella eparchia creano quasi una nuova tebaide e si dedicano all’innografia, alla melodia, alla calligrafia, alle arti liberali. Ma in tutta la regione, nei rilievi montuosi, si fondano infiniti monasteri basiliani, soprattutto nella Sila che, dai monaci orientali, si chiamò greca. Dalla valle del Crati uscirono Giovanni Filagato, che sarà abate di Nonantola, S. Gregorio di Cassano che fonderà un monastero greco a Burtscheid, presso Aquisgrana, Sant’Ilarione che con altri monaci si trasferirà in Abruzzo. Ma nel lungo arco della grecità bizantina in Calabria, si avrà anche la diaspora dalla regione dei numerosi codici miniati, spesso conseguente al trasferimento di abati e monaci, come avvenne per S. Nilo allontanatosi con molti codici calabresi, per S. Luca di Rossano che priva il Patirion di preziosi codici per trasferirli nel monastero di S. Salvatore a Messina.

Nella prima metà del secolo Vili nella Calabria, ormai bizantina, giungevano dal lontano Oriente i monaci di S. Basilio per effetto dell’editto iconoclasta di Leone Isaurico (726); nel secolo seguente, l’invasione araba spingeva in Calabria i religiosi basiliani della Sicilia. Il monachesimo basiliano fu alimentato dalla religiosità indigena, e monasteri e cenobi costruiti da greci e normanni (S. Maria del Patirion di Rossano,

S. Pancrazio di Scilla, S. Adriano, Aulinas, S. Maria di Trapezometa, S. Giovanni Teresti di Bivongi, Roccelletta di Squillace) fiorirono per opera di monaci di lingua greca nati in Calabria.

Questi furono letterati, artisti, contadini e operarono in un contesto bizantino formato da clero, amministratori, soldati ecc. Il fiorire delle arti, delle lettere, degli studi filosofici, dell’agiografia, dell’innografia caratterizzò questo ellenismo bizantino i cui centri principali furono Reggio e Rossano. I basiliani che avevano portato con sé le opere dei Padri d’Oriente (Basilio di Cesarea, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo e altri) coltivarono studi di patristica, tradussero opere di diritto bizantino, composero le vite di speleoti e anacoreti (di S. Elia Speleota, di S. Saba, di S. Leoluca, di S. Nilo), ieromonaci e igumeni trascrissero di propria mano opere greche, altre opere miniarono; altri cenobiarchi crearono, altri si recavano a Costantinopoli per portarne codici che poi vennero dirottati a Grottaferrata, a Messina o, con la decadenza dell’ordine, nei secoli XII e XIII, furono deteriorati o distrutti. Più tardi centinaia di codici di Rossano, Stilo, Stalettì, Sinopoli, S. Demetrio Corone furono portati a Roma o in altre città. Dai monasteri greci di Calabria anche nell’età della decadenza basiliana uscirono i maestri di greco Barlaam e Leonzio Pilato.

La grecità basiliana e bizantina non fu certamente senza influenza nel determinare nella cultura e nella psicologia calabrese l’amore per la speculazione sottile, per gli arditi sogni metafisici, per le utopie finalisticamente intese alla redenzione, alla palingenesi universale che caratterizzano l’anima calabrese. Il mondo bizantino, infatti, rispecchiava anche in Calabria essenziali interessi religiosi sicché i problemi della vita e della cultura erano svolti in armonia con quelli della religione. In Calabria tali interessi diventano fondamentali essendo la regione un ponte verso l’Oriente, un tramite di diverse civiltà. Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella saranno i principali rappresentanti della cultura che si inarca fino a toccare vette molto elevate di speculazione e di creazione. Dopo Campanella la cultura calabrese, per influenza di quella della nazione, si avvierà lentamente verso un sapere più moderno, la caratterizzazione storica non sarà determinata in modo prevalente dall’incidenza religiosa.

S. Nilo di Rossano (910-1004) rappresenta la religiosità greca di Calabria del X secolo. Il suo nome di battesimo fu Nicola (della famiglia Malena), Nilo fu il nome ricevuto nella professione monastica. Nato da famiglia aristocratica, fin da giovanetto fu dedito alla religione e grande impressione su di lui suscitavano le immagini di Antonio, di Ilario, di Saba affrescate nella chiesa nella quale era protosalte (primo cantore). Ritiratosi nel Mercurion dove erano i monasteri resi celebri dalla vita di Giovanni, Fantino, Zaccaria, impiegava gran parte della giornata a trascrivere codici: degli scritti autografi, uno si trova nella Biblioteca Vaticana e tre nella biblioteca della badia di Grottaferrata. Per le scorre rie dei Saraceni, che minacciavano monasteri e asceteri, si ritirò in una località (là più tardi sorgerà la città di S. Demetrio Corone) dove era stato costruito un oratorio in nome di S. Adriano.

Più tardi si reca a Montecassino (dove compone un inno in onore di S. Benedetto), a Valleluce dove dimora circa quindici anni con sessanta monaci curando la trascrizione di codici, lo studio dell’innografia, della melurgia, delle scienze sacre e profane. Le ultime soste furono a Sérperi, vicino Gaeta, poi nella località di Tuscolo, vicino Roma, dove era edificato un monastero greco dedicato a S. Agata e dove egli iniziò l’edificazione del monastero di Cryptaferrata. La personalità di Nilo è molto complessa sia per la ricchezza vitale che per le contraddizioni del temperamento, degli atteggiamenti biografici di uomo benestante che abbandona la donna alla quale si era unito e dalla quale aveva avuto una figlia e, dopo una giovinezza tempestosa e capricciosa, fugge dal mondo e si ritira in un eremo, tra i monti, conducendo una vita aspra e primitiva. Ormai vecchio lascia il mondo italo-greco nel quale era nato per volgersi verso quello latino. La storia si intreccia fittamente con la sua vita e l’agiografia non può smussare gli spigoli di una personalità vigorosa e non priva di eccessi. La sua vita intellettuale fu originale nel quadro delle vite di religiosi agiografati in modo piatto e uniforme da numerosi scrittori, di una cultura che non si confronta con quella profana e che ha quasi nulla dialettica storica e culturale.

Nilo studiò scienze umanistiche, teologiche, le sacre scritture, gli scritti di S. Basilio, S. Giovanni Nazianzeno, S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Magno, Teodoro Studita, Atanasio, Giovanni Damasceno, le vite dei Santi Antonio, Ilarione, Saba, Arsenio, Giovanni Calibita, avviò una tradizione di calligrafi, grammatici, filologi, una scuola di copisti di origine calabrese (dei numerosi codici da lui trascritti ci sono giunti solo tre autografi vergati intorno al 965), ebbe allievo Paolo, abile copista che a Grottaferrata continuò l’attività di Nilo (e là diventerà egumeno).

Abbiamo di Nilo componimenti poetici: una predica laudativa in versi con acrostico per S. Nilo Sinaita dal quale aveva preso il proprio nome; un componimento poetico religioso di nove odi di quattro strofe ciascuna per la visita fatta a Montecassino nel 984 (Nilo esalta la figura di S. Benedetto servendosi del profilo nel testo latino dei Dialoghi di S. Gregorio Magno); ventiquattro versi giambi in onore di S. Paolo perché lo aiuti a vincere le tentazioni della carne suscitategli dalla vista di una tedesca durante la visita da lui fatta nella basilica vaticana alla tomba di S. Paolo.

A Rossano Nilo conobbe Rabbi Shabbatai Abraham detto Donnolo, grande medico e personalità colta del mondo giudaico-bizantino, nato a Oria, astronomo, scienziato, autore del Libro delle misture sulle pozioni e le miscele. In una disputa di carattere teologico con Donnolo Nilo, che considerava gli ebrei uccisori di Dio, sostenne che un cristiano vale sette ebrei (secondo una credenza che non ha riscontro in alcun diritto). Questo paradossale antisemitismo razziale-religioso, si incontra, nella vita di Nilo con un altro pregiudizio, quello della legge del taglione: una principessa di Capua spinse due suoi figli a uccidere un cugino ben voluto dal popolo; si rivolse a Nilo il quale per scioglierla dal peccato la consigliò di consegnare uno dei figli ai parenti del defunto perché ne facessero quello che volessero. Anche se Nilo parlava solamente per verificare il pentimento della donna, citava la legge della vendetta del Deuterenomio; altre volte citava i casi biblici di Saul e Iefte che condannarono a morte i loro figli. Altra volta meravigliò i suoi monaci quando, essendo stato catturato un longobardo che aveva rubato un cavallo del monastero, Nilo gli regalò il cavallo per insegnare ai monaci che coloro i quali ci fanno del male devono essere beneficati e che solo così si possiede senza veramente nulla avere.

Preso l’abito monacale intorno al 940, visse al Mercurion in una spelonca-oratorio vicina a Fantino che lo prediligeva, a Giovanni e Zaccaria; dal 955 al 980 visse a S. Adriano. Il biografo di Nilo ci informa che questi dall’alba all’ora di terza (le nove) scriveva, quindi pregava, recitava il salterio e faceva migliaia di genuflessioni. Non aveva né letto né seggiola né armadio né arca né borsa né bisaccia. Osservava la regola di Basilio sul digiuno e sull’astinenza; non proibì ai monaci di mangiare carne ma rimproverò chi ne mangiava di nascosto perché Basilio prescriveva che il monaco chiedesse, prima di mangiare alcunché, la benedizione al superiore. Personalmente Nilo indossava una sola tunica di pelo d’animale che ripuliva una volta l’anno per essere aderente alla norma basiliana sullo spirito di povertà; prendeva il suo modico cibo sopra una grossa pietra in un piatto che era un relitto di coccio. Allo spirito di obbedienza fa capo l’ordine dato al fedele Stefano di gettare nel fuoco una sporta confezionata senza avere chiesto il permesso «come dice il grande Basilio»; allo stesso Stefano ordinò di regalare il suo salterio a un vecchio che aveva perduto il proprio. Diceva Nilo che «la donna è solita far perdere l’uomo»; memore della tedesca «di alta e prestante statura» che lo aveva tentato a Roma, Nilo il quale «avrebbe preferito piuttosto un aspide che conferire con una donna», percosse col bastone una giovinetta che gli si era gettata ai piedi lungo la via.

