1. La poesia di Tommaso Campanella. Marinisti e antimarinisti
Nel Seicento la dissoluzione economica, sociale e spirituale della Calabria tocca il punto più crudo né la regione partecipa a quella rinascita che nel Reame comincia a vedersi nella seconda metà del secolo.
Il pianto del Barrio trova conferma in numerosi eventi di dolore e di lutto che contrassegnano la storia della regione. Dopo il fallimento della congiura di Tommaso Campanella si notano lotte cittadine contro la corrotta amministrazione, Amantea respinge le truppe di Ravaschieri al quale è stata venduta. Le reazioni signorili non mancano e bisogna giungere al 1647 per vedere collegate al moto di Masaniello e a una più generale protesta le insurrezioni antifeudali in Calabria. Certamente i moti calabresi del 1647-48 (abbastanza vigorosi a Cosenza, Rossano, Strongoli, Cassano Ionio) non ebbero il carattere popolare che ebbero in Lucania e ancora una volta i briganti come Ippolito da Pastena, Papone, Contessa, combatterono per la libertà accanto agli umili.
Gli eventi dolorosi di maggiore importanza sono una grave inondazione del Crati nel 1624, il terremoto del 1638 che distrugge Feroleto Antico e danneggia gravemente Rogliano, la peste che colpisce gravemente il catanzarese nel 1656, altri terremoti, carestie, fame verso la fine del secolo. Nel 1696 un cronista riporta i versi scritti in occasione della carestia da un agostiniano di Reggio:
omnibusque generalis
herba cibus est vitalis
vix aceto conditus […]
Fame in mortem dum laborant,
Deum patrem omnes orant
ut expirent pariter.
La Calabria non partecipa, si è detto, alla rinascita del Reame perché la disgregazione sociale e la sopraffazione politica impediscono la creazione di una coscienza unitaria e non consentono che il popolo si elevi. Ma non dobbiamo dimenticare che in quel secolo il Campanella sveglia ì dormienti ed esprime in note d’arte originali il suo tormento spirituale, Mattia Preti manifesta un sentimento di drammatica violenza, Pirro Schettino si allontana dalla facile moda del marinismo. Gian Vincenzo Gravina elabora la sua idea di una poesia creatrice di civiltà. La nota più particolare della cultura calabrese del secolo e, nei forti temperamenti di artisti e pensatori ricordati, la presenza di una ragione filosofica, di un principio universale, di una grande idea che si avverte anche nello stile artistico, nel tono espressivo. Le immagini ardenti o scavate nel profondo dell’essere, i colori accesi e contrapposti, il pensiero prepotente hanno rilievo estetico e si trovano fusi nel massimo rappresentante del genio calabrese, in Tommaso Campanella. Nel suo spirito si avverte, come ha scritto il Sapegno, «la presenza di una condizione sociale desolata, di una atavica solitudine, di una miseria secolare, di un desiderio ansioso e insieme disperato di giustizia».
Carestia e mortalità spopolano i paesi in tale misura da riconoscersi «inabili a potersi più sostenere» leggiamo in un atto notarile dei sindaci di alcuni casali della Piana di Palmi nel 1674; il notaio Francesco Barbaro Galimi di S. Procopio nel 1672 parla di «gran penuria e sterilità», di «grano d’orgio mischiato con gibisso» che si compra a Messina, per la tanta fame «si bollea la caniglia» e le più diverse erbe si mangiavano come «ardiche, lepate, croce di terra, suca mieli, cardamimilla, scolimbre»,
le figlioli andavano nelle buccerie e si beveano il sangue d’animali, altri prendeano la carne cruda a mocicune, si son viste persone mangiar cane […] ho visto figlioli mangiar nozuli di cambi, si son viste persone andar cadendo per le strate ne morsero nelle piane cogliendo erbi, altri morsero dicendo pani pani;
in altri luoghi della Piana ci sono famiglie che cedono i loro fondi in cambio di vettovaglie («scampanio la vita altrimenti sariano stati morti»). Si aggiungevano anche i saccheggi e nel 1679 due barche cariche di grano assalite da corsari francesi e messinesi devono approdare a Roccella e di là «furono da nostri cittadini a schiena di muli et altri animali da soma condotti per intiero in questa nostra Città d’Oppido et si andorno in die panizando per uso e grassa di detti cittadini» (atti del notaio Giuseppe Fossare di Oppido; la ricerca è dovuta a Rocco Liberti).
Diversa immagine della Calabria ci offre l’abate Giovan Battista Pacichelli nel suo viaggio del 1693. Egli la percorre attraversando anche paesi interni, in lettiga, su mulo, a piedi, per sentieri che portavano al guado di fiumare e torrenti, è ospitato dagli ordini religiosi (Gesuiti, Celestini, Domenicani, Certosini) visitando luoghi e monumenti legati alla tradizione religiosa e allora fiorentissimi quali il santuario e il convento (con ottanta frati) di S. Domenico a Soriano, la certosa di S. Stefano del Bosco, le chiese di Potami, Stalettì legate a miracoli, a guarigioni di ossessi, ammirando la Roccelletta di Squillace, i monumenti funebri di Roberto Sanseverino, di Marino Correale, le tombe dei Telesio, dei Firrao, le città di Cosenza, Catanzaro, Paola, Reggio. L’abate ci dà notizia delle famiglie feudali, dei feudi ecclesiastici, della vita sfarzosa dei nobili, dei grandi boschi, del teatro per le commedie a Palmi, degli aspetti esteriori della religiosità del popolo, delle squisite pietanze servitegli dagli ordini religiosi. Non c’è traccia del fiscalismo baronale, delle vessazioni, delle incursioni barbaresche e indigene, delle desolanti calamità naturali, delle lotte tra le famiglie baronali, della corruzione del clero, della sua ignoranza, delle crociate sanguinarie contro le minoranze religiose. Pacichelli ci informa che il marchese Spinelli di Fuscaldo amava gli animali esotici, organizzava nei suoi feudi partite di caccia in carrozza, allevava quaranta cavalli e aveva una «canatteria» fornita di infermeria, con settanta bracchi nutriti di latte di montagna. Eppure il viaggiatore conosceva paesi stranieri, era stato presso la corte di Parma e Ranuccio II Farnese lo aveva mandato per sedici anni ambasciatore a Napoli. Tale è spesso, indifferente, adiaforo, inutile, lo sguardo dei diplomatici.
