Con Federico II cominciano ad acquistare potenza i Ruffo i quali al tempo degli Angioini primeggeranno in tutta la Calabria. Fondato re della potenza della famiglia fu Pietro I, originario di Tropea, venuto fuori dalla piccola nobiltà feudale, prima giustiziere, poi maresciallo del regno, conte di Catanzaro e assassinato nel 1257. Fra i personaggi di questa famiglia incontriamo il primo poeta calabrese in lingua italia na, fiorito presso la scuola siciliana di Federico II. Si tratta di un nome isolato e che appare tardi; isolato perché scarsi sono i poeti calabresi in lingua italiana, mancando, per le condizioni politiche, storiche, sociali, gruppi culturali vivaci e organizzati. Il poeta, lo scrittore calabrese è quasi sempre un solitario, in lotta con l’ambiente, con la «situazione» storica, con la disgregazione sociale: Cassiodoro si ritira in un eremo e organizza la cultura perché ha con sé un gruppo di monaci dei quali rappresenta il direttore intellettuale, Gioacchino da Fiore vive in un archicenobio e sogna l’età dell’eterna vita dello Spirito, Campanella è «contraddicente» alla realtà che lo circonda e vagheggia una repubblica sulle montagne di Stilo. La vita collettiva non esiste, domina il feudalesimo sicché lo scrittore si trova chiuso nella solitudine spirituale, nell’isolamento: in tale ambiente la religione diventa sogno profetico, la politica vagheggiamento di rivoluzione, la letteratura messaggio disperato, il pensiero filosofico grido di opposizione.
Tali considerazioni valgono soprattutto fino all’età di Campanella e la condizione dello scrittore diventa sempre più difficile a mano a mano che si acuiscono le contraddizioni della società e della vita. L’uomo acquista coscienza delle forze nemiche anche della natura, della mortificazione della propria libertà interiore: lo sbocco naturale del contrastato desiderio di vita avverrà, in Calabria, sul piano della cultura con un particolare romanticismo che colpirà anche il De Sanctis. Nel Medioevo era la stessa cosmopoli di razze, di lingue, di usi, di tradizioni, la diversità delle dominazioni a creare la mancanza di una direzione unitaria e attiva: l’atteggiamento dell’uomo era quello di difesa.
Per ispirazione di Federico II vengono scritti trattati di mascalcia e falconeria in cui si studiano anche le malattie dei cavalli, si insegna come si selezionano le razze equine, come si allevano e si curano gli uccelli. Grande nome di medico veterinario alla corte federiciana ebbe Giordano Ruffo di Calabria autore di un divulgatissimo trattato di Mascalcia o cura dei cavalli e appartenente alla stessa famiglia di Folco, che ha origine nella Calabria centrale. Giordano fu intrinseco di Federico II. Nacque probabilmente a Tropea, secondogenito di Pietro I conte di Catanzaro, Gran Maresciallo del Regno di Sicilia, Vice Ballo di Sicilia e Calabria. Morì nel 1253 o ’54. Si occupò di ciò che riguardava i cavalli (riproduzione, cattura, arte di domarli, addestramento alla guerra, malattie, terapie di cura). Da Federico II ebbe la carica di Maestro dei Cavalieri; nel 1240 fu castellano in Cassino, fu Signore in Valle di Crati. Intorno al 1250 terminò il De medicina equorum che Federico II (autore di un trattato di falconeria al quale collaborò Giordano) giunse in tempo a vedere. Il trattato ebbe immensa fortuna e fu tradotto in volgare; le edizioni a noi giunte sono numerose, manomesse talune o senza nome di autore. Da un codice Marciano nel 1818 Hyeronimus Molin, docente di veterinaria a Padova, pubblicò il testo (latino) ripulito di errori e aggiunte assegnandogli il titolo Hippiatria. Questo manuale di veterinaria fu il primo apparso nell’Europa latina, notevole per il modo in cui è osservata la natura; divulgatissimo, tradotto in varie lingue, fu imitato dagli scrittori di ippiatria successivi (compreso Bonifacio calabrese). L’opera fu scritta in latino (nei codici si hanno vari titoli: Maniscalciae liber, De cura equorum, De maniscalcia equorum, De equis medendis ecc.), volgarizzata in italiano; un traduttore in siciliano se ne assegnò la paternità, anche la traduzione a stampa fu ricca.
Veterinario seguace di Giordano Ruffo fu maestro Bonifacio calabrese, vissuto nella seconda metà del secolo XIII, autore di un Libro di mascalcia o Tesoro dei cavalli di cui, in mancanza del testo latino, esistono due volgarizzamenti.
Uno dei grandi medici del Medioevo fu Bruno di Longobucco nato nella prima metà del secolo XIII, vissuto a Padova intorno al 1250 e morto verso il 1286. Insegnò a Padova, a Verona, scrisse Chirurgia magna e Chirurgia parva seguendo la medicina classica e quella araba ma con metodo analitico personale. La chirurgia magna è trattata in due libri di venti capitoli ciascuno; in essa è particolarmente diffuso lo studio delle ferite (forma, natura, complicazioni, accidenti mortali, modi di guarigione: ferite dei nervi, fistole, cancrene, fratture, lussazioni, ernie, tumori, affezioni oculari, otiti, espulsione delle sanguisughe dalla faringe; è anche il primo che si sia dedicato in ambiente cristiano allo studio della castrazione degli uomini). Il testo latino fu volgarizzato, tradotto in tedesco, ebraico, la prima edizione a stampa è del 1498; esistono altre quattro edizioni del Cinquecento. Anche nella tecnica e nell’uso degli strumenti chirurgici Bruno ha un posto notevole nella storia della medicina.
Ricordiamo infine qualche altro medico calabrese: Nicola Ruperti o Deoprepio (nato intorno al 1280), vissuto a Napoli nell’età angioina e benemerito per avere tradotto fedelmente circa sessanta scritti di Galeno (cinque libri perduti di Galeno si conservano attraverso le traduzioni), nel 1322 accompagnò il re Roberto ad Avignone e presentò al papa le traduzioni di Galeno fino ad allora compiute.
Folco Ruffo appare tardi perché la tradizione ellenistico-romana dei bizantini ha gravato sullo svolgimento di una lingua volgare che con molta difficoltà poteva dipanarsi con una sua vita particolare fuori della frattura longobardo-bizantina e delle successive ripetute dominazioni: le coste erano accessibili a tutti gli sbarchi, soprattutto alle razzie saracene, dopo che gli Arabi avevano conquistato la Sicilia e rimane dolorosamente memorabile la penetrazione e la distruzione di Reggio da parte di Abul-Abbas nel 901. Con i Normanni e con gli Svevi si ha qualche manifestazione letteraria perché la Calabria partecipa della cultura della Sicilia e, particolarmente, di Messina dove sono numerosi i poeti della scuola di Federico II. Lo stesso Folco è ricordato più come documento che come individualità, egli è un poeta che prende il nome dall’esistenza della corte di Palermo, dalla «magna Curia», «quia regale solium erat Sicilia», come scrive Dante (De vulg. eloq., I, XII). Egli deriva dalla corte e in lui mancano le caratteristiche dell’uomo calabrese in lotta con l’ambiente e con la realtà politica.