A Rossano l’attività culturale e scrittoria tocca il culmine nei secoli X e XII; eppure questi eccessi di pauperismo e di misoginismo sono nervature di un monachesimo orientale che per secoli hanno influenzato diversi strati sociali, a cominciare da quelli popolari, in modo dannoso, antimoderno, antiumano, perché derivanti da una interpretazione ristretta, insensata di canoni, testi biblici, regole, profezie, opere ascetiche in cui si proclamava la potenza demoniaca del danaro e della donna. E tuttavia l’esemplarità biblica letteralmente interpretante e giudicante, il pauperismo estremo, l’obbedienza cieca e assoluta, gli atteggiamenti provocatori di Nilo concorrono a creare nella sua fisionomia, in tempi difficili, tratti di sicurezza i quali consentono di intervenire nella carità verso i poveri, nell’amore vero verso gli altri, nell’opporsi ai tirannelli come si vede nella Vita. Nilo crede nell’unità dell’umanità, dei popoli; sceglie, si compromette in nome del punto di vista religioso. Gli episodi della visita dello stratega longobardo che si converte, il rifiuto dell’episcopato di Rossano, la liberazione dell’ossesso, il terremoto di Rossano rappresentano momenti importanti della vita morale di Nilo il quale decide sempre obbedendo a un fine religioso.

L’agiografia calabrese relativa al secolo X è ricca di testi come le vite di S. Elia il Giovane, di S. Elia lo Speleota, di S. Fantino il Giovane; ma il capolavoro è il Bios di S. Nilo scritto a Grottaferrata circa venti anni dopo la morte di Nilo da un anonimo autore, discepolo di Nilo, forse rossanese. Potrebbe essere Bartolomeo IV abate di Grottaferrata ma non esiste una sola prova concreta (anche nel congresso internazionale su S. Nilo, tenuto a Rossano nel 1986, tutti i relatori hanno parlato di un anonimo autore della Vita). Bartolomeo aveva dodici anni quando lasciò la Calabria per raggiungere Nilo a Valleluce e trascorse il resto della sua vita nel Lazio; i dubbi più fondati sull’assegnazione dell’opera a Bartolomeo sono stati espressi da F. Nalkin.

Ritenendo che la Calabria in breve tempo sarebbe caduta in mano degli arabi Nilo, in seguito alle continue incursioni degli infedeli, intorno al 980 passando per Capua andava a Valleluce (dove sarebbe rimasto quindici anni); più tardi dimorò a Serperi (Gaeta) per dieci anni e, all’estremo della lunga vita, a Grottaferrata. Fu solo la paura degli arabi o far muovere Nilo dalla Calabria o un progetto più ampio a indirizzare l’italo-greco del Mercurion verso Roma, verso l’Occidente più complesso?

Il pauperismo caratterizzava il monachesimo italo-greco costituito da modesti insediamenti di monaci che non creavano grandi proprietà agricole con dipendenti né feudi di reddito; erano monasteri fondati sull’autoconsumo e Nilo ordinò ai suoi monaci di eliminare una parte di vigna sia perché non si formasse una mentalità di guadagno sia per verificare l’obbedienza assoluta dovuta al padre spirituale. Il monaco che lottava contro la ricchezza lottava contro il demonio, che per Nilo insidiava da tutte le parti.

Il monachesimo occidentale adopera uno sforzo razionale per trasformare il mondo mediante il lavoro, dialettizza lavoro e capitale, per il monachesimo italo-greco l’ascesi ha maggiore valore del lavoro: da questa ideologia è derivato in Gioacchino da Fiore, in Francesco di Paola l’orgoglio antieconomico, il disprezzo della ricchezza considerata cosa immonda. La base, del resto, nella Calabria era la povertà per opera della quale nella maggioranza della popolazione durante i secoli trascorsi (lo notò Giacomo Casanova piovuto in Calabria) mancavano tutte le comodità altrove in uso. Con il secolo XV l’esperienza ascetico-mistica verrà meno, dopo il concilio di Trento la Chiesa di Roma sarà meno disponibile al pluralismo; ma la prima causa del crollo del monachesimo italo-greco è dovuta alla separazione dalla madre orientale in cui era vissuto.

Eppure l’originalità culturale di quel mondo non può essere ridotta, perché è crollata, a cultura subalterna. Bartolomeo (981-1055) di Rossano fu battezzato col nome di Basilio; il nome di Bartolomeo gli venne imposto nella cerimonia di vestizione monastica nel 993 da Nilo. Bartolomeo comincia a trascrivere testi sotto la guida di Nilo e diventerà innografo di qualità letterarie, poeta, calligrafo. Era con Nilo quando questi ebbe dal conte di Tuscolo, Gregorio, una diruta villa romana per edificare la chiesa e il monastero. Morto Nilo il governo della comunità passò a Paolo e alla morte di questi a Bartolomeo il quale rifiutò e fece eleggere Cirillo, ma nel 1010 accettò dopo avere ottenuto come collaboratore lo stesso egumeno Cirillo. Esistono, oltre quelli dubbi, più che cinquanta tra canoni e contaci di Bartolomeo; modello è l’acrostico giambico senza nome di autore e secondo il calendario italo-greco. Gli inni sono di elevato livello culturale e dimostrano perfetta conoscenza della letteratura religiosa.

Nel 1024 Bartolomeo fece innalzare un tempio alla Vergine con il materiale di una preesistente villa romana; la chiesa fu consacrata da Giovanni XIX. Bartolomeo accolse tra i suoi monaci Benedetto IX, nipote di Giovanni XIX e di Gregorio conte di Tuscolo donatore della terra per la costruzione del monastero di Grottaferrata. Ciò avvenne un anno prima della morte di Bartolomeo. Le notizie sulla vita di Bartolomeo ci sono fornito dal Bios scritto da un monaco suo seguace (senza prova concreta, anche in questo caso, non si può attribuire l’opera al suo seguace e successore, monaco criptense Luca), dall’encomio scritto nel 1230 da Giovanni Rossanese e da altri monaci criptensi. Di Bartolomeo si narra che avendo sorpreso dei ladri a rubare nel monastero li indirizzò verso le dispense già svuotate e che i ladri trovarono ancora ricolme di viveri e abbigliamento sicché compresero in presenza di chi si trovavano: perdonati, vennero rimandati con la raccomandazione di chiedere, da allora in poi, ciò di cui avrebbero avuto bisogno.

Altra volta Bartolomeo, mentre nel cuore dell’estate si erano accumulati sulle aie i frutti della mietitura e cominciò a piovere, pregò Iddio e la tempesta scomparve (l’episodio è raffigurato dal pennello del Domenichino nella cappella di S. Nilo). In occasione di una pestilenza che colpiva gli animali del monastero (che aveva moltiplicato i propri beni: bovini, pecore, capre) Bartolomeo disse ai guardiani e pastori sbigottiti che il medico del quale propriamente sono i bestiami, Dio, avrebbe potuto sanare le povere bestie; così avvenne dopo la preghiera e Bartolomeo ordinò di mettere da parte tre capi ogni dieci per i poveri. In occasione di una carestia Bartolomeo aprì i granai e giornalmente faceva distribuzione di grano; perdurando la carestia i viveri cominciarono a venire meno, si vuotarono i granai e dispense sicché Bartolomeo cercò di andare a Roma per provvedere in qualche modo ma durante il cammino fu preso da sonnolenza, si addormentò e in sogno vide Gregorio Magno, del quale era devoto, che lo esortò a ritornare al monastero; qui ritornato fu raggiunto da un messo del conte di Tuscolo il quale gli annunziava che il conte gli mandava cento moggia di grano.

Bartolomeo, che è considerato cofondatore della Badia di Grottaferrata, monastero greco in terra latina, fece sorgere accanto al monastero due ospizi, uno per gli infermi e l’altro per i pellegrini; la formazione culturale si compiva nello Scriptorium che ha tramandato i manoscritti che sono il tesoro della biblioteca. Le istituzioni fondate da Bartolomeo furono continuate dagli ieromonaci Leonzio, Franco, da Luca che gli successe come abate (1060-1075). Gli autori dei Bioi considerano deviante la cultura profana e intendono superarla esprimendo la tradizione vetero e neo-testamentaria; nel genere agiografico cercano di incrociare altri generi e di intrecciare diverse tradizioni formali, di introdurre clausole ritmiche. Pur mancando nelle agiografie (non poche di esse sono stucchevoli, monotone) la critica storica, l’aggancio critico con i tempi storici, la narrazione semplice è spesso ricca di effetti artistici perché in essa si rispecchia il sentimento naturale degli affetti, come avviene nel le prose che stanno all’origine di una civiltà. La narrazione resecata ha un suo incanto che non può diventare categoria né mentale né artistica perché questo sarebbe un tradimento della ragione, dell’intelletto, della storia.

Gli inni di Bartolomeo contengono nel loro andamento liturgico frequenti tautologie, nominazioni, tensioni liriche nel quadro dogmatico, come nel seguente esempio: «Come mai nel tuo seno porti il Fuoco della Divinità e non resti bruciata? Come mai generi, e dopo il parto resti Intatta come prima? Lo sa Colui che da Te è nato e che è vero Dio e vero Uomo». Ma più interessante delle proclamazioni, anche liriche, è la preghiera alla madre di Dio veduta come tutta santa, tutelatrice del cammino (Teotoca, Panaghìa, Odigitria) e soprattutto – sentimento che avrà ampio riscontro nei secoli della devozione popolare e nella cultura popolare – come protettrice dei poveri, dei disperati, degli afflitti: l’aggregazione religiosa si compirà per questa tutela di umanità contro la disgregazione e la violenza che ha sempre colpito coloro che non hanno. Poche terre d’Italia furono così divise politicamente, religiosamente, amministrativamente come la Calabria con l’avanzata dei Longobardi prima, dei Normanni poi; senza tenere conto che durante queste dominazioni la regione fu soggetta a centinaia di scorrerie, di devastazioni, incendi e rapine da parte dei Saraceni che assai facilmente potevano sbarcare sulle sue coste. I Longobardi avanzarono nella parte superiore della regione, i Bizantini rimasero nella parte meridionale e sulle coste ma il confine fra i due domini rimase fluttuante e qualche temporaneo dominio musulmano si formò ad Amantea, a Tropea, a Squillace ecc.