Nel Seicento la Calabria è visitata (1605) da Johann Jacob Grasser di Basilea; gli argomenti più accuratamente trattati sono la pesca del pescespada, la coltivazione e la lavorazione della canna da zucchero. Per il giubileo del 1624-25 vengono in Calabria i fratelli Georg e Ludwig von Streitberg zu Ahorn (la loro relazione sarà pubblicata nel 1632); l’approdo sulla costa calabrese è dovuto alla necessità di sfuggire al mare mosso e ai pirati barbareschi. Le locande sperimentate erano quanto di più primitivo si potesse immaginare, la paura dei pirati continua; la popolazione contadina
è costituita da uomini selvaggi e quasi barbari, pigri ed oziosi, a meno che il nemico o i pirati turchi non li pungolino un po’ […] vi sono molti ammalati, smorti e dai visi scoloriti. Il loro abbigliamento è costituito da un rozzo manto di lana o da panni scuri. Come copricapo portano ampi berretti e girano sempre armati.
C’è anche un ricordo di «briganti e assassini che si appostano sulle strade di una regione per lo più montuosa con valloni stretti e grotte ed anfratti profondi e perciò molto pericolosi da attraversare».
Hieronimus Welsch diretto a Malta attraversa la Calabria nel giugno del 1632 in feluca: Tropea ha «terreno molto fertile di frutti di ogni tipo, arance, cedri, limoni», Reggio è città antichissima sulla cui montagna è «una fortezza ben costruita rifornita di tutto ciò che occorre per la difesa dal Turco»; a Reggio assiste a uno spettacolo di tre ossessi posseduti «dagli spiriti cattivi». Welsch è attratto soprattutto dallo spettacolo di cedri, limoni, arance, fichi, mandorle, dalla qualità del vino, dall’industria del baco da seta, dal gioco dell’albero della cuccagna.
Le osservazioni dei viaggiatori risentono delle sedimentazioni di origine umanistica; c’è uno stereotipo magnogreco di una regione opulenta e uno romano di una terra abitata da genti dai costumi barbari e rozzi; l’immagine del brigante affiora ma è soltanto un elemento, non l’unico né il principale.
Tommaso Campanella è la tipica espressione del genio calabrese, vigoroso e bizzarro, multiforme e «contraddicente ad ogni cosa», «alli lettori sui» e al mondo, a tutto ciò che era tradizione aristotelica e soffocazione della realtà per mezzo di sofismi formalistici e autorità. «Manducare ore aliorum non est nobis manducare» dirà il filosofo innamorato della verità e «contraddicente» alla vita; agli avversari che gli dicevano di non più parlare: «Tu, asinus, nescis vivere, ne loquaris in nomine Dei», rispondeva assumendo come insegna una campana dentro la quale era scritto: «Non tacebo». Tuttavia, la sua vita, nonostante apparenti contraddizioni tra pensiero rivoluzionario e assolutismo, è «perfettamente coerente: ora finto pazzo, poi cavilloso giurista, ora filosofo e poeta, ora scrupoloso e spregiudicato, è il tipo del calabrese puro; versatile, generoso, sognatore, audace».
Si chiamava Giovan Domenico e nacque il 5 settembre 1568 a Stilo, a quattordici anni entrando nell’Ordine dei Domenicani assunse il nome di Tommaso e si diede agli studi filosofici e scientifici con grande ardore («studiai solo tutte le scienze da per me e scrissi cose non volgari e camminai per tutte le sette antiche e moderne di filosofi, di medici, di matematici, di legislatori e d’altri scienziati […]») entusiasmandosi del naturalismo telesiano. Dall’ortodossia cattolica si allontanò sempre più, non curandosi di scomuniche e accentuando il motivo della sua missione riformatrice, idea mistico-sociale che si fondava su un rinnovamento dell’ordine universale (desunta anche dalle opere di Gioacchino da Fiore) che il frate pensava di attuare; infatti dopo essersi recato a Venezia, Padova, Bologna, Roma e dopo aver avuto sequestrati i manoscritti, essere stato processato varie volte dall’Inquisizione e anche incarcerato, nel 1598 lo troviamo in Calabria per preparare la congiura di rivolta al governo spagnolo. La questione della congiura è stata molto dibattuta sino alla fine del secolo scorso dagli studiosi del Campanella, alcuni dei quali l’hanno negata o ne hanno complicato lo scopo, ma dopo la documentazione storica portata dall’Amabile (al quale dobbiamo essere riconoscenti per la ricostruzione biografica che adesso possiamo fare del Campanella) non si può dubitare della partecipazione del Campanella in qualità di organizzatore. Certamente il frate, conoscendo il malcontento delle popolazioni calabresi vessate e dissanguate dal vicereame spagnolo e sfruttando la credenza popolare della prossima fine del mondo, pensava di trovare le condizioni più favorevoli per l’attuazione della sognata città eliaca, ma denunziato da Fabio di Lauro e Giovanni Battista Biblia all’avvocato fiscale dell’Audienza di Calabria Ultra, don Luise Xerava, veniva tradito e arrestato come reo di lesa maestà e di eresia e condotto a Napoli dove rimase imprigionato per ventisette anni, sottoposto alle più strazianti torture
(Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dello aculeo mi lacerò le ossa […] e la terra bevve dieci libbre del mio sangue […] risanato dopo sei mesi, […] in una fossa fui seppellito, […] ove non è né luce né aria, ma fetore di umidità e notte e freddo perpetuo).
Durante gli anni di prigionia e di strazi lo spirito, indomito e libero, gli diede la forza e alimentò la passione di lavorare e diffondere clandestinamente, per mezzo di amici, le proprie opere e il proprio pensiero. Nel 1626 fu condotto a Roma per volontà di Urbano VIII e dopo essere rimasto tre anni a disposizione dell’Inquisizione il 6 aprile 1629 venne liberato; dopo qualche anno di tranquillità dovette andare esule in Francia avendone chiesto il Viceré di Napoli, in seguito ad una congiura in cui si credeva che il Campanella fosse implicato, l’estradizione. Ben accolto dal Richelieu, da Luigi XIII, dalla Sorbona, visse gli ultimi anni, assillato dal pensiero della pubblicazione delle proprie opere, a Parigi dove mori il 21 maggio 1639: «ma per nessuno meglio che per lui, vale la sua convinzione filosofica che non esiste morte».