Folco è uno di quei poeti vissuti alla corte di Federico II di Svevia, la cui identificazione storica riesce difficilissima per la mancanza di documenti precisi. È stato confuso con altri personaggi della famiglia Ruffo di Calabria, alla quale il poeta appartenne, vissuti pur essi alla corte di Federico. In realtà di Folco sappiamo ben poco e le notizie sono contraddittorie. L’origine e il luogo di nascita sono incerti; secondo il Trucchi messer Falco o Folco di Calabria appartenne ad una delle più antiche ed illustri famiglie del Regno di Napoli, mentre per Davide Andreotti, che ne scrisse nella Storia dei Cosentini, Falco fu un prete cosentino onorato da Federico II; ma si tratta di notizie non controllate e in altri errori storici sono incorsi il Torraca che fece morire il poeta nel 1276 in un duello avuto con Simone di Montfort, e gli altri i quali hanno ripetuto il Torraca: il Bertoni e il Catalano. Per quest’ultimo esistettero due Falco, padre e figlio, e non si sa chi di essi possa essere stato il rimatore che fu parente di Giordano Ruffo di Calabria. Sembra in realtà accertato solamente che Falco era morto già nel 1266, della sua vita dopo la morte di Federico non si sa nulla (si ritiene che abbia combattuto contro Manfredi).
La poesia di Folco appartiene a quel clima amoroso della scuola siciliana che pur fra tanto convenzionalismo rivela a volte una sincerità di sentimento che colpisce e il De Sanctis appunto notò l’accento semplice e sincero, pur se espresso in forma «rozzissima», di questo rimatore che canta nella più nota canzone la sua attesa e la sua pena d’amore, il suo «languir desiderando». I suoi versi si trovano nel Codice Vaticano 3793 conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e, già fatti conoscere da F. Trucchi (Raccolta di poesie italiane inedite di dugento autori. Prato 1846) che pubblicò una canzone, si possono leggere nella pubblicazione critica di A. D’Ancona e D. Comparetti (Le antiche rime volgari secondo la lezione del Codice Vaticano 3793, Bologna 1881, II) di cui un’edizione diplomatica è stata stampata a cura di Francesco Egidi (Codice Vaticano 3793, Roma 1908).
Scarsi sono gli elementi letterari che si trovano in una elegia giudeocalabrese del secolo XIII.
Nel secolo XIV vi sono ancora uomini affascinati, come Bernardo di Seminara, dalla lingua greca e dalla maestà del rito orientale. Nato intorno al 1290, fu ordinato sacerdote nel monastero basiliano di S. Elia di Galatro e prese il nome di Barlaam. La sua vita è contrassegnata dall’amore per la grecità, dall’ideale della riunifìcazione della Chiesa greca e di quella romana, dal perenne ansioso viaggiare fra Oriente e Occidente, quasi simbolico itinerario della ricerca spirituale di un ubi consistam. A proposito di questa sua ansia di raccordo fra Bisanzio e Avignone, del suo peregrinare da un luogo all’altro Barlaam ci appare come il prototipo del calabrese avventurosamente cupido di novità, portato, dal desiderio di conoscere altri luoghi, a fuggire dalla sua terra, precursore di molti altri calabresi che per necessità o per insoddisfazione o per timore della solitudine sono fuggiti dalla madre patria.
Barlaam compie il suo primo viaggio a Costantinopoli, a Salonicco, compone le sue opere in greco e per incarico del Cantacuzeno tiene lezioni sulla logica e la dialettica di Aristotele, sulla filosofia platonica, su Dionigi Areopagita. Nel 1331 fu eletto abate del monastero di S. Salvatore in Costantinopoli e si diede all’insegnamento. Sostenne in Oriente le ragioni della Chiesa greca ma con spirito di conciliazione, nel 1339 fu inviato dall’Imperatore Andronico ad Avignone per trattare con Benedetto XII l’unione delle due Chiese ma i tentativi fallirono perché il pontefice non accettava l’idea di un soccorso dei Latini agli Orientali contro i Turchi. Ritornato a Costantinopoli Barlaam cominciò a lottare contro gli esicasti, monaci quietisti di cui era capo Gregorio Palamas, i quali credevano di avere dinnanzi agli occhi quella luce da cui erano stati illuminati sul Tabor i discepoli prediletti di Cristo; ritenevano che per vedere quella luce fossero necessarie pratiche onfalopsichiche. Barlaam ridicolizzò le loro pratiche ascetiche ma nel concilio di S. Sofia del 1341, indetto per tale controversia, Barlaam pur avendo accusato di politeismo coloro che sostenevano l’eternità della luce del monte Tabor, dovette soccombere e fuggire dagli adirati palamisti del monte Athos. Anatemizzato come eresiarca (gli altri impenitenti, che non vollero sottoscrivere il nuovo simbolo di fede fissato da un Sinodo, restarono privi degli onori della sepoltura cristiana), ritornò in Italia dove fu accolto a Napoli da re Roberto, conobbe Boccaccio che lo disse «piccolo di corpo ma grandissimo per scienza». Nel 1342 Barlaam è ad Avignone e insegna i primi elementi di lingua greca al Petrarca e legge il greco in Curia; nel mese di ottobre dello stesso anno, per intercessione di Petrarca e per meriti acquisiti quale sostenitore dell’unione delle due Chiese, è nominato da Clemente VI vescovo di Gerace, indipendente dalla giurisdizione del metropolita di Reggio. Ma Barlaam viene in urto con la curia metropolita reggina, poi si reca ad Avignone, quindi riprende l’insegnamento del greco al Petrarca. Dopo un altro viaggio a Costantinopoli finì di vivere a Gerace nel 1348. Barlaam fu spirito battagliero e teologo, animoso contro gli errori e corrivo a commettere errori teologali egli stesso. Sembra che nella sua irrequieta diaspora di uomo dallo spirito appartenente a due mondi in lotta e in discordia egli sia l’immagine della fine del Medioevo metafisicamente teologante, dell’influenza del mondo bizantino sul vario articolarsi della vita e della cultura occidentale. Il fascino dell’Oriente bizantino emette i suoi ultimi bagliori e attrae il calabrese che scrive opuscoli teologici sull’unione delle Chiese, un trattato L’etica secondo gli Stoici, un libro sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio (ma il grande tema trattato anche da Gioacchino da Fiore è adesso una tesi che si può maneggiare senza eccessivo pericolo), molte epistole di controversie.