In questo travagliato Medioevo, tuttavia, la tradizione culturale è vigorosamente ricucita, come abbiamo visto, da Cassiodoro; un nuovo elemento, greco, si innesta nella regione sicché la tradizione romanobizantina costituisce la nervatura principale lungo la quale si svolgono i programmi, gli interessi del mondo cristiano. L’oriente in Calabria collaborava, più che in qualsiasi altra regione, a creare la fisionomia del popolo e della cultura. Pertanto, pur nelle avversità prima ricordate, non potremmo dire che sia esistita una frattura tra il mondo antico e quello nuovo poiché le scuole religiose, la rettorica classica, il disciplinamento della cultura greco-romana sono le prove della vitalità del mondo medioevale. Cassiodoro e Gioacchino da Fiore scrivono in latino, i monaci basiliani scrivono in greco, le due tradizioni sono presenti e talvolta si fondono4. Per quanto riguarda la destinazione delle opere Cassiodoro scrive per le scuole, per i dotti, per compiere un lavoro istituzionale che altri travaseranno in più piccoli rivi, Gioacchino scrive per i teologi, per i grandi ecclesiastici, il suo dialogo è con gli addottrinati in dispute trinitarie e cristologiche ma si rivolge anche – e per questo ci fa pensare che il Libro delle figure sia dell’abate florense – con figure, con tavole, con disegni, a un pubblico più vasto, certamente pensando, con uno scrittore didascalico friulano del tempo, che «il chierico guardi la scrittura, il laico la dipintura».

All’età del dualismo longobardo-bizantino risale la differenziazione linguistica della Calabria settentrionale (con elementi di innovazione) e di quella meridionale (con elementi più arcaici e di conservazione). Per quanto riguarda gli elementi linguistici greci in Calabria è necessario ammettere che con l’occupazione bizantina si costituì in Calabria un fitto adstrato di lingua-bizantina, una sorta di lega linguistica fra popolazione romana ed elementi greci.

Nel 544 Giustiniano aveva ristabilito l’autorità dell’impero sull’Italia, il territorio italiano venne diviso in province, la Calabria resterà per mezzo millennio sotto Bisanzio e avrà il compito di arginare i tentativi di invasione di Longobardi e di Arabi. L’età bizantina produce in Calabria grandi documenti di civiltà quali la Cattolica di Stilo, la chiesa di S. Marco, il Patirion, il Codex purpureus, il battistero di S. Severina, alcune chiese di Gerace, la chiesa di S. Giovanni Theresti presso Bivongi, numerose altre costruzioni (grotte, tempietti, cupole, abbazie, cattedrali), mosaici, icone, musiche, codici. La Chiesa di Calabria nel periodo della dipendenza politica da Bisanzio era legata anche alla dipendenza religiosa perché l’imperatore di Oriente aveva, come si è detto, potere di nominare e approvare le decisioni dei vescovi. Le diocesi della Calabria dal secolo VIII erano di lingua e liturgia bizantine ad eccezione dei distretti longobardi della valle del Crati. La regione è riellenizzata, per taluni la grecità linguistica è bizantina, per altri deriva da successive ondate di greci sbarcati in Calabria in séguito alla pressione turca, per altri il greco antico si sarebbe consolidato durante il periodo bizantino.

Il cristianesimo in Calabria venne alimentato dal monachesimo degli anacoreti o di gruppi di monaci trasferitisi in Calabria da Siria, Palestina, Egitto conquistati dagli arabi, altri monaci vennero dai territori impregnati di ellenismo, da bizantini che erano disobbedienti al dovere iconoclastico. Le nuove associazioni religiose suscitarono una specifica attività culturale scrittoria, calligrafica, musicale, agiografica, miniaturistica e personalità di religiosi che vennero riconosciuti come santi quali Elia Speleota, Cristoforo, Elia il giovane, Leone Luca, Bartolomeo di Rossano, Gregorio di Cassano, Ciriaco, Nicodemo, Cipriano, Nilo, Basilio, ecc. Le esperienze di Basilio vengono proposte, molto tardi, da Cipriano archimandrita di S. Giovanni Theresti; esse cercano di portare l’anacoretismo verso il cenobitismo proponendo la figura di un capo (igumeno) eletto dai monaci e insediato dal vescovo con la consegna del bastone.

La mancanza di un vero ceto medio in Calabria aveva determinato il destino dei servi della gleba abbandonati alla prepotenza dei proprietari terrieri; la decadenza della regione è segnata dalla prevalenza della pastorizia sull’agricoltura, la coltura del grano andò in rovina e le esigenze alimentari più povere svilupparono la coltura di segala, miglio e orzo. Le città divennero borghi, i proprietari delle grandi ville rurali in decadenza si asserragliarono nelle «terre murate» difese da muri in pietra, fortilizi agricoli organizzati come centri di vita economica e di difesa. Il potere centrale bizantino, minacciato dai musulmani, fa avvertire la sua debolezza e nella periferia, nella Calabria, sono anticipati i caratteri del futuro feudalesimo meridionale: non attivo, non presente, non vigilante, esoso. I coloni greci avevano trasformato l’economia pastorale dei popoli italici in economia agricola che aveva dato luogo al commercio; adesso la signoria serrata nelle ville rinforzate impedisce la nascita delle città e il sorgere della mercatura. I traffici restarono in mano a mercanti di altre regioni e solo Reggio e Crotone poterono mantenere scambi commerciali.

I Longobardi si attestarono nella parte settentrionale della regione; nel secolo ottavo i bizantini conquistarono Cosenza ma non riuscirono a mantenerla (i Longobardi crearono i gastaldati di Cosenza e di Cassano). Intorno alla metà dello stesso secolo ottavo la regione perde la denominazione di Bruzio e assume quella di Calabria che fino ad allora era servita per indicare il territorio bizantino di Terra d’Otranto. Intorno al 725 il termine Calabria servì a identificare l’intera regione.

Nel 1060 Bisanzio fu costretta a cedere Reggio e la Calabria ai Normanni, nel 1571 il Barrio scriveva che nella parte meridionale della Calabria gli abitanti si servivano del latino e del greco per gli usi quotidiani e officiavano la messa col rito bizantino e in lingua greca. Il rito bizantino a Bova è abolito dal vescovo nel 1573, in diverse comunità parrocchiali di rito ormai latino i preti confessavano i fedeli in lingua greca. Nel 1595 esistevano ancora 59 preti di rito greco. Nel Seicento Marafioti testimonia la presenza della lingua greca in tutto il territorio dell’attuale provincia di Reggio. Nel Settecento il grande terremoto (1783) distrugge molti paesi che erano di origine bizantina o erano nati intorno a chiese, monasteri, conventi basiliani e disperde le popolazioni aggregate e integrate intorno a quella cultura.

Nella storia della cultura calabrese il dominio bizantino è stato molto importante, nel bene e nel male, ma occorre respingere il mito di una dimensione bizantina come totale e peculiare, soprattutto se è fondata – come da qualche tempo avviene – su nostalgie romantiche e su estetizzazioni dannunziane della liturgia, degli folklorici, dei santi italo-greci, della musica, dei nomi ecc.

Le prime influenze ascetiche basiliane in Italia meridionale erano strettamente collegate con la venuta delle armate di Belisario e Narsete contro i Goti ariani, in séguito vennero altri gruppi monastici dalla penisola balcanica per l’invasione avara, nel secolo VII dal medio Oriente e dall’Egitto per le conquiste arabe e per le lotte iconoclastiche. Nel IX secolo, al tempo delle riconquiste di Niceforo Foca, i monaci basiliani aiutarono l’attività militare del condottiero mediante la loro capacità di penetrare fra le popolazioni. La Calabria si gremisce di monaci venuti dalla Sicilia nel secolo X. La conquista normanna rende i basiliani sospetti di intesa con Bisanzio: in ogni modo nei loro confronti c’è una netta opposizione politica e contro di essi vengono creati i potenti monasteri benedettini (trasformati poi in cistercensi). Talvolta ai grandi complessi monastici di rito latino si aggiunge un piccolo monastero basiliano per accrescerne l’importanza. Ma ormai con la fine dei Longobardi per opera dei Franchi il patrimonio della Chiesa si arricchiva del ducato di Spoleto, annetteva diversi territori del Lazio, dava vita al ducato di Roma e allo Stato della Chiesa. Nel XII secolo il latifondo ecclesiastico era organizzato da vescovi molto politicizzati e potenti.

Durante la dominazione bizantina la Calabria fu sempre più minacciata dai Saraceni, tribù nomadi dedite alla rapina e al saccheggio, predoni in nome di Maometto, i quali nell’anno 812 compirono la prima incursione su Reggio; la conquista araba di Messina (843) rende più grave la condizione degli abitanti costieri della Calabria. Da allora in poi, nonostante l’intervento vittorioso di Niceforo Foca dell’882, i Saraceni compirono altre incursioni a Reggio (901), Tiriolo e Maida (929), Gerace e Cassano (948), Cosenza (988), Nicotera (1074) mentre le popolazioni si ritiravano verso l’interno. I nuovi centri abitati si fondano su alture: nuova fondazione bizantina è Catanzaro (XI secolo); Gerace, Stilo, Rossano, Nicastro, Roccella ecc. si assestano su speroni o intorno a un castello; l’occupazione di Cosenza da parte dei Saraceni nel 1009 porta alla diaspora degli abitanti nei numerosi casali, e lo sbarco saraceno a Taureana ha come conseguenza la fuga degli abitanti nella Piana e la fondazione di molti villaggi rimasti appartati nella loro vita montana. La civiltà araba non si sedimentò in Calabria, le incursioni furono momenti di violenza sicché nella regione non esistono monumenti della cultura araba.