Oltre moltissime opere scritte in latino e in volgare, il Campanella compose in lingua italiana numerose poesie (canzoni, sonetti, madrigali, salmodie, ecc.) delle quali a noi è giunta solo una parte seguita da una frettolosa Esposizione in prosa che è opera dello stesso autore (additis annotationibus) ed è del 1613; per la prima volta esse vennero fuori a stampa, se si eccettua una parziale traduzione in tedesco del 1619 a Strasburgo per opera di G. Valentino Andreae, a cura dell’amico C. Tobia Adami in Germania nel 1622 col titolo Scelta d’alcune Poesie filosofiche di Settimontano Squilla cavate da’ suo’ libri detti la Cantica con l’esposizione. Per tutto il Settecento rimasero ignorate e solo nel 1834 apparve a Lugano a cura di Gio Gaspare Orelli una nuova edizione, molto scorretta, che venne riprodotta con qualche correzione dal D’Ancona nel 1854 nel primo volume delle opere italiane del Campanella; una scelta arbitrariamente raggruppata ne pubblicò Nicola Leoni nel 1861 nella seconda edizione della sua Istoria della Magna Grecia e della Brezia (fu pubblicata anche in estratto a Napoli, 1861) e nel 1884 nella terza edizione, riproducendo il testo dell’Orelli, mentre è alta benemerenza di Amabile l’aver pubblicato (1882) nel terzo volume della sua documentazione storica sul Campanella 69 poesie inedite scoperte in un manoscritto siglato dal poeta e un riscontro del testo Adami con quello Orelli-D’Ancona. Arricchita di queste nuove poesie è l’edizione curata da Giovanni Papini (Lanciano 1913, 2 voll.) in cui però il testo della Scelta conserva gli errori originari e nuovi errori si sono aggiunti; l’edizione critica che si può considerare molto accurata è quella di Giovanni Gentile (Bari 1915), fedelissima al testo Adami rammodernato solo nella grafia e nell’interpunzione. Più recenti sono quella di Mario Vinciguerra (Bari 1938), l’altra dello stesso Gentile (Firenze 1939) e quella di L. Firpo (Milano 1954) che è il maggiore studioso del Campanella. Le poesie di Settimontano Squilla – come il Campanella stesso si chiamò – sono veramente, così il Calcatemi, «il più alto grido dell’anima angosciata di realtà e d’infinito nel Seicento»; tali sembrano anche a noi ed espressione del travaglio del secolo il quale non si esaurisce nella facilità e nella stravaganza di un Marino, di un Chiabrera, di un Achillini ma si accresce di valore spirituale nel tormento movimentato, spesso più cupo che chiaro, nella ricerca e nella raffigurazione di qualcosa, che sta al di là del visibile, di un Reni, di un Domenichino, di un Guercino, dei Carracci, ecc.
Pur tanto lontane dalla moda del barocco e dalla ricercatezza – appunto per la tendenza dello spirito del Campanella a cogliere la realtà e non l’aspetto esteriore, la sostanza e non l’inganno dell’apparenza –, le poesie del frate calabrese interpretano l’esigenza più seria e dolorosa del Seicento, la sofferenza dell’anima protesa a raggiungere una realtà spirituale meno fallace di quella alla quale era asservita e che riconosceva imposta e speciosa. Anche quando un più sereno e cauto movimento lirico sembra tener lontana la commozione poetica con la forza di un pensiero che scende nelle strofe e crea una costruzione di duro metallo, proprio allora maggiormente noi sentiamo il travaglio, il dolore umano farsi sostanza della vita del Campanella sia che egli esalti la scienza e il regno della teocrazia, sia che condanni il sofisma e la tirannide o si affermi libero mentre sta in catene; il pensiero rende grave la forma di questa poesia e come esso vien fuori vigoroso e nudo così nuda e rozza è la forma, non facile a intendersi per chi non abbia conoscenza dell’espressione e della filosofia di Campanella. Aspre e dense di pensiero, prive di allettamenti retorici, nel disprezzo della facilità e del ridicolo ingegnoso le spregiudicate poesie del Campanella, dopo gli esempi offerti da Dante e degli intelletti universali del Rinascimento, costituiscono il primo sforzo aristocratico dello spirito umano che si volge, padrone di sé, alla conquista del proprio mondo e in esse bisogna anche riconoscere la dolorosa, straziante rivelazione di una realtà falsa che si trasforma sotto il libero esame, di una scienza nuova che si scopre.
La filosofia e la cultura di Campanella si vennero maturando in una terra priva di una tradizione storica unitaria e in cui gli avvenimenti recenti avevano portato povertà e malcontento contro gli Spagnoli. Le condizioni della Calabria alla fine del Cinquecento erano spaventose e tali da alimentare nelle popolazioni profetiche attese di rivolgimenti politico-religiosi e speranze di ripristino dell’originario stato di perfezione umana. Un residente veneziano scriveva nel 1601: «In Calabria sono stati così eccessivi i mali trattamenti ai popoli […] che senza dubbio si conosce essere loro stata levata la fede dal petto», soprattutto la fede ai giovani nelle istituzioni, negli uomini. La Città del Sole (1602) di Campanella è, più che un programma postumo della rivoluzione, l’idealizzazione di un progetto svanito. Ma il Campanella aveva creduto di dovere svolgere una missione di rinnovamento e aveva pensato che fosse giunto il tempo da lungo vaticinato: «Conobbi con ogn’un che parlavo dichiarò nel processo contro il tentativo di congiura che tutti erano disposti a mutatione, et per strada ogni villano sentiva lamentarsi: per questo io più andava credendo questo havere da essere». Come nella visione medievale di Gioacchino da Fiore è un’eco della sofferenza della sua terra così in Campanella è una infuocata tensione per ricostruire un regno cristiano unitario spiritualmente e moralmente, senza peccato, un’era nuova che per lui è già cominciata: «Deponentur arma, quibus bestiarum more defendimus dogmata, venietur ad rationes et disputationes et commercia, et totus mundus pace et scientia replebitur». La renovatio medievale come mito è ormai caduta, la speranza diventa desiderio di possesso, fatica costruttrice. Il Campanella, ammiratore di Telesio, nella Philosophia sensibus demonstrata (1591) non fu alieno dall’accogliere influenze atrologiche ebraiche e orientali che gli parvero confortare il suo concetto di rinnovamento e la sua fede nella capacità di conoscere la vita universale delle cose e penetrare nelle divine radici dell’universo. Il filosofo che vede la realtà nella sua degenerazione cerca la conoscenza vera nella peculiarità delle cose e nell’ordine universale che esse hanno e per questo lotta contro il formalismo, il falso, il futile, il male, il disutile: sostanza, cose, interiorità sono i termini dell’essenzialità per Campanella. Dalla verità gnoseologica alla verità morale, all’azione per combattere contro autoritarismi e sofismi. Dicevamo in principio che Campanella è la tipica espressione del genio calabrese ma lo è soprattutto per l’intensità passionale e morale, per la ricerca di unità e di verità, per quella che l’Adami chiamò «naturalezza» e che è il carattere più conforme dello spirito calabrese, più conforme anche alla grande tradizione magnogreca. Tale naturalezza si ritrova nei pensatori, nei poeti non di scuola e sarà il nucleo psicologico, morale e artistico di un altro movimento essenziale e caratteristico dell’Ottocento, il romanticismo che il De Sanctis chiamerà, appunto, «naturale». La naturalezza in Calabria e in Campanella non si esprime con eleganza ma con impeto e con rudezza: rozzi, abbiamo visto, De Sanctis chiamava i versi di Folco, «non solo rude ma rozzo» il Croce definisce il Campanella in quanto «non carezza i suoi fantasmi come fa l’artista, non s’indugia a ricercare la forma nuova e bella, ma si accontenta di parole e forme prosaiche, e sforza la forma e va innanzi, e adatta il suo nuovo pensare e sentire in moduli tradizionali». Ma i versi «rozzi e vigorosi» vivono in un corposo impasto poetico che si raggiunge in immagini ed espressioni le quali hanno così ancora il Croce «quel carattere che noi siamo soliti di chiamare dantesco». La compattezza non cede alla tronfietà barocca e non prelude minimamente allo sfocamento romantico e anche i lontani motivi pitagorici, biblici, orientali diventano plasticamente violenti e realistici. È compito della critica stilistica penetrare nel tessuto linguistico anche latino di Campanella per ricercare le peculiarità del De sensu rerum et magia, della Theologia, dell’Apologia pro Galileo, del De homine, ecc., l’unità anche lirica del grande pensatore.