Barlaam appare pugnace e sanguigno, di alto intelletto e capace di vivere accanto ai più grandi uomini del suo tempo
(Barlaam nostrum – scrive il Petrarca – mihi mors abstulit, et ut verum fateor, ilium ego prius abstuleram, iacturam meam, dum honorem eius consulerem, non aspexi. Itaque dum ad Episcopium scandendum sublevo, magistrum perdidi, sub quo militare coeperam magna cum spe);
tali opere sono in lingua greca e anche i libri di aritmetica algebrica, i commentari aritmetici al libro di Euclide, i manuali di calcoli in numeri, le frazioni ordinarie e sessagesimali ecc. Varie opere sono ancora inedite. L’umanesimo crea un’anima greca al calabro Barlaam, non un’anima inerte o assorta in sogni fachiristici ma ricca di vitalità critica e di novità; non realizzabile fu il suo sogno di unione delle due Chiese ma il suo umanesimo rimane una trama importante per la preparazione degli «studia humanitatis» che di lì a qualche decennio si svilupperanno e che avranno in lui un affaticato, polemico, animoso precursore.
Il desiderio di Barlaam, di essere tramite e strumento per l’unione delle Chiese, corrisponde anche alla necessità storica del recupero delle grecità che in Calabria, appunto per opera dell’ellenofono Barlaam, si compie molto prima nei confronti delle regioni centrali e settentrionali d’Italia. Tradizione ellenistico-romana e spiritualità cristiana caratterizzano ancora la fisionomia della Calabria ma l’adstrato greco comincia a cedere spazio a quello latino e romano in quest’epoca di trifarismo. Il volgare romanzo tarda ad affermarsi perché la tradizione ellenisticoromana ancora vigoreggia, soprattutto con la ripresa dell’umanesimo latino nel secolo XV. Comunque la consustanzialità dei tre cuori, delle tre anime, si verifica in diversi intellettuali calabresi del tempo. Cassiodoro che intendeva conservare il mondo romano, Barlaam che è disputante in greco, cercano di non fare morire il passato, di tramandarlo legandolo alla spiritualità cristiana. Tuttavia ormai diversi mondi e un gioco politico più vasto cominciano ad allontanare quella tradizione e a far ne un sostrato: la stessa figura del monaco calabrese (Cassiodoro, Nilo, Bartolomeo, Gioacchino cistercense-florense, Barlaam basiliano) cederà il posto prima all’umanista laico (Parrasio) o ecclesiastico, poi al poeta avventuriero e feudatario (Galeazzo di Tarsia).
Leonzio Pilato di Seminara è legato a Barlaam nella divulgazione del greco. Il Petrarca scrive di ambedue (Sen., XI, 8):
[…] cumque ex me saepius audisset aliquot graeca lingua doctissimos homines nostra aetate Calabriam habuisse, nominatim duos Barlaam monacum ac Leonem, seu Leontium, quorum uterque mihi familiaris, primus edam et magister fuerat.
Leonzio, misantropo e di carattere instabile, è ricordato dal Boccaccio come suo maestro di greco ma soprattutto come primo traduttore in latino dei poemi omerici. Fra il 1360 e il ’62 compì la traduzione a Firenze dove era stato attirato dal Boccaccio. A Firenze Leonzio visse anche in casa del Boccaccio il quale lo fece accogliere fra i maestri dello Studio fiorentino, con regolare stipendio. Pur essendo Pilato ben diverso dal Boccaccio («uomo orrendo d’aspetto, di faccia ripugnante, con lunghi capelli neri e barba prolissa, chiuso e cupo d’umore, di costumi grossolani» lo descrive il certaldese), nondimeno il Boccaccio si avvalse delle sue lezioni di greco riuscendo a trascrivere, a etimologizzare, a confrontare greco e latino. La traduzione di Leonzio Pilato non è perfetta (anche il Petrarca ebbe dei dubbi e fece delle osservazioni sul carattere non troppo letterale) ma è uno strumento importante che rimase utile per decenni agli studiosi. Per il Boccaccio Leonzio era una fonte inesauribile di conoscenze greche1, dal calabrese il Boccaccio desunse molte notizie greche, mitologiche, favolose che adoperò nel De genealogia in cui così scrive della traduzione di Pilato:
Mia è la gloria di essermi giovato, primo fra i Toscani, delle poesie elleniche […] Io certamente fui il primo a ricondurre nell’Etruria, a mie spese, i libri d’Omero e alcuni altri greci […] Né in Etruria soltanto, in patria li ricondussi. Io fui che, primo fra gli Italiani, udii in privato l’Iliade da Leonzio Pilato. Io, inoltre, che mi adoperai a che si leggessero in pubblico i carmi omerici. E, sebbene, in queste cose io non sia penetrato abbastanza profondamente, appresi tuttavia quanto potei, e certo, qualora quell’uomo instabile fosse rimasto più a lungo presso di noi, assai di più avrei imparato (De Geneal., XV, 7).
Quella traduzione interessò, pur con riserve, come si è detto, il Petrarca. Pilato era morto nel 1365, mentre dalla Grecia ritornava in Italia e lo stesso Petrarca ne aveva data notizia in Sen. VI, I. Nel secolo XIV i monasteri basiliani di Calabria sono in declino e non sono più gli emuli di quelli orientali, la diaspora dei famosi codici neotestamentari derivanti da archetipi palestinesi è ormai avviata. Tuttavia in questo autunno di Bisanzio in Italia Barlaam e Leonzio Pilato testimoniano lo straordinario legame dell’ellenismo con la Calabria, legame rinato su quello della Magna Grecia con la ripresa di lingua e di tradizioni greche dovuta alla diffusione del Cristianesimo, alla tendenza alla vita mistica dello spirito calabrese. L’umanesimo calabrese segnerà il trionfo degli studi latini ma il Boccaccio affermava che gli antichi latini non avevano a sé dedotto tutto il patrimonio della cultura greca e che molte cose restavano ignote, «conoscendo le quali potremmo farci migliori» (ibidem).
Le incerte ed inquiete vicende politiche del secolo XIV in Calabria riportano in circolazione il nome dell’abate Gioacchino. La Calabria con l’età angioina entra nella fase di decadenza secolare a causa del dominio feudale. L’infeudamento è il fenomeno politico ed economico più importante: malaria, desolazione spirituale, incultura derivano dal feudo, dal prevalere dell’immobilismo delle situazioni. Nel 1284 Carlo d’Angiò infeuda Crotone, Cassano è feudo di Icerio de Mignac, nel 1303 Mileto è di Ruggero di Lauria, nel 1333 Palmi è di Giacomo De Roto ecc. Ma nell’età degli Aragonesi hanno inizio le rivolte contadine, ci saranno città che si restituiranno al demanio e lotteranno contro l’infeudamento, le contraddizioni del feudalesimo saranno tali che feudatari ribelli come Antonio Centeglia guideranno nel 1458 una rivolta di contadini.