La conquista normanna in Calabria ebbe effetti molto importanti perché modificò la situazione politica e religiosa. I Normanni organizzarono feudalmente i territori calabresi conquistati, divisero la regione in due giustizierati, per la loro alleanza col Pontefice favorirono il clero romano, fecero costruire molte chiese. La grecità continua nel centro più importante, Rossano, un vero baluardo della cultura bizantina, di cultura greca religiosa, umanistica e scientifica. Ma ormai si tratta di sopravvivenze, di affascinanti e fantastici residui d’arte e di rito religioso, poiché mentre i Normanni creano il vescovato di Mileto, erigono l’abbazia di Santa Maria e degli Apostoli, mentre si sviluppa l’ordine dei cistercensi, nel 1089 il metropolita greco di Santa Severina si sottomette a Roma, le istituzioni religiose vengono romanizzate. Il vescovato di rito greco si estinguerà a Crotone nel 1261, a Oppido nel 1301, a Rossano nel 1364, a S. Ciriaco di Locri nel 1497.

Con i Normanni l’Italia meridionale ha una unità giuridica che subordina allo Stato i particolarismi politici sicché i feudatari autonomi sono obbligati a giurare fedeltà al re. Nel 1208 Federico II, nato da Enrico VI di Svevia e da Costanza d’Altavilla, riunendo nelle sue mani il potere del Sacro Romano Impero Germanico e quello regio dei Normanni continuerà l’idea dell’autorità assoluta del sovrano. Promosse la coltivazione delle zone montane della Calabria, l’allevamento del bestiame, la coltivazione degli agrumi, la fondazione delle abbazie di Serra S. Bruno, di S. Giovanni in Fiore, la fondazione del porto di Crotone.

Lo sviluppo economico della regione ha favorito l’aumento della popolazione ebraica nella regione. Gli Ebrei risultano presenti a Catanzaro, Nicastro, Cosenza, Reggio, Gerace, S. Severina, Strangoli, Seminara, Tropea, Simeri, Monteleone, Acri, Crotone, Squillace, Tritanti e in numerosi villaggi. L’influenza del pensiero ebraico fu enorme anche per la centralità che la Calabria aveva nel Mediterraneo. Gli Aaron di Bagdad introdussero la mistica «del carro» e quella dei «sette santuari»; Abrham Abulafia fu un esponente della Kabala profetica ed estatica (scioglimento dell’anima dai vincoli carnali e tensione verso la realtà metafisica); dall’Oriente giunse Ben Shimuel di Acri; alla fine del Cinquecento la Kabala svolge la speculazione della creazione come dramma cosmico: espositore è Sharim Vital.

Mentre ancora per S. Nilo la vita di un cristiano vale per quella di sette ebrei, per Gioacchino da Fiore il popolo ebreo è un fratello maggiore di quello cristiano. Fra il Quattro e il Cinquecento nel crotonese le comunità ebree erano presenti in dodici o tredici centri del territorio con 58 «fuochi» o famiglie; a Catanzaro la Giudecca accolse oltre il dieci per cento della popolazione e gli ebrei ebbero fino al 1541 (data della loro cacciata da Regno) il controllo del commercio dei tessuti e dei metalli; comunità ebraiche si stanziarono a Santa Severina, Mesoraca, Strangoli; a Santa Severina nel 1308 un ebreo, Giudeo Mataluso, ebbe in affitto la gabella della tintoria, i giudei abitavano nel quartiere della Grecia o Timpa dei Iudei. Oltre che nella mercatura gli ebrei si distinguevano nelle arti liberali e nella medicina fin dal secolo XIV in Calabria. Non sempre ci fu tolleranza, non mancarono maltrattamenti e persecuzioni perché gli ebrei venivano considerati usurai in quanto pretendevano pegni del valore quadruplo del danaro che davano in prestito.

Di un umanista ebreo cristianizzato, Agazio Giudacerio di Rocca di Corace (1477-1542), autore di grammatiche ebraiche, insegnante nel Collegio di Francia è stata data notizia in un convegno del Centro Studi «Gangale» di Catanzaro sugli ebrei in Calabria in cui si è parlato della scoperta, avvenuta nel 1985, a Bova Marina, dei resti di una sinagoga risalente al IV secolo dopo Cristo in un’area precedentemente occupata da un insediamento ellenistico.

In Calabria la severità vetero-testamentaria ha concorso a definire nel profondo ideologia e psicologia della giustizia vendicativa, della punizione, del misoginismo, della dannazione di cui si trovano segni non labili nelle imprecazioni popolari. Medici ebrei nel Medioevo furono il calabresizzato Benedetto Shabbatai Donnolo, Giuseppe Vidal; gli ebrei introdussero il carattere a stampa a Cosenza e a Reggio con Salomo ne Alemanno di Manfredonia nel 1478. Gli ebrei calabresi introdussero nella regione la coltura del cedro per talea, la coltivazione della palma da dattero, della canna da zucchero, della manna. A metà del secolo XV a S. Lucido mercanti ebrei aprirono un banco di prestito.

Studiosi di mistica, sia sefarditi che aschenaziti, elaborarono in Calabria le loro dottrine come Alonso Nuñes filosofo neoplatonico, mago e teologo, marrano di origine spagnola che, rifugiatosi a Cosenza, fu uno dei maestri di Telesio.

Alla religiosità occidentale appartiene Bruno, nato a Colonia intorno al 1027. Dopo essere vissuto in comunità eremitiche ottenne da Ruggero terre selvose nelle Serre calabresi dove fondò con un gruppo di seguaci normanni, borgognoni, italici e calabresi, la certosa nella quale morì nel 1101 (pochi mesi dopo che a Mileto era morto Ruggero assistito da Bruno). Fu canonizzato nel 1723. La certosa fu centro di spiritualità. Ma anche di attività economiche che servirono per l’espansione territoriale e per scalzare i basiliani (una delle vertenze dei bruniani fu con i basiliani di S. Gregorio di Stalettì). Il terremoto del 1783 colpì gravemente la certosa che in quell’occasione fu anche saccheggiata.

Il feudalesimo fu esteso dai Normanni agli ecclesiastici (vescovi e abati), anche per contrastare i feudatari laiche se dai Normanni in poi la Calabria entra in una più vasta e unitaria formazione politica tuttavia da allora il feudalesimo farà sentire il suo grave peso che contribuirà ad affrettare la decadenza secolare della regione. Infatti nell’età angioina e aragonese il dominio feudale si concentrerà in mano di poche persone; dominerà il latifondo, apparirà la malaria, le pianure vicine alle coste saranno abbandonate dagli abitanti e comincerà la desolazione di vaste contrade.

Un relativo concreto avviamento verso il miglioramento delle condizioni economiche si ha in Calabria con Federico II di Svevia che favorì l’agricoltura e il commercio accordando protezione agli ebrei (numerosi nel Reggino) i quali detenevano l’attività creditizia. Federico II costituì dei mercati in varie città e cittadine calabresi, curò il rifacimento della grandiosa cattedrale di Gerace, fu presente il 30 gennaio 1222 alla consacrazione della cattedrale di Cosenza in cui più tardi sarà sepolto il suo figlio suicida Enrico lo Zoppo, nel 1235 il suo segretario Matteo Marcofaba faceva ricostruire Vibo Valentia che assumeva il nome di Monteleone. La fondamentale politica normanna di favoreggiamento del clero latino non esclude, tuttavia, una tolleranza e, in certi casi, un particolare favore verso le badie basiliane che, anzi, con Ruggero II si sviluppano nel cosentino, nel rossanese, nella Piana, sullo stretto di Messina, nei dintorni di Reggio e lungo il litorale ionico. Bartolomeo di Simeri fu, anzi, l’interprete dei nuovi rapporti tra il popolo e la corte normanna. Era venuto Bartolomeo dai dintorni di Catanzaro a Rossano per fondare una «scuola di anime», era stato presentato alla corte normanna che fece erigere un monastero di cui il monaco diventò abate. La nuova abbazia fondata per Bartolomeo, affettuosamente chiamato in seguito «il patire» (padre), fu dotata e feudalizzata dai Normanni per i quali gli abati avevano il grado di baroni. La badia di Bartolomeo, posta fra Rossano e Corigliano, diventò un ricco centro di spiritualità e di cultura, per opera di questa badia il grecismo persistette nella lingua, nei costumi e nel rito. Tale persistenza di grecità ci ha conservato documenti linguistici in dialetto calabrese scritti in alfabeto greco; il fenomeno si riscontra anche in Sicilia (soprattutto a Messina) e nel Salento. Il primo documento del dialetto calabrese si ha nella Carta rossanese, scritta intorno alla fine del secolo XV, conservata nell’Archivio segreto vaticano. La Carta contiene la traduzione in volgare, scritta in caratteri greci, di un diploma di Ruggero II, conte di Calabria e di Sicilia, con cui si concedono privilegi e possedimenti e si dà conferma di altri al convento della Nuova Odegitria di Rossano. A un testo già pubblicato dal Montfaucon e dal Trinchera, più tardi il Parlangeli ha aggiunto altra copia che ha pubblicato in sinossi con la precedente. Probabilmente il documento era intestato a Bartolomeo di Simeri, fondatore e primo igumeno della Neo Odegitria di Rossano e risale al 1130; pertanto rappresenta il più antico documento dialettale calabrese. La Carta rossanese si iscrive in una serie di altri documenti e diplomi che sono stati scarsamente studiati. La sua particolarità dipende dal fatto che l’amanuense traduce da un testo greco e traslittera in calabrese; probabilmente l’amanuense è lo stesso traduttore che, forse, veniva traducendo direttamente dal testo greco.

Questa considerazione deriva dal fatto che, ha notato il Parlangeli, glosse e correzioni interlineari fanno presupporre che il traduttore avesse sotto occhio il testo greco. I calchi linguistici greci sono una conferma; il documento che l’amanuense teneva davanti a sé poteva essere anche quello autentico. La lingua della Carta è dominata da elementi culti e, pertanto, non si può parlare di semplice e autentico dialetto calabrese di Rossano ma si può parlare di una veste letteraria comune all’Italia meridionale, specificamente presente negli atti pubblici, colorata da latinismi giuridici e formulari religiosi: le punte calabresi emergono qua e là, secondo noi probabilmente smorzate dal fatto che il documento fu tradotto e trascritto nel tardo secolo XV, quando l’italianizzazione della lingua degli uomini colti ha coperto la spontaneità creativa originale.