Quando l’unità del mondo cattolico appare infranta, l’umanità sembra cadere in deterius, Campanella attende la renovatio, la riduzione di «ogni homo a libertà naturale», la riforma politica e il rinnovamento religioso, una più alta vita spirituale ed esprime la sua aspirazione nelle Poesie in accenti biblici di preghiera, in salmodie, in laudi, in accenti di scherno contro l’ipocrisia e la finzione. Le «seconde scuole» sono per il poeta quelle che nella natura apprendono non da Dio ma dai libri degli uomini i quali sono «opinanti di proprio capriccio», i poeti creano inganni e finzioni perché non seguono «di Natura l’opre», la verità è in Dio il quale è venuto «contra sofisti, ipocriti e tiranni». Occorre liberarsi dalle vanità e adorare il Dio «ch’un sempre stette»: «Scuola alza e regno a Dio da questi vani; | servir a Dio, in comunità vivendo, | è proprio libertà di spirti umani».
Da tirannidi, sofismi, ipocrisie che sono i mali estremi del mondo derivano carestie, guerre, peste, ingiustizia, lussuria; il «proprio amor» cieco è quello che genera i vizi e rende inerte l’uomo che «si finge saggio, buon, valoroso», convertendo se stesso «in sfinge». Il «proprio amor» nasce da ignoranza, «radice e fomento» dei mali e «gran fortuna è ’l saper, possesso grande più dell’aver», il vero possesso non è materiale ma interiore: «Né frate fan cocolle e capo raso. Re non è dunque chi ha gran regno e parte, ma chi tutto è Giesù». Gli uomini spesso si nascondono dietro simboli e il poeta invoca Cristo: «Se torni in terra, armato vien, Signore; | ch’altre croci apparecchianti i nemici, | non turchi, non giudei; que’ del tuo regno».
Nell’apocalittica visione di un mondo che corre alla corruzione e alla rovina, dopo che furono inventate le armi da fuoco, tenebrose per «fuoco, solfo, vampa, tuono e piombo, che di piaghe infernali i corpi ammorba», il poeta predice il ritorno del secolo d’oro dopo la caduta dell’Anticristo: «Pur dalla squilla mia sento un rimbombo: | – Cedi, bestia impiagata, sorda ed orba, | al saggio amor dell’anime innocenti –».
Il Campanella lotta sempre contro chi finge sapienza e bontà: «Né a voce, né a miracoli provarsi | bontà si dee, ma in fatti», «Nessun ti verrà a dire: – Io son sofista – -», «Gli affetti di Pluton portan al cuore, | il nome di Giesù segnano in fronte, | perché non siano lor malizie cónte | a chi gli guarda dalla scorza in fuore». Nei sonetti profetici i principati dei sofisti, dei tiranni, dei machiavellici sono indicati con corpose metafore tratte dall’animalistica; i nemici degli uomini sono «i corbi neri», «i figli della morte», un’«alba colomba» li scaccerà e «Un destrier bianco il suo cammino affretta, | di nostra redenzion verace speme». Dal fondo del carcere il poeta emette un lamento invocando aiuto dal Signore che lo ha creato:
Più parlar non mi fido,
ché i ferri, c’ho d’intorno,
ridonsi e fanmi scorno
del mio invano pregare,
degli occhi secchi e del rauco esclamare.
Mentre gli ipocriti e i sofisti addormentano il mondo, Campanella lo veglia e lo illumina:
Stavamo tutti al buio. Altri sopiti
d’ignoranza nel sonno; e i sonatori
pagati raddolcirò il sonno infame […]
Io accesi un lume […]
Verrà un giorno, egli profetizza, in cui gli uomini lo esalteranno:
Né sia chi rieda a darmi altra novella
dal Rettor delle sfere
che ‘l fin promesso dell’istoria bella
(sia stato falso o vero il messaggiere),
cantando: – Viva, viva Campanella –
Ai bei versi di Tasso dichiara di preferire «il fuoco» del petto di Dante e la sua polemica letteraria è un aspetto della profonda moralità e del desiderio di verità con cui si poneva di fronte alla realtà; il Campanella era uno scrittore etico-politico e non un letterato. Anche i motivi politici si condensano in espressioni di sdegno e di passione, di rancore contro il vizio:
Privata invidia ed interesse ammaga
Italia mia, ne mai più si dismaga
di servir chi la paga
d’ignoranza, discordia e servitute,
sempre contrarie alla commun salute!
Il corpo è «di morti cascia», l’uomo è soggetto ai pregiudizi e vittima dell’ignoranza e solo la morte eroica, indica Campanella agli altri carcerati, rende chi muore simile alla divinità:
È ’l bel morir che fa gli uomini dèi,
ove solo il valor saggio e virile
della sua gloria spiega in gran trofei.