Se sulle condizioni particolari della Calabria si fanno pesare quelle generali dell’Italia e la lunga assenza da Roma del Papa e della Curia, in cui le misere popolazioni vedevano una guida, si può spiegare la presenza in Calabria di un esplanatore di profezie e di vaticini, Telesforo di Cosenza, il quale rappresesenta un ulteriore momento del pensiero gioachimita. Telesforo non è uno pseudonimo, come un tempo si pensava, ma un eremita francescano, appartenente con probabilità alla congregazione di Angelo Clareno e che più tardi dovette passare tra i Gerolamini. Fra il 1356 e il 1365 scrisse una profezia scegliendo motivi di Gioacchino e dei gioachimiti. Con Telesforo si ha ormai l’inserimento del fatto politico nell’attesa del giudizio finale sicché le sue interpretazioni sono divulgatissime, le sue formule hanno ampio riscontro in altri commentatori: tipiche di Telesforo sono le figurazioni del futuro re d’aquilone e del pastore angelico ma in funzione nazionale francese. Profezie di Cirillo, di Merlino vengono adoperate, insieme con quella di Gioacchino, nel Liber de magnis tribulationibus in proximo futuris, dal presbitero calabrese il quale vaticina «de residuo statu Ecclesie», intorno ai futuri papi e re, spiega l’Apocalisse. Del pensiero e delle idealità di Gioacchino ormai quasi nulla è in Telesforo ma la diffusione dei manoscritti e, più tardi, delle opere dell’eremita attesta il carattere non già escatologico bensì pratico e tendenziosamente contigente delle profezie telesforiane.
Il gioachimismo era una filosofia provvidenziale della storia, Telesforo accoglie il motivo pauperistico nella sua profezia che venne tradotta in diverse lingue e percorse l’Occidente, indica i tempi in cui la Chiesa e il clero saranno afflitti o distrutti, la nazionalità del nuovo imperatore sotto il quale la Chiesa ritornerà ai costumi primitivi, predice la venuta e la sconfitta dell’Anticristo, la conquista della Terra Santa, l’unione di tutti i popoli nel cristianesimo.
La Chiesa considerava l’Italia meridionale un suo feudo e il papa francese Urbano IV invitò i francesi a venire in Italia per avere propri rappresentanti che fossero amici al fine di bandire una nuova crociata per la liberazione della Terra Santa, per consolidare cattolicesimo e idea guelfa in territori ancora contesi dalla Chiesa greca. Nel 1268 l’Italia meridionale venne in potere di Carlo d’Angiò che avvicina la Calabria al mondo occidentale e alla signoria feudale fondiaria, che è sbocco contrario a quello che vede il passaggio dal feudalesimo ai Comuni e alle Signorie: il feudalesimo meridionale non si oppose a padroni stranieri, non rivendicò autonomie politiche ma preferì vivere sulla pelle dei contadini, rubando beni demaniali, allodiali, rendite in un sistema economico fondato sull’autoconsumo arcaico. Non sorge un ceto mercantile nelle città ma ci sono legulei, notai, causidici al servizio dei baroni.
Gli Aragonesi giungono nel 1442 quando Alfonso d’Aragona conquista il Regno di Napoli, cercano di sostenere le classi artigianali e mercantili e di creare una vita economicamente più viva e più moderna. A Catanzaro rifiorisce l’industria dei tessuti di seta, la Fiera franca del ghetto ebraico di Reggio è frequentata da numerosi mercanti stranieri ma la congiura dei baroni, alimentata dal papa, fa cadere la ripresa economica finché si giunge all’insediamento nel Regno di Napoli (1504) del re di Spagna Ferdinando il Cattolico.
Ma ritorniamo ad alcuni protagonisti della cultura greca di Calabria che sono gli antesignani dell’umanesimo del secolo XV. Enrico Aristippo, originario di S. Severina, nel secolo XII aveva divulgato le opere di Aristotele, Platone, Tolomeo, Euclide, S. Gregorio Nazianzeno e di diversi classici trovati nella biblioteca di Scolario Saba che era diventato monaco al S. Salvatore di Bordonaro. La biblioteca era di circa trecento codici portati dalla Calabria e dalla Grecia. Aristippo tradusse in latino le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, il Menone e il Fedone di Platone, il quarto libro della Meteorologia di Aristotele; l’Almagesto di Tolomeo (che sarà tradotto da Eugenio di Palermo) fu portato da Aristippo a Costantinopoli.
Niccolò da Reggio (1280 C.-1350 c.) o Deoprepio portò in Occidente la conoscenza della medicina greca, tradusse le opere di Galeno per suggerimento di Roberto d’Angiò. Tradusse anche opere di Ippocrate, Sofronio, Mirepso Alessandrino; il suo merito come traduttore è quello di avere tradotto testi non deformati dalle aggiunte o dalle deviazioni degli arabi. Giovanni Tirseo, vescovo di Gerace, fu traduttore dal greco in latino per incarico del re angioino. C’è tutto un terreno culturale che prepara l’umanesimo meridionale, un elemento storico-naturale che è la centralità della Calabria nelle comunicazioni culturali del tempo; in Calabria si trascrivevano codici, esistevano officine, tradizione di studio di diversi secoli, monaci che conoscevano bene il greco o lo parlavano, spiriti irrequieti che soffrivano del contrasto fra Oriente e Occidente. Erano secoli di vita calma, il sentimento religioso era centrale nella vita immobile, i mutamenti e i movimenti di pensiero erano lentissimi, le varianti erano le eresie, ethos greco e romano facevano sentire il loro respiro soffocato (soffocato era l’eroismo da teorie di monaci, di santi, beati, beate, come nella fissità dei mosaici di S. Apollinare Nuovo in Ravenna). Il genio che assorbisse tutto e lo rigenerasse in una parlata fresca nuova, romanza, Dante, non c’era ancora. C’era questo elemento storico-naturale umanistico in Calabria (come storico-naturale sarà il romanticismo quando l’umanesimo classicistico sarà stato frantumato e ci saranno ideali moderni).
Leonzio Pilato credeva che l’origine greca fosse più nobile di quella calabrese e si diceva di Tessalonica, dove era stato alla scuola di Barlaam; fu a Creta, Costantinopoli, Napoli, Padova, Venezia, a Firenze dove ebbe Boccaccio tra i suoi uditori di greco, a Venezia il Petrarca riprese con lui lo studio di greco che aveva interrotto con il trasferimento di Barlaam. Il Petrarca dà notizia della tragica morte di Pilato che navigando da Bisanzio verso Venezia, durante un naufragio fu colpito da un fulmine e incenerito. Leonzio ha il merito di avere tradotto in versi latini i poemi omerici, in modo letterale e semplice; sulla sua scia Decembrio tradurrà l’Iliade e Vergerio l’Odissea. Alle traduzioni aggiunse glosse di cui si servì Boccaccio nel De genealogia; altra sua traduzione è quella dell’Ecuba di Euripide.