Il documento dimostra che i monaci di rito greco adottano il volgare romanzo, del quale si servono necessariamente anche negli usi pubblici che non siano quelli del rito: il greco è da loro conosciuto, e più del latino, per gli usi liturgici e per lo studio delle scritture religiose. Ma ormai l’uso del greco come lingua quotidiana e comune non esiste più.

Nel nostro documento, quindi, esistono calchi dal greco, prestiti dal latino e mescolanze con l’italiano letterario; un fenomeno caratteristico del territorio calabrese preso in esame e già dominato dalla grecità, mentre in territori salentini, ad esempio, l’insorgenza dialettale è, in qualche testo, meglio precisata e documentata. Citiamo qualche breve passo della Carta rossanese in traduzione fonetica:

kum kuesto ordin (amu a lli) monaci iterum sekundarie (a) tutti li vellani kuali (sonno de) koriano et in altro loko, li recettati a llo vostro loko coé a ll (o feo ke fo) e de Framund (o), et li ómeni kuale recettati kuali sonno vostri at kualùnkata loko avéssero loro stabbili, àbbiano kuesti stabeli semper sine impedimento […] konfirmato kum lo presente sòlito siggillo; sigillato kum lo àureo nostro siggillo dato a lla supradditta fraternitate […].

Si tratta di un documento linguistico, come si vede, la lingua letteraria volgare riceve i primi contributi che un secolo più tardi, si atteggeranno in veste artistica con l’apporto della cultura e della poesia della«magna Curia»5.

La maggiore personalità che incontriamo sul finire del Medioevo è quella di Gioacchino da Fiore. Le notizie sulla vita di Gioacchino sono ancora contornate di leggenda. Noi ci atterremo, come alle più sicure, alle notizie della biografia di Luca, arcivescovo di Cosenza e già segretario di Gioacchino. Nacque Gioacchino fra il 1130 e il 1136 a Celico, un paese del cosentino, sulla via della Sila, in un paesaggio suggestivo e conforme alla futura fervida immaginativa del profeta. Gioacchino nacque probabilmente da famiglia contadina e servo della gleba. Certamente in una società contadina: «qui sum homo agricola e iuventute mea» scrive egli stesso. Il De Lauro e gli autori cosentini, invece, favoleggiarono di Gioacchino figlio di notaio o cortigiano di Ruggero II.

I momenti della sua vita si possono sintetizzare nelle seguenti date: fra il 1147 e il 1149 Gioacchino si reca in Palestina, attratto dal sogno dell’Oriente e dal vagheggiamento dei luoghi dove era nato Cristo, più tardi è monaco cistercense nell’Abbazia di Sambucina, presso Luzzi, poi abate nell’Abbazia di Corazzo. Fra il 1183 e il 1184 dimora a Casamari e nel secondo anno di dimora incontra a Veroli Lucio III. Nel 1189 si distacca dai cistercensi e fonda la Congregazione Florense, dotandola di una regola più severa di quella cistercense. La Congregazione fu approvata da Celestino III nel 1196. Sappiamo che nel 1190 Gioacchino fu a Messina (dove erano convenuti re Tancredi, il re di Francia e quello di Inghilterra), chiamato per profetizzare, probabilmente, intorno alla prossima crociata; nel 1198 si reca a Palermo per confessare l’imperatrice Costanza. Vi si reca insieme con Luca, che aveva conosciuto a Casamari e che diventerà suo segretario e biografo e che al tempo del viaggio a Palermo era abate della Sambucina. A Canale, presso Pietrafitta Gioacchino morì il 30 marzo 1202.

Le concezioni escatologiche del primo cristianesimo, la reviviscenza di rinnovamento spirituale operata dai cistercensi, dai basiliani, sono il lievito della vivificante concezione che della storia umana ha Gioacchino e che dichiara nelle opere Concordia veteris et novi Testamenti, Psalterium decem chordarum, Expositio in Apocalipsim.

Se si considera che per la nozione cristiana degli avvenimenti tutti i fatti storici concorrono al fine di preparare il regno di Dio e sono gradi di un processo, momenti del travaglioso cammino dell’umanità verso Dio, la concezione di Gioacchino, la sua filosofia della storia, è pienamente provvidenziale. Gli uomini sono strumenti della Provvidenza e la liberazione non si può svolgere che in lotta con le forze del male. Il processo storico, se così vogliamo chiamarlo, si può riconoscere anche analiticamente, nei suoi gradi dalla carne allo spirito e dopo l’Anticristo verrà il regno di Dio. Il riconoscimento dei momenti anche analitici dell’ordine vivente è una prova dell’ordine provvidenziale e della rivelazione. Poiché questa non è conclusione delle manifestazioni del divino e non è giunta alla sua pienezza ma è ancora aperta a future manifestazioni, Gioacchino interpreta il libro della rivelazione, cioè, l’Apocalisse, e inoltre il vecchio e il nuovo Testamento, gli avvenimenti descritti, le persone rappresentate, i sacramenti, le parabole ecc. come allegorie e significati di una realtà che dovrà attuarsi e che è adombrata in questi testi.

Si tratta di una concezione aperta, dinamica, che non bada tanto ai valori storici e filosofici dei testi quanto ai valori simbolici. Non si tratta di valori assoluti ma propedeutici, di momenti importantissimi ma preparatori e transitori in relazione a quelli che essi preannunciano. La concezione di Gioacchino non è intellettualistica né di pura teologia ma pragmatica nel senso che il trinitario, quello cristologico, ad esempio, sono momenti, esperienze religiose aperte verso il più profondo mistero spirituale, quello della venuta del regno di Dio, della plenitudine dello Spirito. Come nella Trinità c’è molteplicità e unità di sostanza così nella storia provvidenziale sono tre epoche, di cui la seconda deriva dalla prima e la terza da ambedue.

Nella prima età, quella dell’ebraismo, si è manifestata la gloria del Padre, si è avuta la legge di Mosé, l’uomo era ancora dominato dai sensi e dalla carne; nella seconda età si è manifestata la gloria del Figlio con la Chiesa cristiana ricca di riti e dogmi e con l’inizio del regno dello Spirito; la rivelazione si compirà solo in una terza età, quella dello Spirito, quando ritornerà Elia e gli uomini saranno puri dagli influssi malefici della carne. Dopo il messaggio dell’antico e del nuovo Testamento verrà l’Evangelo eterno, la Chiesa interamente spirituale, libera da gerarchie, da visibili sacramenti, da riti e da costrizioni della lettera. Lo Spirito, in cui risplenderanno il Padre e il Figlio, aliterà sulla Chiesa della pace e della benedizione, sugli uomini nuovi, i monaci, i laici puri di cuore che non subiranno il lavoro né la disciplina ma vivranno nella contemplazione e nel riposo sabatico.

Secondo Gioacchino l’età del secondo regno, quello del Figlio, stava per concludersi ed era prossimo l’avvento del regno della Ecclesia Spiritus, dell’Evangelo eterno. Occorreva professare il rigido ascetismo, praticare l’amore, rifiutare la violenza, conciliare i Testamenti per affrettare la venuta dello Spirito Santo che cominciava a illuminare il mondo con la sua luce. Ma l’avvento sarebbe stato preceduto, nella visione profetica di Gioacchino, dalla venuta di un misterioso personaggio che avrebbe percosso la Chiesa per i suoi vizi, da un papa angelico che avrebbe realizzato il regno vero della santità, da uomini nuovi, i monaci puri la cui norma sarebbero stati gioia e canto, libertà e amore, rinunzia all’egoismo e alla cupidigia.

Motivi del catarismo, che si era svolto tra influssi greci, motivi agostiniani, come quello del pessimismo e del mondo come corruzione che lascerà il posto all’avvento del regno di Dio, non mancano; ma il punto centrale della visione profetica di Gioacchino è quello che fa convergere tutti gli elementi dogmatici, teologici, dottrinari sul rinnovamento religioso della Chiesa e degli uomini. A noi non pare che i motivi politici e sociali non esistano nel pensiero di Gioacchino ma che prevalgano quelli carismatici di origine paolina. Già Paolo di Tarso nella prima epistola ai Corinzi aveva scritto che nell’antico Testamento sono segnati momenti ed eventi verificatisi nella nuova legge, aveva parlato della preordinata ascensione dell’uomo da carne a spirito, nella seconda ai Corinzi aveva fissato la distinzione tra il significato letterale e quello spirituale del nuovo Testamento, nell’epistola ai Romani aveva dichiarato che Giudei e Greci rimanevano sotto peccato e che dalla conversione di Israele sarebbe nata l’unità della fede; infine Paolo aveva delineato la divisione cronologica ante legem, sub lege, sub gratia.

Quasi tutti i motivi gioachimisti erano, dunque, preesistenti e straordinarie coincidenze si possono riscontrare tra il pensiero di Gioacchino e quello di Gerkok di Reichersberg (1093-1169) e di Anselmo di Havelberg illustrati dal Dempf. Ma Gioacchino caratterizza la sua concezione insistendo su un ordine cronologico e spirituale della storia del mondo sempre aperto e asservendo tutti gli elementi della precedente predicazione all’ultimo tempo, quello dell’Evangelo eterno, che avrebbe compiuto la rivelazione. Della terza età il profeta era forse lo stesso Gioacchino, l’iniziatore della sacrale teofania che avrebbe dato luogo alla fine della Chiesa come amministratrice di sacramenti, come custode di simboli, come ordinatrice di gerarchie: ad essa succederà l’Ecclesia Spiritus che vedrà il trionfo della povertà, della purezza dei monaci, dell’ideale riposo contemplativo in cui le due precedenti leggi saranno osservate nel loro significato spirituale. La vicenda umana è da Gioacchino avvicinata in modo parallelo al mistero trinitario ma nel genuino pensiero dell’abate non è da vedere, secondo taluni critici, il concetto di una terza emanazione differenziata dalle precedenti due né di un terzo Testamento.