Qui dolce libertà l’alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe ancor il paradiso vile.
Il tema messianico del rinnovamento è fondamentale in Campanella: da lontanissime ascendenze spirituali, da un dolore di secoli si maturava nel domenicano una vocazione al tragico la quale gli faceva presentire la venuta di qualcuno che avrebbe rinnovato l’universo. Nelle sue idee riformatrici concorrevano diversi elementi ma l’ideale di Campanella era quello di preparare l’avvento di un unico regno retto da una religione razionale, naturalistica, che avrebbe restaurato l’età originaria della perfezione umana, la partecipazione degli uomini alla vita universale e al processo creatore divino. Quelle idee nascevano anche dal ripetersi di una interminabile condizione sociale di desolazione, da desiderio di giustizia, di unità spirituale fra gli uomini. Ma i tempi sono diversi da quelli di Gioacchino e disperazione e sperimentalismo sono importanti componenti dell’irrequieto spirito di Campanella, più esasperatamente profetico e devastatore che l’abate florense.
Ma «privata invidia ed interesse» non hanno mai favorito lo spirito comunitario («in comunità vivendo»). Campanella fu perseguitato come un diverso dal sistema di potere, uno di quei grandi diversi che interpretano le ragioni umane e sociali di un’età e che gli strumenti del potere cercano sempre di annullare.
La moda petrarchesca continua anche nel Seicento, non sempre per una consapevole diversificazione dal marinismo, ma per il perpetuarsi di una convenzionale tematica. Nondimeno anche in Calabria penetrarono i vezzi di un marinismo denso di stranissimi bisticci retorici, di arguzie, di concetti bizzarri. Di Cesare Monitio di Taverna ci rimane, ad esempio, un estroso e bizzarro volume di versi, Talia, dove si contiene la Fiasca con le lagrime del Vesbo Furioso (Napoli 1647) in cui, nello stile ricercato e denso di metafore dell’epoca, egli canta un unico argomento, il vino. Si incontrano espressioni come le seguenti: «L’acqua al viso è Rachele, al gusto è Lia», «Son le labbra e ‘l parlar fiamme e saette, | guerra ogni pace, ogni dolcezza è fiele […] | Scortese cortesia, fede infedele», «Gioco ad audaci, a’ fuggitivi è palma. | L’occhio è sol, notte il seno, ombra la gonna, | oro il crin, ferro il cuor, questa è la donna».
Il Monitio fu medico e filosofo e riferendosi all’arte medica così gli si rivolge Giovanni Andrea Garsia:
Monitio, tu munisci i corpi frali
e rintuzzi di Cloto il brando bieco
e dal tuo senno espugnator severo
s’abbattono i dolor, fuggono i mali.
In un poemetto in cento ottave (Il Vesbo Furioso, ovvero incendio del monte Somma sotto perpetua metafora, Napoli 1647) Monitio descrive un’eruzione del Vesuvio personificato in un gigante, Vesbo. Questi ama la ninfa Tirrena ma viene respinto; per la disperazione scaglia verso il cielo il fuoco che lo consuma e con i torrenti di lava tenta di distruggere paesi e abitati. In altri versi greci e latini il poeta detta la sua etica cristiana e in un sonetto sull’inverno nevoso propone un rimedio al freddo: «Habbi l’humor di Bacco in bocca, e ‘l nome».
Dalla natia Petrizzi venne ancora fanciullo a Roma Bartolomeo Nappini, tanto che il Crescimbeni, del quale fu collega in Arcadia, lo ritenne romano. Era nato intorno al 1643 e in una epistola ad Antonio Marincola duca di Petrizzi il Nappini dirà: «Nacqui, e ringrazio il Ciel, nacqui a Patrizzi | che a Mantova, a Sulmona ed a Venosa | forse un dì fia che qualche invidia attizzi».
A Roma fu curiale, impiegato presso la Camera Apostolica, poi sacerdote e da Clemente X ebbe un’abbazia. Infine ebbe un canonicato in S. Maria in Rotonda (o ad Martyres, sulle vecchie mura del tempio di Agrippa). Fu grande sostenitore dell’Accademia degli Infecondi, solo nel 1709 fu arcade ma fu neutrale quando avvenne la scissione dell’Arcadia. Morì a Roma nel 1718. Scrisse poesie in volgare pedantesco e in vita pubblicò solo qualche sonetto per la liberazione di Vienna, per la presa di Buda e altre vittorie cristiane sui turchi. Molti componimenti recitò nella sua Accademia. Erano tutti fidenziani, misti di volgare e latino per fare la caricatura del latineggiare pedantesco: era il genere di Agostino Coltellini e di Benedetto Fioretti. A Guastalla li pubblicò nel 1769 Ireneo Affò (Sonetti pedanteschi di don Polipodio Calabro, pedagogo e pastore, per la prima volta da un fedelissimo manoscritto); l’edizione napoletana è del 1775, quella londinese apparve nel 1780 per opera di Aristarco Scannabue. Il Baretti informa il lettore che nell’edizione delle prime due centurie di sonetti (il titolo porta «di celebre autore calabrese») eviterà di far conoscere il nome dell’autore per creare un po’ di curiosità.
Le iperboli sono frequenti nel sonetto Alla lucciola di Biagio Galluppo Guaragna, autore di Poesie apparse a Napoli nel 1679. Della lucciola così immagina:
Per notturno sentier face volante,
animato carbon, foco spirante,
portentoso splendor, luce dorata,
di tenebroso ciel stella piumata,
di natura miracolo vagante,
spiritello infocato, atomo errante.
Si sente il ricordo di A una zanzara del Materdona ma non dispiacciono le varie metafore le quali infondono modificazioni di stile alle svigorite espressioni cinquecentesche. Nondimeno, anche in un quadro di rivalutazione del Seicento per la varia tematica degli argomenti, per l’infoltirsi di oggetti del mondo del poeta, per il particolarizzarsi della visione, il movimentarsi della scena, occorre confermare che, ad eccezione del Campanella, il sentimento profondo della poesia e del drammatico si ritrova soltanto in un pittore, in Mattia Preti. In Ettore Sersale, autore di Capricci accademici e castelli in aria (Napoli 1656), troviamo artificiosi e freddi contrasti: «Nel verno del dolor fiorire il riso, | bramar l’inferno e sospirar l’uscita, | esser dannati nel bearsi a un viso».