Di Sinopoli era l’abate Nicola Ruffo, primo pubblico insegnante di greco nel monastero del S. Salvatore di Messina; a Modena il primo insegnante di greco fu Marcantonio di Crotone; del territorio di Seminara fu Simone Autumano, vescovo di Gerace, precursore dell’umanesimo greco. Tommaso Cornelio ci dà notizia di Girolamo Tagliavia, filosofo e astronomo del Quattrocento, autore di un trattato sul sistema del mondo, contenente l’ipotesi che la terra girasse intorno al sole; l’opera non venne pubblicata per paura di persecuzione da parte della Chiesa ma ebbe una notevole circolazione tanto da pervenire in mano di Nicolò Copernico.
Il tessuto naturale dell’umanesimo greco calabrese nasce anche dalle trame di influssi, dalle scuole, dai rapporti che lo sostengono e quan do, nella seconda metà del Cinquecento, i monasteri basiliani che erano diventati spesso «asilo di uomini di malaffare» e il vescovo di Oppido che proteggeva i banditi (così nelle relazioni dei delegati) decadono, la cultura greca perde terreno. Ormai i segni della decadenza erano evidenti nella relazione del visitatore Atanasio Calceopilo che nella sua visita ai monasteri greci di Calabria si era associato nel 1457 Macario Sergi archimandrita di S. Bartolomeo di Trigonio. Nel 1471 muore Girolamo Napolitano vescovo di Oppido e gli succede il Calceopilo già vescovo di Gerace nel 1461, già archimandrita del Patirion di Rossano (1448); a Gerace il Calceopilo aveva portato con sé Teodoro Gaza; nel 1472 unifica le diocesi di Oppido e di Gerace.
Poche e vaghe notizie si hanno di Marco Ruffo, architetto, familiare di Polissena Ruffo, contessa di Montalto Uffugo, andata sposa a Francesco Sforza duca di Milano. Marco Ruffo collaborò all’edificazione del Castello Sforzesco di Milano insieme con Filarete e Solari e più tardi collaborò a Mosca alla costruzione delle fortificazioni del Cremlino e, all’interno del complesso, si deve a lui il famoso palazzo delle Faccette che comprende la sala di S. Giorgio.
Alla corte di Francesco Sforza, chiamato dallo zio Angelo, visse Cicco Simonetta nato a Caccuri (1410); divenne primo ministro invidiato e calunniato per avere collocato a posti di prestigio i fratelli Giovanni e Andrea. Alla morte dello Sforza il destino del Simonetta cambiò e nel 1480 il già primo ministro venne decapitato. Egli era stato discepolo dei basiliani, amico del Filelfo e del Decembrio, aveva scritto un Diario degli anni 1474-76.
Per opera del fratello Cicco era stato chiamato al servizio dello Sforza nel 1444 Giovanni Simonetta come scrivano. Per la sua fedeltà al proprio signore alla morte di questi venne arrestato ma gli venne risparmiata la vita. Giovanni scrisse i Commentari delle imprese di Francesco Sforza (1480) che comprende gli avvenimenti dal 1420 al 1466; numerose sono le fonti dell’opera, il modello storiografico è quello di Livio.
Molto esile è il numero dei testi del volgare antico calabrese fino al secolo XV «tramandati spesso da fonti alquanto infide e pubblicati talvolta in edizioni insufficienti per la loro incompletezza e per l’inadeguatezza dei criteri ecdotici» (Rocco Distilo). Franco Mosino ha sgombrato il terreno da alcune false attribuzioni di testi antichi al volgare della Calabria, ha edito i frammenti volgari del Due e del Trecento, ha fatto lo spoglio dei materiali linguistici fino al Trecento documentando i prestiti linguistici e la presenza del volgare romanzo, in forme disperse, del Mille in poi, in materiali onomastici.
Lo stesso Mosino ha raccolto per il Quattrocento ventinove documenti variamente scelti che offrono un panorama di prose e poesie in calabrese antico in cui è racchiuso lo specimen (anche dei prestiti, datati) della lingua vera del tempo.
I testi presentano un quadro storico e sociale delle popolazioni, vessate dai baroni e oppresse dalle lotte dei baroni contro il re, le quali denunziano gli abusi baronali e chiedono: di essere accolte nel «suave mellifluo demanio del Re», di non essere comandate per «angarie» senza salario o pagamento, di essere compensate da distruzioni o incursioni compiu te dal barone di Nicastro, di punire i traditori del re, di non riavere come baroni Alfonso Scutiglies o i Ruffo o Janni Mazaferro o Francesca e don Lupo De Luna; di poter commerciare la seta, ecc. I contadini di S. Cristina chiedono di poter entrare nelle loro proprietà di Bruzzano e Castellaci, in dominio dell’arcivescovo di Reggio, con il bestiame libero o attaccato in modo conveniente e non con «la bestiame colo jugo in collo»; i sindaci di S. Cristina chiedono che i cittadini i quali si rifiutano di attuare prestazioni non dovute non siano condannati ad alcuna pena. Da tutte le parti si levano querele contro il sistema feudale e i contadini, «reducti ad ultimum genus paupertatis», chiedono di vivere in pace «in demanio et adorare uno Dio in cielo e la Majestà Vostra in terra».
Troviamo anche, oltre i ricorsi delle popolazioni contro gli abusi di gabelle, le ingiustizie penali, le richieste che il giudizio di prima istanza sia tenuto in loco, da parte dei baroni richieste di danaro al re, garanzie di risarcimenti in Sicilia nel caso in cui essi perdano i loro feudi in Calabria combattendo per il re («que yo possa vivere hornatamente como conti», scrive il conte di Sinopoli). Non mancano suppliche di singoli, come quella di un ebreo perché gli sia restituito il gregge sequestratogli in quanto il figlio contra legem, ma nell’ignoranza della legge, era entrato in S. Lorenzo; come quella di Saladino De Marco al viceré contro il conte di Sinopoli («perché non permicte la reysune che li Senyori digia punere né castigare lo vaxallo senza raysuni facta») che lo aveva già imprigionato e continuava a minacciarlo dicendo «ca lo vule disfare et mietere in unu culu de turra et fardo morire». Del conte di Sinopoli anche gli abitanti di Calanna denunziano «insopportabili gravizi extorsioni et schiavitudini» nonché l’ipotesi che gli abitanti si allontanino dal feudo: «quilli pochi so remasti tucti insembla parteriano et disabiterìano». Le petizioni dei sindaci o dei singoli, pure nel linguaggio legale latino o volgare e nello stile delle cancellerie municipali, lasciano trasparire le esigenze delle popolazioni contadine, gli stati d’animo, le convinzioni razionali dei contadini e delle comunità. I moti affettivi sono più appassionati nelle istanze individuali che rievocano i fatti (si veda la descrizione, fatta dal ricordato Saladino De Marco, del conte di Sinopoli che «cum iniuriose paroli e lo pugno eluso et li digita alli ochi venit contra ipsum exponentem» ma anche della propria dignità «iperoché ipso exponente è persona possente et basta la sua facultà» sicché se egli sbaglia deve essere convenuto nei modi propri e giudicato «pro et iura volunt») o nei componimenti religiosi rossanesi di Antonio Sergentino.