Nella terza età dal corruttibile si passerà all’incorruttibile, dal significatum Petri (la lettera) al significatum Johannis (lo spirito) perché lo Spirito Santo illuminerà quelli che sono «vere monachi» e l’umanità intera. Anche il Sacerdozio di Cristo, quindi, rimarrà nella terza età ma purificato, rianimato dallo Spirito il quale avrà scardinato la lettera e i sensi. Mentre con l’antica Legge il Padre aveva parlato col tramite dei profeti e nella nuova legge l’illuminazione apostolica è stata più larga con la parola dei dottori della Chiesa e con i Santi, nel regno di Dio e dello Spirito Santo tutti gli uomini rinasceranno e saranno diversi («ut quodammodo non simus quid fuimus, sed alii esse incipiamus», Psalterium, 260). Solo quando ci sarà la palingenesi umana, il rinnovamento degli uomini, quando sarà stata abolita la servitù alla carne, ci sarà la vera santificazione dell’uomo e la glorificazione dell’Onnipresente perché la grazia non dovrà più essere invocata per mezzo di simboli, figure, riti, ma regnerà perenne nella vita sacramentale.

Gioacchino non ha mai dichiarato temporale la dottrina di Cristo ma l’osservanza esclusiva della lettera («quod est littera non eternum») sicché il nuovo Testamento appare diviso in due momenti, quello della lettera e il regno dello spirito, la seconda e la terza età. Dal secondo al terzo momento dovrà esservi non mutazione di fede ma di vita; però è implicita nel terzo momento una diversificazione qualitativa, un progres so dall’uomo carnale all’uomo spirituale. La terza persona del mistero trinitario avrebbe spiegato un processo ab intra sugli uomini, come un processo ad extra avevano rivelato il Padre e il Figlio con le leggi.

Il punto più ardito della visione di Gioacchino è quello del rinnovamento religioso non solo della Chiesa ma di tutti gli uomini, rinnovamento che è il fine della concezione pragmatica dell’abate. Questi intendeva che nella Chiesa celeste non poteva trovare posto il clero del secondo stato diventato simoniaco e mondano, il rinnovamento era una necessità morale e religiosa. Ma in tal modo tutta la rivelazione, secondo l’interpretazione ortodossa, veniva modificata come veniva distorta, con la nascita, in una determinata età, di «novi homines», la concezione del canone cattolico della perenne facoltà dello Spirito di inviare doni.

La personalità di Gioacchino domina tutte le attese della nuova età per la sua fondamentale e nuova partizione della storia: basti il fatto che Gioacchino diventa un prestanome a innumerevoli profeti ed escatologi i quali all’abate calabrese si richiamano nell’ostentare i catastrofici eventi del loro repertorio semantico. L’idea della Chiesa «carnale» opposta a quella «spirituale» suscita una tempesta escatologica intorno alla metà del Duecento con la seconda generazione gioachimita, quella dei frati spirituali, i quali danno una interpretazione troppo concreta delle concordanze di Gioacchino la cui dottrina è esposta al rischio di prove storiche: non esclusa la fine del mondo fissata all’anno 1260.

In realtà tutto ciò appartiene al gioachimismo. Invece Gioacchino si era mosso nel solco della tradizione interpretativa biblica e il suo annunzio della nuova età costituiva la chiave di volta

del passaggio dal Medioevo al Rinascimento, dall’attesa della fine dei tempi, alla attesa della nuova età, dal terrore dell’imminente giudizio finale alla speranza di una nuova età di redenzione, di perdono, di riscatto; dall’apocalittica visione del ritorno del Cristo giudice, alla fiduciosa aspettativa di una salvezza che a ogni singolo poteva essere assicurata dalla grazia dello Spirito e dai carismi della Chiesa (R. Morghen, L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo, in Atti del Convegno del Centro Studi sulla spiritualità medievale, Todi 1962, p. 452).

Dopo la morte di Federico II di Svevia cominciò a spuntare una ricca letteratura gioachimita fondata su testi apocrifi e su interpretazioni che venivano tratte da opere di Gioacchino o attribuite a Gioacchino. L’attribuzione a Gioacchino di motivi anticuriali, antidogmatici, pauperistici, avversi al clero secolare, favorevoli all’imperatore che avrebbe dovuto, nelle profezie, distruggere la falsa Roma poté avvenire per nobilitare l’opera di qualche ramo di ordine religioso, per proteggere con il nome di Gioacchino la propria azione, per disgregare gli istituti feudali, per combattere la Chiesa da posizioni politiche o sociali che avrebbero avuto la loro genesi in Gioacchino.

Mentre per la Chiesa, dopo la morte di Gioacchino, la posizione dei Florensi fu canonicamente regolare, le dottrine del fondatore dell’ordine furono condannate, insieme con altre eretiche, nel quarto Concilio Lateranense del 1215 e con il protocollo di Anagni del 23 ottobre 1255.

Le dottrine gioachimitiche ebbero nel Duecento grande diffusione nonostante le condanne, e l’eco delle enunciazioni profetiche dell’abate calabrese si ha nella predicazione dei francescani spirituali i quali interpretarono l’avvento di S. Francesco come la nascita del monachesimo della terza età, dello Spirito Santo. Di tempo in tempo, di luogo in luogo, sul fondo della generale insoddisfazione materiale e spirituale, le profezie di Gioacchino vennero interpretate a seconda delle circostanze politiche, sociali e religiose o per giustificare le speranze o per rinsaldare propositi pratici, ridestare interessi e movimenti. Anche le idee di Dante con il mito del Veltro, di Petrarca con le invocazioni allo «Spirto gentil», di Cola di Rienzo con il rinnovamento di Roma e del mondo, di Savonarola con la rinascita spirituale risentirono della spiritualità gioachimita che rendeva più aperti i tempi, meglio disposti ad accogliere il soffio vivificatore della verità. Tuttavia a Gioacchino furono attribuite opere e dottrine che sue non erano.

Gioacchino diventò scudo di altre idee e di altre tendenze: profezie sull’Anticristo, sulla fine della seconda età e sull’avvento del regno di Dio puntualizzati al 1260, vaticini sull’ordine di S. Francesco, ecc. vennero attribuiti a Gioacchino dagli pseudo-gioachimiti per le cui interessate interpretazioni la dottrina di Gioacchino fu spesso condannata. Il francescano Gherardo da Borgo S. Donnino, ad esempio, autore dell’Introductorius in Evangelium aeternum, ammiratore di Gioacchino, è processato nel 1255 dai cardinali della commissione di Anagni la quale tra gli atti di accusa contro lo stesso Gioacchino registra: «Haec doctrina tendit finaliter ad subversionem cleri, hoc est romanae ecclesiae et obedientium ei». Già dal 1215 la Chiesa aveva visto nelle dottrine di Gioacchino una svalutazione del proprio magistero, una mutazione dei termini della rivelazione, del dogma trinitario. Ma a metà del secolo XIII le parole di Gioacchino erano ormai state alterate nel loro significato genuino, le formulazioni di Gioacchino intorno alla Chiesa che non è perfetta fin dall’origine ma organismo storico che segue le vicende delle tre età, erano state accentuate nella valutazione del grave stato di materialità e di corruzione in cui la Chiesa si trovava allora ed erano state volte a sostenere tesi e teorie antiecclesiastiche.

Il rapporto tra Dante e Gioacchino, come continuità di atteggiamenti profetici aspiranti al rinnovamento della Chiesa e della società al fine dell’unità del mondo cristiano, si può definire intorno a questi temi fondamentali su cui esistono molte somiglianze e molte analogie:

  1. Lamento per la decadenza morale e la corruzione degli uomini e della Chiesa e per il prevalere dei vizi.
  2. Invettive contro la corruzione e la mondanizzazione della Chiesa, di alti prelati ed ecclesiastici.
  3. Necessità di una palingenesi morale e sociale.
  4. Avvento di un riformatore che muterà le condizioni del mondo.
  5. Avvento del regno di Dio.

A ciascuno di questi punti sono legate profezie in Gioacchino e Dante. Ma i rapporti fra Gioacchino e Dante si pongono, oltre che sul piano spirituale, sul piano della cultura in una maniera più esatta e precisa dopo che nel 1940 Leone Tondelli pubblicava Il libro delle figure di Gioacchino. In una ristampa del 1953 Il libro delle figure di Gioacchino, derivante dalle tavole di un codice reggiano, era criticamente edito anche sulla base di un codice oxfordiano per le tavole perdute del reggiano, di altri codici fra cui uno di Dresda per figure minori.

Il Tondelli proponeva chiaramente il problema della presenza della testualità di immagini e figure delle tavole di Gioacchino alla fantasia e all’ideazione di Dante nel concepire momenti, disegni, immagini, strutture della Commedia. È bene chiarire che Gioacchino non aveva scritto un Libro delle figure ma aveva composto con disegni o fatto comporre da amanuensi e miniaturisti delle tavole anche colorate le quali ebbero nel Medio Evo, pur se con qualche variante, una diffusione grandissima. Esse interpretano figurativamente le idee di Gioacchino, sono il sussidio didascalico-esplicativo della tematica ideologica dell’abate calabrese.

Gli studi del Tondelli apparvero quando la guerra aveva cominciato a divampare sull’Europa e, nondimeno, suscitarono grandi discussioni tra coloro i quali ammisero il rapporto intercorrente fra Gioacchino e la Divina Commedia (ricordiamo Papini, Guido Mazzoni, Ernesto Bonaiuti, Gabriele Pepe, Carlo Grabher, H. Grundmann) e coloro i quali lo negarono (Francesco Pastonchi, Giulio Bertoni, Francesco Maggini). Il Libro delle figure è una raccolta, quindi, di elementi figurativi l’uno staccato dall’altro che riassumono illustrativamente la Concordia veteris et novi Testamenti, l’Expositio in Apocalipsim, lo Psalterium decem chordarum.

L’osservazione delle tavole di figure offre una conferma delle opere autentiche, spiega taluni enigmi non prima interpretati, rivela taluni atteggiamenti dell’abate; ad esempio, per la prima volta si può interpretare che la nuova Babilonia è per Gioacchino l’impero degli Alemanni, cioè degli Svevi, i nuovi Caldei; si può correggere l’ipotesi di Grundmann e Buonaiuti di un Gioacchino puro contemplativo e apolitico: in verità Gioacchino fu fedele alla causa della Chiesa e lottò contro l’Impero, seguirono il fondatore anche nell’orientamento politico i Florensi che fra il 1243 e il 1247 dovettero a Pisa nascondere le opere di Gioacchino perché non cadessero nelle mani di quello che la tradizione gioachimita aveva ormai identificato con l’Anticristo, Federico II; si può valutare che la Chiesa greca partecipa per Gioacchino ex aequo con la romana alla vitalità della Chiesa; si può notare l’ubbidienza e la fedeltà di Gioacchino al papato, come anche nel testamento spirituale (se è di Gioacchino) si può leggere.