Molto più misurato è il marinismo in Francesco Della Valle, nato ad Aiello, vissuto lungo tempo a Roma, il quale pubblicò a Napoli nel 1617 un primo volume di versi e un secondo a Roma l’anno seguente. Fu iscritto all’Accademia degli Umoristi, fu amico del Marino, godette della protezione del cardinale Roberto degli Ubaldini. Compose e pubblicò delle lettere in terza rima, Lettere delle dame e degli eroi (Napoli 1644), oltre le Rime abbiamo suoi componimenti nella raccolta di Guaccimanni, Raccolta di sonetti d’autori diversi et eccellenti dell’età nostra (Ravenna 1623). Il Della Valle fu molto vicino ai modi tradizionali con cui espresse una sua vena elegiaca, il marinismo è in lui temperato, quasi orecchiato, ma agli estremismi marinisti oppone una resistenza di gusto e di fede nell’espressione degli affetti. Cantò la timidezza dell’amante con un candore insolito nei marinisti («e d’un vermiglio insolito mi tingo»), l’amore ricambiato con abbandono di sentimento che non lascia il luogo alla ricerca metaforica («uniti abbiam core con core», «portiam l’alme dipinte e i cori impressi»). Le ricercatezze sono di scarso rilievo («giungo a pena che parto, e parto a pena», «ne le ceneri mie foco d’amore»). Il giro strofico e sintattico è di stampo tradizionale: «Se m’è tolta di lei l’aria serena, | almen beato a quelle mura intorno | ha qualche tregua il cor con la mia pena».
Le antitesi, le coppie di aggettivi, di sostantivi sono di origine petrarchesca, l’intonazione aulica non ha ceduto al realismo delle enunciazioni, l’aggettivazione è quella tradizionale («aria pura», «chiaro lume», «amate porte»: il riflusso petrarchesco trova nel Della Valle una solida consistenza, un sicuro arginamento).
Se poi prendiamo, ad esempio, un rimatore vissuto nella seconda metà del secolo, Cesare Firrao, nato a Luzzi nel 1648, vediamo che il marinismo ha lasciato scarse tracce quantunque il Firrao sia vissuto a Napoli, dove conobbe diversi letterati marinisti. Ritornato in Calabria, il Firrao si ritirò nel monastero di Sambucina dove morì nel 1714. Le sue rime furono pubblicate postume a Lucca nel 1728 dal nipote Tommaso e in esse notiamo, pur nella mancanza di vigore poetico, un sospiro malinconico che rende vivo qualche verso. Lo stile conserva i modi della tradizione cinquecentesca («D’antica selva entro i recessi ombrosi», «Erti colli, ime valli e prati ombrosi»).
Anche il cosentino Francesco Dattilo, le cui rime amorose apparvero nel 1723 a Firenze, sembra continuatore della poesia tradizionale ispirandosi ai modi e alle forme del Cinquecento. Talvolta anche la tematica, quella di Petrarca che vede il meglio ed al peggior si appiglia, riflette una lunga consuetudine con gli spiriti e le forme del poeta aretino («Sforza vie più, quanto più via l’avanza», «ma il tragge altrove il mio destin fatale»).
Alla tradizione dei lirici morali e non degli erotici del Seicento si ricollega il già ricordato Biagio Guaragna Galluppo, nato a Morano intorno al 1624. Studiò nella sua provincia, poi venne a Napoli, frequentò i circoli letterari, fu iscritto all’Accademia degli Oziosi e a quella degli Erranti. Esercitò a Moliterno l’ufficio di governatore regio e feudale. Qualche poesia amorosa è nell’ultima parte del suo libro e noi ricordiamo questo fiume d’oro di capelli di una bella donna:
Ride d’oro animato ampio volume
sul volto a Filli il lubrico tesoro,
che fa, svolto e vagante in aureo fiume,
su le guance ondeggiar turbini d’oro.
Il Croce ha messo in rilievo la caratteristica del Guaragna Galluppo, le odi di concetto religioso e morale. Di solito un «tessuto di pensieri affatto prosaico è, con non poca virtuosità, rivestito di immagini ricercate e iperbolizzate e di versi ben girati e sonanti». Racconta l’autore di aver preso moglie dopo i giovanili amori:
Da le reggie impudiche
de la dea d’Amatunta e di Citerà
passai repente ad occupar la sfera
ch’illustra d’imeneo le tede amiche;
sotto il dorato giogo
dopo lungo soffrir sperai riposo.
La moglie, invece, costituì il tormento della sua vita e gli impedì anche il lavoro letterario:
[…] con rabbia e con loquaci offese
la mia Santippe ad infestar mi prese […]
pur se talor disciolto
da’ domestici affari erger volea
volo gentil su la pendice ascrea
dal femmineo latrar n’era distolto;
onde cadean da quei donneschi orgogli
le penne infrante e lacerati i fogli […]
ogni consiglio è vano
per guidar, per frenar l’impeto insano
de la donnesca, indomita licenza […]
Qual fia ragion che basti
le ritrose superbie e i duri fasti
a moderar di garrula consorte?
Socrate meritar non sa tal vanto:
chi dunque fia ch’osi presumer tanto?
Nella seconda parte della vita, trascorsa più serena dopo la morte della prima moglie e nella calma di un secondo matrimonio, il Guaragna Galluppo pensa agli anni della vecchiezza e alla morte: «langue il vigor, manca la lena e parmi | premer col pie’ già de la tomba i marmi».
Nondimeno, ad onta della superficialità di molti versi, non possono non sorprenderci, come ha osservato anche il Croce, talune osservazioni sulla decadenza spagnola:
[…] de la reggia Ispana
la macchina è così pesante e vasta,
che i regi affari a regolar non basta,
senza l’aiuto altrui, possanza umana.
Nel 1679 pubblicò presso la tipografia di Francesco Paci a Napoli un volume di poesie in cui non mancano vizi barocchi; l’anno seguente apparve, presso lo stesso tipografo, la parte seconda di queste poesie. Di questo secondo volume il Croce che non era riuscito a trovare l’opera ha messo in dubbio la pubblicazione. Il secondo volume esiste ed ha una analogia strutturale col primo: precedono canzoni seguite da un minor numero di sonetti. In molti componimenti l’intento è puramente encomiastico e celebrativo. In altri versi implora la clemenza divina in occasione di calamità naturali (terremoti, siccità, pestilenze, temporali ecc.), invita i poeti a cantare materia sacra. L’ideologia del poeta è favorevole al potere costituito, alla religione istituzionale e all’autorità dei nobili (barone era Muzio, il padre del poeta e baronessa la madre, donna Cardinia Galluppo). Nella canzone Per la rivoluzione di Messina così scrive:
E tu cattiva, afflitta,
odi Cariddi tua Città più infida,
sotto l’asta omicida
dell’Austriaco Campion cadrai trafitta.