Non mancano notazioni, nell’Apprezzo, che documentano la pesea del pescespada («Item una posta allo terreno de Palmo che sta alla vista de li pissispata venduta per lo presente anno […]») o testimonianze piccanti, nelle relazioni delle visite di Atanasio Calceopulo, sulla sodomia dell’abate del Salvatore o notizie sui beni requisiti ai traditori che avevano partecipato alla congiura dei baroni.
Il più antico testo in volgare calabrese è un contratto di pignoramento della Motta di S. Quirillo prodotto a Reggio nel 1422, pubblicato da Domenico Spanò-Bolani nel 1857 nella Storia di Reggio Calabria (in appendice). A metà del secolo nel volgare documentario o amministrativo si trovano formazioni dialettali locali, in qualche testo sono mescolanze di calabrese e napoletano, frasi parlate, forme colorite. Il primo testo letterario che troviamo è costituito da due poesie religiose di Antonio Sergentino Roda, arcivescovo di Rossano, segnalate nel 1957 da Francesco Russo e pubblicate nel 1974 da Rocco Distilo. Nel 1438 il Sergentino scrive i due componimenti presentandosi perseguitato come Cristo, deposto dalla carica e bandito da Rossano. Tra narrazione e lauda si svolgono i componimenti che hanno il tono dell’omelìa, forme popolareggianti, latinismi della tradizione ecclesiastica e stretta aderenza ai testi evangelici (Marco e Luca: Maddalena dopo la resurrezione di Cristo). Il riferimento alla vicenda personale è nel primo componimento:
Quisto fiche lu archipiscopo Antoni in Visignano, chi fo cachato indebite de la chitate de Rossano, stando multo cum tribulo, dolerusu et amaro, adrecommandandose a Iesu et chi lu aya un pocu caro […] Ma ipso spera allu Altissimo, ancora alla Madalena et alla Virgo santissima chi èy de veritate piena, chi ipso se educa in casa, ancora la sua hereda, et chi li à culpato inde paterà la pena. Amen.
Altro documento letterario si trova in una rara stampa della biblioteca Corsiniana, unito ad un incunabolo del 1478, di favole di Esopo e catalogato come Canzone in lode di D. Ferrante d’Aragona. Dalla stampa corsiniana fu pubblicato dal Percopo e, più recentemente, da Antonio Altamura il quale ha tenuto presente il testo del Percopo e la stampa originale. Il testo è costituito da un lamento semi-popolare in volgare calabrese per la morte di don Enrico d’Aragona, figlio spurio di Ferrante I e della sorrentina Diana Guardati, sposo di Polissena Centelles, marchese di Gerace, morto nel castello di Terranova il 21 novembre 1478. È noto come il Lamento per la morte del Marchese D. Enrico d’Aragona e di esso è autore Joanne Maurello, cosentino, il quale adopera le forme metriche dell’ottava siciliana e della terza rima. La lingua è mista di voci dialettali e italiane e rappresenta uno degli antichi documenti del dialetto calabrese. Il Maurello aveva una certa conoscenza di cultura classica poiché cita Omero, Virgilio, Dante ma egli stesso chiama, e a ragione, «ruza lima» la propria.
Il lamento costituisce un testo linguistico e storico di notevole importanza. L’atmosfera sentimentale è intrisa di largo e universale compianto intessuto intorno al fato che quasi epicamente colpisce la Calabria: «A lagrimari viio che incomenza | tutta Calabria». Il poeta esprime con accenti di immediatezza popolare il proprio cordoglio, che sembra nascere da quello storico e universale:
Quanto più vago innante, più aio pena,
ca tremo, come foglia, de pagura;
e ’l sango m’è seccato in onni vena;
c’aio a portari sta novella scura
in campo allo duca.
Piangono nobili e villici, preti e frati, «li petri de la via, fino alli cani», le donne cosentine, le donne «de gran statu» sono invitate a piangere e a fare compagnia «alla trivulosa | madama Pulisena» per darle «refrigerio». Motivi religiosi sono mescolati a ricordi di divinità pagane e su tutto domina il sentimento del «mundo caduco, labile e prolipso», della necessità di abbandonare i beni della terra e di affidarsi al Correttore dei cieli:
Piangi, Calabria, e co(m)bògliate tutta
d’un panno negro, pir signo de doglia,
o si rimasa diserta e distrutta […].
e mostra li duluri,
continuamente, e non mancari mai,
pinsando a chi te fo covernaturi;
ch’è morto a Terranova, comu sai,
alli meglio anni de la iuventute,
iovini e bello con animo assai.
Uno dei temi più cupamente dolorosi della Calabria è qui presente come necessità di non venir meno, di non sottrarsi al lutto ma di pascersi di esso, un dolore carnale, viscerale, sentimentale, intimamente legato alla psicologia meridionale e popolare, all’istinto che nega la gioia per affermare solamente il dolore e il sacrificio. Tale pesante sovrastruttura è quasi esibita nella canzone cosentina che uscì a stampa nel 1479.
Il Maurello si trovava a Nicastro quando compose il poemetto che si divide in quattro canzoni come è nella nuova edizione critica di Franco Mosino il quale tralascia giustamente la numerazione continua dei versi voluta dal Percopo. Il titolo di Lamento non esiste nel testo ma, in ogni circostanza, quello di Canzone. Il Mosino accoglie o rigetta integrazioni del Percopo, corregge o integra o spiega la stampa, ottempera alle necessità della rima e fornisce un buon testo del quale rassegna il compiuto glossario.
Motivi gioachimiti si trovano nel testo in volgare del 1499 del francescano osservante Iacobo Mazza Scala di virtudi et via de Paradiso necessaria ad ogni christiano pubblicata a Messina nel 1509. Il Mazza era reggino di nascita e siciliano di adozione, l’opera è stata composta «in la insula Liparitana, essendo in quilla exulato, non corno Dio è testimonio | per alcuna cosa operata, ma più tosto per non consentiri ad operationi di cosa indebita». L’imminenza della fine del mondo spinge il frate a indurre alla penitenza gli uomini:
Stando omni gente congregata innanti
la segia iudicali de Cristo, si farrà
innanti el diavolo et reciterà li parali
quali promisi lu peccaturi in lo suo bactismo
di obserbari, et diradi innanti
la fachi tucti li peccati che fichi et
in che loco et poi dirrà a Cristo: «Tu si iusto
iudici et però iudica quisto peccaturi
essiri mio per la sua culpa,
lu quali non volsi essiri tuo per grada.
Tuo fu per natura, mio è per la mia
suasioni. Ad ti fu inobedienti, ad mi consententi.
Et però lu iudica essiri mio
et cum mia essiri sempri in dannationi.