Noi siamo oggi molto lontani dal simbolismo medievale e da Dante per il quale il simbolo ha capacità di riflettere contenuti universali: l’aquila, la croce, la scala, il Veltro ecc. sono vive presenze di cose, di idee, di immagini, di istituzioni, mentre oggi c’è una decadenza delle cose (ma anche dei pensieri, dei sentimenti umani) perché le cose non riflettono contenuti universali. Per il Tondelli le figure del codice di Gioacchino gettano luce sulla Commedia e vari canti del poema ne ricevono limpida chiarificazione: i tre cerchi che rappresentano in Par. (XXXIII, 115-120) la Trinità divina erano per la prima volta rappresentati secondo l’intenzione e i dettati dell’intuizione dantesca; il mistero dell’incarnazione nel mistero trinitario di Par. XXXIII, 127-141 era sensibilmente figurato nelle tavole di Gioacchino; le immagini del futuro come nuovo fiore (Par. XXVIII, 142-48), l’M che si trasforma in aquila e l’ingigliarsi all’M (Par., XVIII, XX) che non si ritrova altrove sono sensibilmente raffigurati nelle variopinte e bellissime immagini di Gioacchino. Nel Paradiso Dante colloca Gioacchino accanto a S. Bonaventura per sottrarlo alla deformazione del pensiero e degli atteggiamenti compiuta dai gioachimiti estremisti: per il Tondelli S. Bonaventura si trova sulla linea del rinnovamento predicato da Gioacchino ma ridotto nell’ambito dell’ortodossia.

Per altre consonanze di Dante con Gioacchino nel Paradiso il Tondelli ricorda la «dolce lira» del cielo di Marte e il salterio. Già Filippo Ermini aveva esaminato l’ordinamento dei cori angelici e delle virtù del Psalterium decem chordarum, una figura di reminiscenza biblica a modo di piramide col vertice tronco: nel salterio all’ordine mondano di perfezione spirituale corrisponde un ordine celeste di dieci gradi, di cui nove formati dalle nove schiere angeliche e l’ultimo dall’uomo, Adamo, che in conseguenza dell’umanità di Cristo è superiore a tutti gli angeli. La somiglianza del salterio con l’ordinamento dei cieli del paradiso dantesco è singolare anche per il significato simbolico di virtù e di intelletto che ad ogni cielo si attribuisce. Non occasionale sembra il richiamo della rosa celeste dantesca dei beati alla miniatura del salterio di Gioacchino che raccoglie al centro della cetra tutta la Santa Chiesa nel canto alla Trinità divina.

Nella grande visione allegorica che chiude il Purgatorio, sia nella ideazione che nei particolari, secondo il Tondelli, mediane tra il suggerimento dell’Apocalisse e la realizzazione della Commedia sono le tavole di Gioacchino con la modificazione politica che secondo Dante la nuova Babilonia non è, come per Gioacchino, l’Impero ma la Roma papale. Per il Tondelli le profezie della Commedia non vanno interpretate come assolute creazioni del poeta ma alla luce delle correnti spiritualistiche contemporanee, delle speranze escatologiche del tempo.

Per quanto riguarda la dantesca profezia del Veltro, in una tavola di Gioacchino c’è un cane tra due ordini religiosi che tengono in alto pregio la povertà nel terzo momento dello Spirito Santo. Il feltro e feltro dantesco deriverebbe dal rozzo saio e dall’umile capestro dei monaci innamorati della povertà. Nella tavola II del Libro delle figure c’è la prescrizione degli abiti dei religiosi nella terza età: «non utentur palliis sed tantum cappis, ut inter habitum illorum et laycorum differentia sit»; i laici «cooperientur pallis simplicibus […] Victus vero et vestitus erit simplex sicut decet christianos: vestimenta peregrina non invenientur inter eos. Color tincture procul erit ab eis». Il «pater spiritualis» eguaglierà i beni. Il Tondelli interpreta Dante attraverso Gioacchino e intende che il Veltro, il Cane, nascerà tra il popolo nuovo dei monaci poveri; pertanto il Veltro non appartiene all’ambito dei poteri civili ma all’ambito ecclesiastico e religioso. Il Veltro comunque, non è lo Spirito Santo che nelle tavole di Gioacchino ha il proprio pertinente simbolo, la colomba. Il Cane è un elemento dell’attesa di Gioacchino ma l’attesa della venuta dello Spirito Santo non è nella rappresentazione né nella dottrina di Dante. Al tempo di Dante erano ormai avvenuti molti mutamenti politici e la speranza politica dantesca si muta da un uomo politico ad un altro fermandosi su Arrigo VII, su un imperatore, mentre la tavola del «novus ordo» di Gioacchino ha valore unicamente spirituale e monastico.

In sostanza Dante trasse da Gioacchino molte derivazioni che tradusse in immagini, derivò suggestioni simboliche, allegoriche, elementi della vita religiosa e spirituale, ideazioni: ma mai nella Commedia è accolta la dottrina della «Ecclesia spiritualis» contrapposta alla Chiesa reale pur se Dante per risanare la società e la Chiesa abbia derivato dalle correnti gioachimitico-francescane il linguaggio violento, contro la stessa suprema guida della Chiesa, della quale non ripudiò mai l’autorità. Le immagini desunte dai grafici, dalle tavole del Libro delle figure, dall’arte dei miniatori sono un libero imprestito, un impulso che la fantasia ha quasi sempre trasfigurato immettendolo in un ordine logico, ideologico, intellettuale aderente alle necessità artistiche, didascaliche, politiche, religiose del suo modo di vedere e del suo tempo. Più che la dottrina di Gioacchino, dunque, Dante colse le immagini, il fiore, la poesia della plenitudine della vita dello Spirito.

Ma Dante è assai vicino a Gioacchino e alla sua corrente nella condanna morale della degenerazione del suo tempo, nella speranza di un rinnovamento, dell’avvento di un riformatore. In Gioacchino è il momento più elevato del monachesimo calabrese che in molti era anche incoscienza mistica, carica di superstizioni e di terrori, rinunzia e fatalismo, fuga dagli altri uomini e rifugio sulle montagne o nelle grotte. Servaggio feudale, invasioni, terremoti, lotte cruente, malaria, pestilenze ecc. spingevano sulle montagne uomini che si davano alla santità; altri resistevano come briganti. La mancanza di aggregazione sociale che altrove era costituita dal comune, dalla borghesia, dal lavoro, dagli artigiani, gettò nel servaggio del feudo le plebi rurali avvilendole sempre più. Dal feudo è la fuga sulle montagne: eremiti e briganti si incontrano sulla Sila e sugli Appennini, sulle Serre e tra le grotte, con lo stesso desiderio di giustizia, di aspirazioni sociali. Nella storia della Calabria è avvenuto spesso che gruppi di famiglie rurali si siano ritirate sulle montagne per essere liberi da servitù, abbiano nominato un loro re che diventava il capo di una civile riscossa e di una resistenza contro le sopraffazioni.

Con diversa storia interna di cultura e di rapporti sociali, asceti e religiosi (i quali, spesso, appartenevano alle plebi rurali) si ritrassero dal mondo perseguendo un sogno di giustizia e di pace. Gioacchino offriva agli umili e ai diseredati una sovrumana utopia che resterà nella psicologia in quanto collegata con l’essenza cristiana del rinnovamento spirituale e si ritroverà in tutti i secoli della nostra storia. L’abate di Celico trasferiva nel futuro di uno status monachorum perfetto il tempo della pace e del mutamento degli uomini in creature quasi angelicate. Ma intanto le folle di miseri continuavano a vivere nella gleba, nel loro invalicabile inferno. Gioacchino si trovò a vivere sul displuvio di due mondi, di due chiese, di due lingue, in una sorta di terra di nessuno. Finivano le voci del mondo greco, un mondo più immobile e arcaico, assorto nella contemplazione di passati fulgori, nel sogno di una ormai impossibile rinascita dell’unità politica e religiosa; cominciava la più nobile, articolata, incisiva politica dei Normanni e degli Svevi, l’Occidente più vario e vivace determinava molteplici aspetti di civiltà che troveranno diverso sviluppo. Ci pare che sia questo il punto storico importante che determina in quel tempo ideologie, psicologie, azioni. Di lì a qualche decennio il misticismo profetico di Gioacchino, geniale di accenti per i suoi tempi e lievito di rinascita cristiana, diventerà una communis vox e si confonderà con accenti profetici attribuiti a Gioacchino e sorgenti qua e là nella Toscana, nella pianura padana, soprattutto a Parma.

La confusione del misticismo di Gioacchino con quello, talvolta interessato, di altri movimenti spirituali, non consentirà il riconoscimento del carattere originale del profetismo gioachimita ma la voce dell’abate calabrese resterà ancora per secoli come il simbolo di una speranza escatologica, contribuendo a determinare quella linea spirituale calabrese ardente di rinnovamento e di redenzione di cui abbiamo parlato in principio. Anche Dante apparteneva alla razza dei profeti ma quando Dante scriveva la Commedia aveva già frequentato lo studio fiorentino di Santa Maria dove si insegnava la filosofia di S. Tommaso, aveva avuto importanti dolorose esperienze politiche, aveva filtrato attraverso il suo spirito la precedente cultura, era umanamente impegnato nella milizia civile.

Come Gioacchino era stato monaco riformato (prima coi cistercensi e, poi, transfuga cistercense da Sambucina per fondare la Congregazione Florense, per niente doviziosa e opulenta come era diventata la sambucinese, ma più rigorosa e severa) Dante con l’esilio dal «bello ovile» si era sempre più distaccato dal gregge di coloro «che mai non fur vivi» e di quelli che vivono «senza infamia e senza lode», si era venuto impegnando come milite di una idea che non poteva essere seguita senza combattere contro gli avversari.