Tu da lo sdegno Ispano,
spettacolo d’orrore a terra spinta,
vedrai di sangue intinta […].
Alla monarchia di Spagna dedica altri versi augurando che scompaiano i dissenzienti religiosi: «Dall’infame Lutero e di Calvino | beve Lete gli Errori». Il Guaragna Galluppo è l’esempio dell’intellettuale che si conforma ai tempi: la tematica etico-religiosa lo preserva dalle accuse di poeta libertino, l’encomio verso lo straniero lo fa proclamare sostenitore del governo costituito; sotto la saggia guida del Viceré di Napoli esulta «t’ama, e t’inchina ossequiosa, e dice: | – governo non fu mai così felice […]».
Tra gli altri poeti del secolo ricordiamo: Girolamo Garopoli di Corigliano (c. 1605-1678) il quale, invece, antispagnolo, nel poema Il Carlo Magno (1655) invita il giovane re di Francia Luigi XIV ad imitare il suo proavo Carlo Magno e a rendere indipendente l’Italia, a conquistare l’Impero e a darlo al Papa. Nel Garopoli è un riflesso di idee campanelliane, come ha ben indicato Francesco Grillo; Ignazio Cumbo di Reggio, autore di un poema sacro. La Maddalena liberata; Giacomo D’Aquino che pubblicò nel 1638 a Napoli Rime e prose (ma napoletano è detto dagli storici); Carlo D’Aquino (che non va confuso con il suo omonimo napoletano) di Cosenza, autore di Le rugiade di Parnasso (1654) in cui sono poesie profane e religiose ma anche appartenenti a due diversi moduli artistici a cui egli aderì:
Nel primo, scrive il Galati, egli fu marinista petrarcheggiante; e se portò i difetti della scuola, si rivelò un poeta di vera ispirazione amorosa; nel secondo, allorché Pirro Schettino di Aprigliano iniziò il movimento antimarinista, si convertì alla nuova scuola, onde, cessato il suo ardore amoroso, scrisse nella nuova forma, nella quale, però, non ebbe alti voli. Tuttavia anche questa seconda parte della sua opera poetica è notevole come segno della reazione al vizio del secolo.
Maggiore rilievo storico ed artistico ha Pirro Schettino il quale nacque a Petrone di Aprigliano nel dicembre del 1630 e fu avviato dal padre agli studi di diritto presso l’Università di Napoli dove «trivit aliquando aulas» come narra un biografo riuscendo tuttavia a laurearsi nel 1651; dopo la laurea fu costretto a ritornare a Cosenza, accompagnato dal fedelissimo compagno di studi sardo conosciuto a Napoli, Carlo Buragna. Poco si conosce della sua vita cosentina, certamente attese a comporre le rime del primo periodo e agli studi letterari; come letterato doveva avere una certa fama se nel 1668 venne creato Principe dell’Accademia Cosentina e più tardi, in seguito a un rivolgimento spirituale, dallo stesso Arcivescovo di Cosenza, Giuseppe Sanfelice, che lo aveva creato Principe dell’Accademia, fu accolto in Dio. Dedicatosi allo studio delle cose sacre e bruciate le rime profane, tra cui un poema latino e una tragedia, morì nel 1678. Le sue rime furono pubblicate postume a Napoli, la prima volta nel 1693 e vennero ristampate nel 1716, ma l’edizione migliore è quella del 1779 a cura di Francesco Antonio Giuliano che scrisse la biografia dello Schettino in latino; è merito di Domenico, nipote di Pirro, e di Stefano Biscardi l’averci tramandato i versi del poeta che erano scampati alla distruzione perché già diffusi presso amici.
Schettino visse a Napoli dal 1645 al 1656, in anni in cui scoppia la rivoluzione guidata da Masaniello e, successivamente, avviene un rinnovamento nella cultura. Dalla rivolta derivava anche la coscienza della cattiva amministrazione e delle strapotenze baronali, della vecchiaia e del formalismo delle strutture culturali (nella prima metà del Seicento le realizzazioni più immediate rimangono, però, all’insegna dell’erudizione tardo-rinascimentale). Lo Schettino vive la sua giovinezza napoletana a contatto con gli assertori della nuova scienza razionalistica, cartesiana e antiaristotelica. Comincia ad allargarsi l’orizzonte culturale e se ogni intellettuale è specialista in una disciplina (Leonardo Di Capua, Tommaso Cornelio sono medici, il Valletta è filosofo), ciascuno (dal D’Andrea all’Argento, al Dona, all’Aulisio) ha una cultura multiforme e, quanto è possibile, unitaria, che va dalla teologia al diritto, dalla medicina alla matematica, alla filosofia, alla storia. L’asse culturale è matematico-scientifico, sono dibattuti i testi di Boyle e Newton; questa generazione sboccherà nel sodalizio che avrà aspirazioni e interessi di ricerca comuni, l’Accademia degli Investiganti (1663) nata sotto la protezione del marchese Andrea Conclubet e fondata da due medici fisici, il Di Capua e il Cornelio. Lo Schettino da vari anni era lontano da Napoli ma il metodo instaurato dagli Investiganti muoveva dal ventennio 1640-1660, quando i protagonisti erano giovani compagni di vita e di studio del cosentino. A Napoli acquistava nervatura moderna il naturalismo di Telesio e Campanella e anche la poesia, di riflesso, si schiariva nelle sue ragioni e nelle sue forme, lasciava cadere gli orpelli marinisti.