Non ci potrà essere salvezza per chi volta le spalle a Cristo, severo è il giudizio su ebrei e maomettani, aspra la condanna dei frati truffatori e dei sacerdoti indegni. La fine del mondo sarà il 25 marzo ma è difficile stabilire l’anno; vero è che «nui simo nell’ultima etati et a lo fini de lo mundo» e che il diavolo sarà secondo Giovanni:
Et però nota che sancto Ioanni vidi in visioni
uno serpenti ruffo, lui quali era incluso in una
prixuna cum dui cathinazi et quillo serpenti havia vinti
capi, quali havino pper ordini lu nomi de lo Alfabeto
cum li quali lu antiquo inimico dì et noeti si
studiava divorati la sposa de lu agnello.
Il regno dello Spirito Santo e dell’Evangelo Eterno di Gioacchino rivive nella speranza di Iacobo Mazza scrittore essenziale, di efficacissima e poetica chiarezza:
O regno di beatitudini eterna, undi lu signuri, speranza
di sancti et corona di gloria, è visto di fachi
ad fachi da li sancti, litificandoli di omini parti,
uni è gaudio infinito, leticia senza tristicia
sanitari senza mai duluri, vita senza fatiga, luchi
senza tenebra, vita senza morti, omni beni sine mali,
unde la iuventuti non invicchixi mai,
unde la sanitari on infirma mai; undi lo gaudio non manca mai,
undi cosa trista mai si vidi, undi sempri è leticia,
undi malo non si timi mai, perché si possedi lo summo
beni, lu quali è vidiri lu Signori de li virtuti.
O vero tristi quilli lu quali per poco cosa perdono
tale regno.
Atanasio Calceopulo, monaco del monastero di Vatopedi a Monte Athos, fu amico del cardinale Bessarione che nel 1448 lo fece nominare archimandrita del Patirion. Callisto III lo nominò visitatore apostolico dei monasteri greci della Calabria, della Basilicata e della Campania. Egli si associò Macario, archimandrita di S. Bartolomeo di Trigonio e nel 1457-58 terminò le sue visite. Il manoscritto della Visita ai monasteri greci, che si trova a Grottaferrata, è stato pubblicato (1960) dal Guillou con note storiche e documentarie di Laurent. Il Calceopulo nel 1461 fu nominato vescovo di Gerace dove nel 1480 abolì il rito greco (anche a Oppido che era unita a Gerace). Morì a Oppido nel 1497, è sepolto nella cattedrale di Gerace. Fu valente traduttore e copista, non scritto re originale. Lasciò traduzioni da Aristotele, da Basilio, da Gregorio di Nissa, di diplomi greci in latino; gli inventari del materiale esistente nei monasteri visitati sono un contributo importante per la conoscenza del calabrese antico.
Tempi più umani sono preparati, contro ogni apparenza, dalla spiritualità di Francesco di Paola che, sebbene di oscuri natali e senza lettere, fu, come ha scritto Henrion, ricercato dai grandi della terra e circonfuso di grandezze e di gloria. Infatti la sua personalità si accampa, in un secolo in cui estrema è la decadenza della Calabria dopo la guerra del Vespro e gli infeudamenti, come difensore degli umili e dei deboli, come colui che rammemora ai tiranni e ai sovrani la fragilità umana, la caducità della grandezza terrena e la necessità della giustizia. Il sentimento della giustizia, l’avversione alla sopraffazione sono caratteri psicologici di Francesco nel quale si riflettono profonde esigenze popolari di rinnovamento e di equità, esigenze lontane e deposte nel fondo dell’anima calabrese che è insieme religiosa e desiderosa di rinnovamento.
Francesco nacque a Paola il 27 marzo 1416 da Giacomo d’Alessio e da Vienna Fuscaldo. Insieme con i genitori visitò Assisi, Monteluco, Roma, Montecassino, a dodici anni si ritirò per sei anni in vita eremitica in un podere del padre, vivendo spesso in un antro in cui fu seguito da diversi giovani che furono i primi discepoli. Costituì così l’ordine dei frati Minimi (1463) conducendo una vita austerissima e seguendo le norme della regola data da lui stesso: fra le norme è l’astensione dalla carne, dai latticini, dalle uova, dal formaggio. Tale astensione, fondamentale nella regola non meno dell’osservanza degli altri voti principali, è caratteristica perché nasce da un estremo rigore, quasi orientale, che si completa con macerazioni e digiuni perpetui quaresimali.
Francesco cominciò ad aprire conventi a Spezzano, a Paterno Calabro, in Sicilia dove si recò, secondo la tradizione popolare, passando lo stretto di Messina sul proprio mantello. Dovunque egli patrocinò i diritti degli umili contro le prepotenze dei signorotti e dei feudatari che dissestavano la regione. A re Ferrante si dice abbia spezzato una moneta aurea con le dita facendo dalla moneta spicciare sangue, per indicare che quel denaro era sangue tratto dalle vene dei poveri. Luigi XI lo volle presso di sé, essendo ammalato, e da Francesco fu indotto a morire cristianamente. Dopo la morte di Luigi rimase Francesco venticinque anni alla corte francese avendo aiuti per il suo ordine ormai diffuso in tutta Europa. A Plessis-les-Tours morì il 2 aprile 1507.
Il suo culto divenne molto popolare, Giulio II lo dichiarò Beato nel 1513, Leone X lo santificò nel 1519. L’ordine dei frati minimi fu fondato nel 1435 da Francesco, approvato da Sisto IV nel 1474, confermato da altri papi che lo annoverarono fra gli ordini mendicanti. La regola fu approvata da Giulio II nel 1506. Caratteristica dell’Ordine è la vita penitente, quaresimale, l’astinenza e il digiuno per oltre metà anno, l’accento fortemente penitenziale che ricorda la maggiore severità richiesta dall’abate Gioacchino da Fiore per i suoi Florensi.
La personalità del Santo e la sua vita devota e vigorosa hanno alimentato una vasta letteratura popolare, una serie di «fioretti» di cui ricordiamo uno dettato da un testimone al notaio apostolico Nicola Sproviero il quale fu incaricato fra il 1512 e il 1513 di raccogliere testimonianze in Calabria per il processo informativo di beatificazione di Francesco:
Magister Petrus Genvise dixit che essendo uno de Renda in Paula da dicto frate Francisco, quale Renda è distante dudici miglia da Paula et portao certi pissi de acqua dulce infiglati per la gula et le presentao a dicto frate Francisco; quale avuti, dicto frate Francisco dixe: – Guardati corno havemo misi prisoni questi poveretti – Et le disfiglao ad uno ad uno, et le posse dentro una conca de acqua et incontenenti incommenzarono ad iocar dentro laequa vivi; quali vedendo ipso testimonio et li altri gridano: – Miraculo! – Havendo visto dicti pissi morti esser ritornati vivi dentro lacqua piangevano de la allegrezza.