Gioacchino, «agricola a iuventute», era entrato in un ordine, quello Cistercense, che partecipava al moto di riforma monastica unendo al sentimento mistico la concezione del lavoro come elemento di trasformazione economica e sociale. I cistercensi contadini sono sempre in lotta con la natura, la montagna, la malaria, collocano i loro monasteri in terreni disabitati e paludosi, in cui sia necessaria l’opera insieme con la preghiera, dissodano il suolo, lo coltivano; la loro riforma religiosa diventa politica e sociale poiché essi lottano contro il dominio feudale dei vescovi-conti, contro la costituzione dei feudi ecclesiastici e aprono la via all’eguaglianza dei servi della gleba aiutando l’ansia di liberazione che fremeva nell’animo delle masse contadine del loro tempo.

Gioacchino quando si distacca dai cistercensi di Sambucina per formare la Congregazione Florense rimane nell’ambito della regola benedettina ma esige nel suo archicenobio una rivalutazione dei lavori manuali e il ritorno alla povertà evangelica. L’influenza culturale e sociale dell’Ordine sarà grandissima e l’archicenobio riceverà da re Tancredi una sovvenzione annua e da Enrico VI nel 1195 terre per la coltivazione. Dal moto di riforma cistercense, legato alla personalità isolata di S. Bernardo di Chiaravalle, derivano anche altri ordini nonché personalità isolate di mistici, di predicatori o folle di religiosi che esaltano la povertà contro la locupletazione determinata sia dall’accumulazione feudalistica sia dalla nuova economia dei liberi comuni. Arnaldisti, Pauperes de Lugduno, Pauperes Lombardi, Valdesi, Patari, ecc. predicano per il ritorno alla povertà evangelica; i Càtari, in cui sopravvivono temi dottrinari agostiniani, esaltano l’ascetismo, il pauperismo, l’astensione dalla violenza, il rifiuto dell’obbedienza alla costrizione esterna della legge religiosa o politica.

La componente sociale, quella pauperistica, è un elemento importantissimo, ecclesiastico e laico, dei moti di riforma religiosa. Alla protesta pauperistica si unisce il desiderio di rinnovamento morale e, spesso, anche politico. Pietro da Eboli nel Carmen de rebus siculis, ad esempio, manifesta il proprio entusiasmo per la dinastia Sveva restauratrice dell’impero ed esalta Enrico VI nonché il governo accentratore e unitario realizzato da Ruggero. Nella immaginazione popolare aveva avuta molta suggestione l’investitura di duca di Calabria e Puglia data a Roberto il Guiscardo dal papa. Ruggero II nel mosaico della chiesa della Martorana di Palermo appare incoronato dal Redentore. L’investitura papale al Guiscardo dava inizio alla lotta contro i Bizantini, alla latinizzazione della Calabria e della Puglia, ultimi baluardi dell’Oriente. Pietro da Eboli comprende, al pari di Gioacchino, l’importanza dei Normanni e degli Svevi nella politica italiana e canta che con il trionfo dell’autorità imperiale ci sarà quello della pace e dell’ordine e cesseranno le contese: «Nam unus Augustus solus et unus erit, | unus amor, commune bonum, Rex omnibus unus, | unus sol, unus pastor et una fides».

La fede monarchica avrà le sue ragioni filosofiche per opera di Egidio Colonna, di S. Tommaso, di Dante: per questi l’impero soddisferà al bisogno di rinnovamento civile e politico del mondo. Per Pietro da Eboli il ritorno dell’impero significa il ritorno dell’«aurea aetas» dei poeti dell’età di Augusto: «redit aetas aurea mundo».

Si avvertono, così, ai fini del rinnovamento, gli elementi costitutivi: pauperismo e religione da un lato, monarchia politica dall’altro. Il sogno non sarà, ormai, unicamente teologale o mistico.

I mistici non mancano neanche nel secolo XIII ma sarà maggiore la varietà di atteggiamenti e il sentimento religioso non sarà unicamente quello ispirato dal monachesimo. Diremo, anzi, che gli ordini benedettino e florense decadono per il sorgere degli ordini mendicanti, i domenicani che fondano centri di studio e lottano contro le eresie, particolarmente contro gli Albigesi e i Càtari, e i francescani che operano il rinnovamento spirituale con l’apostolato e le missioni.

La Sila, dalla quale Gioacchino emise il suo messaggio spirituale, era al centro geografico di tre mondi religiosi: quello della Chiesa greca, quello latino e quello dell’islamismo fiorente nella Sicilia. Il messaggio interpretava un ritmo divino nella storia, un ritmo dalle cui note passate si poteva divinare il futuro: «Est enim clavis vete-rum notitia futurorum» (In Apocal.). Lasciando da parte le difficili cabale dei parallelismi, delle concordanze dei Testamenti (soprattutto quelle dei gioachimiti), nella visione di Gioacchino c’è una tendenza al superamento di ciò che è letterale, materiale, servile per giungere allo spirito, alla libertà («ubi Spiritus ibi libertas»), alla luce attraverso un’evoluzione che consenta di «vivere secundum interiorem hominem», la meta finale assegnata agli uomini tutti. Lo stesso abate, il quale nel Psalterium si dice infastidito di essere legato ai ceppi della carica («in negotiis monasterii quae vere saecularia sunt aut pene saecularia judicanda»), interpreta la storia come processo di liberazione, come catarsi spirituale, elevazione «de claritate in claritatem». Sicché nella Concordia la prima età è quella della legge, della servitù servile, del timore, dei patriarchi, del tenue luccicare delle stelle, delle ortiche e delle erbe; la seconda età è quella della Grazia, della servitù filiale, della fede, dei giovani, del biancheggiare dell’aurora, delle rose, delle spighe; la terza età è quella pienezza della Grazia e dello Spirito Santo, della libertà, della carità, dei fanciulli, del giorno pieno, dei gigli, del grano.

Dietro le immaginifiche metafore di Gioacchino c’è la geniale intuizione della storia come libertà, come amicizia, come fanciullezza, come innocenza piena. Pur nell’ambito religioso di altri mistici o dottori della Chiesa Gioacchino recuperava, nell’oscurità dei tempi che grave incombeva, undici secoli di speranze cristiane, si richiamava ai valori autentici, spirituali dai quali il Cristianesimo era sorto. L’abate calabrese seppelliva i timori della fine del mondo, le preoccupazioni della prova millenaria, l’atterrimento dell’evenienza dell’Apocalisse. Egli apriva l’avvenire interpretando per la prima volta la storia come futuro e come libertà, come infinito procedere e trasfigurarsi nella felicità che non avrà mai fine. Al di là delle determinazioni particolari della fenomenologia della catarsi spirituale Gioacchino apriva agli uomini la speranza di un futuro in cui non ci sarebbe stata la servitù, creava il mito assoluto dell’età in cui il male, il lavoro, la vecchiaia, l’oppressione non sarebbero esistiti, il mito vagheggiato dai poeti e dai profeti. Spirito pessimista per quanto riguarda il presente, Gioacchino vedeva il clero del suo tempo cupido di interessi materiali e privo di amore verso gli altri: «Quam longe sit moderna religio a forma ecclesiae primitivae, eo ipso intelligi potest […] quod nunc alibi corpus membra et singula pro se ipsis non pro aliis sunt sollicita» (Concordia); «qui hodie dicuntur fidelis, secundum maiorem hominum partem, lequor, infidelis pocius existimandi sunt, […] negantes Dominum operibus, quem se cognoscere confitentur, et qui clerici, laici, et qui monaci dicuntur, magis clerici: monachi vero aut nulli inveniuntur, aut pauci» (Super quatuor Evangelia). Inveiva contro le frodi e le ambizioni dei religiosi: «Ubi lis, ubi fraus nisi inter filios Iuda? Nisi inter clericos Domini? Ubi zelus, ubi ambitio nisi inter clericos Domini?» (Concordia); «Divites esse voluerunt, sub regula paupertatis, facti sunt delicati et teneri, facti sunt invalidi et infirmi, facti sunt quibus lacte opus sit, non solido cibo» (In Apocalipsim).

Il vertice della santità era per Gioacchino la vita monastica, vita superiore a quella monastica era la vita degli angeli, tutte le attività umane sarebbero state trascese nella contemplazione sabatica del terzo stato o dell’Evangelo eterno.

  1. Sull’origine della lingua esiste la tesi (Rohlfs) della persistenza del greco (megaloellenico) che durante la dominazione romana non è mai scomparso (il latino, lingua delle classi più elevate, il greco lingua della misera plebs) e che durante la dominazione bizantina ridivenne lingua dell’amministrazione e della Chiesa. Altri (Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Oronzo Parlangeli, Spanò), invece, sostengono la tesi della frattura megaloellenica e la bizantinità linguistica. I Bizantini sarebbero venuti in Calabria fin dal VI secolo con un primo afflusso, molti funzionari sarebbero arrivati più tardi dall’Anatolia. La cultura bizantina fu facilmente assimilata dai contadini: persone umili sono i religiosi e i santi greci di Calabria (S. Giovanni di Stilo aiuta i mietitori, S. Fantino è stalliere ecc.).
  2. Cassiodoro conservava scrittori ecclesiastici (Agostino, Ambrogio, Atanasio) e profani (Adamanzio, Martirio, Cecilio, Vindice, Censorino, Apuleio, Aristotele tradotto da Boezio, Boezio con i Topici di Cicerone); molti altri codici aveva recato con sé da Ravenna e da Roma al Vivarium. Ai suoi codici risalgono molti di quelli oggi conservati che trasmisero il gusto e il pensiero degli antichi.
  3. Di inarrivabile fattura e pregio è la riproduzione in fac-simile del codice (un volume più un commentario) eseguita dall’editrice Salerno (a cura di Enrico Malato, Roma, 1985).
  4. Nel primo periodo della cultura calabrese incontriamo diversi medici, il calabro-greco Costantino da Reggio, del secolo XI, che tradusse dall’arabo in greco gli Efodia di Abu Gafar Ibn-al Gazzar; Filippo Xeres di Reggio (X-XI sec.); Ursone di Calabria (m. 1225) autore di un famoso Compendium urinarum.
  5. Lo studio più organico sulla Carta è quello di Giovanni Sapia (1978).

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