In un’età di decadenza politica, sociale, di lotta spietata dei forti contro i deboli Francesco di Paola è una di quelle «torri di giustizia», come scrisse Corrado Alvaro, che si levano in Calabria in tempi diffìcili per abbracciare le grandi idee di abnegazione e di filantropismo, di ritorno alla concezione popolare e religiosa primitiva che gli uomini appartengono a una sola famiglia.
L’apparizione con energici tratti popolari di rusticità, austerità, di una personalità come quella di Francesco di Paola in una società feudale prepotente e violenta contro un mare di contadini e pastori analfabeti esprime ancora una volta in Calabria la necessità dell’arroccamento esemplare che la personalità rappresenta per gli altri. Il modello calabrese è sempre eroico, etico, assoluto sia nel dominare che nel proporsi vittima sacrificale. La tradizione popolare fece di Francesco un giusto, un taumaturgo mirabile per generosità e umanità ma anche un manesco e un arrabbiato per attuare la giustizia.
Il mondo religioso è depresso nella Calabria del Quattrocento. Il ricordato arcivescovo di Rossano Antonio Sergentino Roda autore di due poesie religiose in volgare e che si paragonava a Cristo martirizzato venne deposto perché c’era stato difetto di collegialità nella sua ordinazione episcopale, impedimento dirimente che era stato sanato da qualche aiuto politico di malaffare. La visita di Atanasio Calceopulo fa vedere lo stato di abbandono in cui si trovavano i monasteri italo-bizantini, la condizione di dissolutezza, rissosità, lussuria, indigenza morale, violenza in cui si trovavano non pochi monaci: rimane tipico il caso dell’archimandrita di Giovanni Tereste seminudo e sporco, dileggiato dalle donne il quale «ibat per casale faciendo “bu bu bu”».
La Riforma Osservante fa entrare in Calabria motivi pauperistici dei Fraticelli e crea nel Quattrocento numerosi conventi francescani, i domenicani confutano le idee dei valdesi giunti in Calabria. Francesco interpreta con la sua personalità rude e concreta le esigenze delle popolazioni che vedono in lui il difensore dalle angherie, dallo sfruttamento, l’autorità che è capace di innalzarle perché «sono huomini come voi altri, e del seme di Adamo come voi». La difesa di Francesco è anche contro gli ecclesiastici corrotti, cupidi di beni materiali: «O compagni di Giuda Scariota, mali prelati, avidissimi alla rapina […] li poveri si morono di fame per li campi e per le strade». Alla rusticità come essenzialità, come verità, al costume eremitico, alla tradizione biblica appartiene la misoginia di Francesco il quale raccomandava ai discepoli di fuggire le donne. La donna nella tradizione religiosa era simbolo della carne, del peccato, della mollezza; la personalità etica di Francesco non ha l’agilità di torcere la tradizione perché il suo umanesimo non nasce in una corte ma nelle foreste e tra i monti calabresi. Parimenti il suo orgoglio antieconomico, il rifiuto del danaro si collega con l’ideologia evangelica nata in una società primitiva, pastorale. Francesco affascina per i vigorosi tratti di antichi tà che porta con sé: il danaro serve anche ad avvilire i poveri, a creare competizione intorno a cosa vile, a illudere che il povero possa diventare ricco, a distogliere il povero da Cristo.
Tra il 1512 e il 1523 presso la curia arcivescovile di Cosenza venne celebrato il processo canonico per la santificazione di Francesco. Se dal punto di vista linguistico le testimonianze rispecchiano la condizione del volgare a quella data (il notaio Sprovieri ha dato impronta letteraria alle testimonianze cercando di uniformare al volgare italo-calabrese i dialetti dei testimonianti) il mondo sociale, culturale, morale che i documenti esprimono ci riconduce al Quattrocento. Francesco guarisce infezioni da ascessi, un lebbroso con paralisi spastica degli arti, una ferita infetta (impostemata) causata da morso di cane a una gamba; nella guarigione si serve di erbe che fa usare agli infermi o che egli applica alle parti malate seguendo i modi della medicina popolare del tempo; ad un malato di gartana prescrive un infuso di felci: «piglia due cime di quella erba dela filidriza che nasse allo corpo de li cerque et bullela cum ciceri […] et fa che sie bon cristiano»; a chi gli chiedeva cosa sarebbe successo dopo la congiura dei Pazzi (1478) Francesco rispose: «vedo de mo lo Turcho intrato in questo reame» antevedendo la conquista di Otranto da parte dei Turchi nel 1480; Francesco soffia su tizzoni spenti «et ipso subito se allumao lo foco et cussi allumao la candela et dixe la missa»; a un muto che non aveva mai parlato dà la parola facendogli pronunziare il nome di Gesù tre volte; all’ora di colazione, poiché nessuno ha acceso il fuoco Francesco ordina di preparare una minestra di fave e «se accostao alla pignata et la discoperse et vidette ipso testimonio et dicto Mastro Antonio che bugliva et cussi ministrao et donao ad magnar» mentre tutti verificavano «lo focularo solum cum la cinera frida»; un uomo caduto da un gelso è morente, Francesco lo porta in chiesa, gli pone alcune bende «et fo sano dincontenente, et sende vinne in casa cussi sano corno prima»; un immenso masso di pietra che rovina dalla montagna è fermato da Francesco con un segno di croce: «fice la cruce a dietapetra […] che non passao più innanti et là se fermao» (Giovanni Conia ricordando tale prodigio dirà che Francesco era pronto «na muntagna mu ferma mpenduluni»); quasi sempre Francesco adopera oggetti della natura per operare i miracoli, per richiamare le parti di «frate corpo» a riprendere le funzioni: un ferito per caduta da albero è guarito con un po’ di sale, un morente è guarito facendogli portare un gambero in mano, un ascesso alla gamba è guarito con nepitella e menta selvatica, con una fronda di castagno guarisce un osso fracassato di una mano ecc.
Il fondamento della guarigione è la fede, gli strumenti sono natu rali e toccati dal soprannaturale; i racconti dei testimoni conservano la freschezza espressiva della meraviglia popolare che si esalta nei miracoli di cui Francesco è generoso. Anche il Conia ricorda gli infiniti miracoli nonché – ed è un ricordo di stampo popolare – il carattere manesco del paolano:
hi arrunzau li meraculi a timpesta […]
cumandava, e pena lu strangugghiuni,
e lu mortu juntava, e facia festa […]
la barca a mari nei servìu lu mantu! […
Cu nu vastuni d’ilici a li mani,
nei sona lu tamburru a li filetta […]
nei fa fossa chiù moji di la panza
ca tanti vastunati nei ammazza […]
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- In sostanza la traduzione leontea di Omero fu una rivelazione per i nostri umanisti; più importante ancora è il commento leonteo edito nel 1964 da Agostino Pertusi, conosciuto fino ad ora solo in minima parte attraverso le note autografe del Petrarca e un certo numero di annotazioni mitologiche del Boccaccio. Da esso deriva tutto ciò che i due grandi toscani avevano di cultura e di mitologia greca.