Ingegno aspro e originale Pirro Schettino è uno dei poeti calabresi maggiormente dotati di gusto e per mezzo della sua accortezza e intelligenza estetica egli poté sentire la falsità artistica della poesia del suo tempo che si dibatteva fra il Petrarca e il Marino. Si avvide che la moda letteraria è ben altro dall’ispirazione sincera e abbandonò la sua prima forma di poesia nella quale aveva versato tanta di quell’enfasi e tante di quelle iperboli di cui la stravaganza del secolo si compiaceva. Volle ritrovare quindi se stesso e a tale esigenza morale corrisponde il tentativo della sua poesia la quale ci rivela, negli ultimi sonetti, l’uomo che cerca di evadere dalla terra e di rifugiarsi nella bontà divina. Lo Schettino volle attuare la spiritualità che lo dominava, in una maniera che fosse anche significativa come distacco da quel mondo contro il quale reagiva per insoddisfazione e volle ricreare la propria vita: si fece prete quindi per rendere evidente con un atto sensibile, col quale veniva a cambiare stato, il rinnovamento dello spirito ma non si chiuse nel mondo pretesco e cercò di illuminare la propria vita col pensiero di Dio e aprendo il proprio animo ad immagini di vita ultraterrena, contemplata con una serenità che non si ritrova in altri canzonieri del Seicento e che esprime il senso della pace ottenuta col distacco dal mondo. La morte è diventata per il poeta un sicuro e calmo porto, un oblio del male ed egli la cantò con un desiderio fraterno di essere accolto fra le sue ali, con una fiducia che altri poeti del secolo (Federico Meninni, Tommaso Gaudiosi, Giovanni Canale, ecc.), intesi a esprimere piuttosto nella morte il senso di caducità delle cose e dei piaceri terreni e le lugubri immaginazioni della mente attratta più dal peso delle ombre che dalla lievità della luce, non avevano dimostrata. Per lo Schettino non è la «mors atra» degli epitaffi tragici ma la liberazione dell’anima, il maggior trionfo del proprio ascetismo cioè della propria evasione spirituale. Il poeta in quel suo anelito puro verso Dio non solo rimase fuori della moda del secolo superando i difetti ma portò un accento individuale di poesia e non può essere ricordato solo come l’artefice di un movimento antimarinista, formula che racchiude un polemico e ancor non bene chiarito atteggiamento schettiniano verso il secentismo.
Anche in seno all’Accademia Cosentina, che era rifiorita con Telesio e Quattromani, lo Schettino dovette sentire l’importanza del naturalismo scientifico, del razionalismo cartesiano, di un gusto più chiaro di quello barocco e si rivolse verso il Petrarca e il Di Costanzo. Tuttavia vero interno svolgimento manca nelle sue rime che rivelano una adesione talvolta programmatica al distacco dalla prima vita, in moduli stilistici ripetuti e in corrette invocazioni alla morte («Già vissi in cieca notte», «Già solcai troppo ardito», «O morte, o tu de’ miseri mortali»). Ma in questi ultimi componimenti è necessario sottolineare l’unità di tono, medio e misurato, venato di vera tristezza delusa: «Io te vorrei per mio riposo, o Morte: | e chi si duol che nostra vita è breve, | duolsi che l’ore del penar sian corte».
2. Donnu Pantu. La letteratura scientifica
La poesia dialettale in Calabria comincia ad avere i suoi poeti nel Seicento. Il dialetto rappresenta una forma espressiva più immediata, più vivace, più prossima all’espressione pratica e psicologica, riesce di maggiore effetto mimetico, realistico, allusivo in virtù di metafore di immediata e pittoresca evidenza. Essa è talvolta l’ammiccamento psicologico, una sorta di intesa tra individui appartenenti agli stessi elementi etnici, una più rapida intesa sul piano dei sentimenti, delle intuizioni pratiche. Per tali motivi la poesia dialettale si volge maggiormente verso il genere faceto, verso lo scherzoso, il giocoso, il narrativo, verso la comunicazione, verso la polemica e la satira. Induceva a tale ambito di rappresentazioni anche la naturale tendenza dello spirito meridionale giocoso e licenzioso per lunghissima tradizione greca, indigena, campana, per la fissazione di moduli stilistici attuatasi in relazione alla vita, alle stagioni dell’anno, ai lavori dei campi, alle consuetudini cittadine, allo stampo realistico con cui tale poesia si era venuta perpetuando e tramandando. La «calda aria di Sibari», scrive un critico (Guido Cimino), era congeniale più che l’algida bruma del nord ai poeti dialettali: ma anche quella di Atella e della Napoli di Pulcinella (che, per traducem, rinasce appunto nel Seicento), diremmo noi, spira sulla Calabria, terra del Reame, terra di contadini e di gente povera ed elementare. Del resto la poesia dialettale anche faceta è segno di una sorta di riscatto, di desiderio di evasione dal secolare dolore in cui abbiamo vista immersa la Calabria nel Medioevo, al tempo del compianto per la morte di don Enrico d’Aragona, del planctus del Barrio, dei lamenti per la carestia.
In una storia puntuale della poesia dialettale calabrese avrebbero anche importanza le traduzioni in vernacolo delle grandi o piccole opere della letteratura nazionale in volgare: certamente ne avrebbero sul piano linguistico. In una storia della letteratura calabrese quelle traduzioni possono, invece, rivelare una soggezione culturale, un riconoscimento di attività subalterna dal punto di vista intellettuale e creativo perché di solito si tratta di abilità, di artificio, di stento, di sforzo, di tensione agonistica con l’originale; salva restando, s’intende, l’utilità della divulgazione e della diffusione sul piano della cultura del popolo.
Per certi aspetti, inoltre, la poesia dialettale appare nel Seicento come avversaria dell’autoritarismo, del dogmatismo e ciò può avvenire perché la stessa ricerca di novità può giustificare l’uso di un diverso strumento espressivo. In verità la crisi del Rinascimento è anche una modificazione delle condizioni di quel secolo, è uno sciogliersi delle cristallizzate forme, è un avanzamento verso inediti stilemi, verso più ardite metafore che sono anche il segno di una più mobile vivacità dell’ingegno. Che nel cosiddetto «focolaio di Aprigliano», patria di Pirro Schettino, sorga nel Seicento un poeta dialettale che è anche sacerdote (e verseggiarono in dialetto due suoi zii materni, Ignazio e Giuseppe Donato, pur essi sacerdoti), Domenico Piro, è significativo del mutamento dei tempi. Se a ciò si aggiunge che il Piro fu assai licenzioso, quasi l’archetipo dell’estrema licenziosità dialettale calabrese (prossima a quella magnogreca del settecentesco catanese Domenico Tempio), si può notare non diremmo la libertà ma il distacco da un mondo che si era recluso nell’imitazione. Finisce quasi simbolicamente la grande tradizione monacale calabrese, il sentimento di una vita assorta unicamente nella contemplazione spirituale, nel fervore mistico e appassionato di colore orientale. Il mondo dei basiliani è concluso come mondo vivo e reale, l’Oriente greco e bizantino ha emesso i suoi ultimi grandi e meravigliosi bagliori, veramente affascinanti, le immagini teofaniche sono scomparse nella Calabria, estremo lembo di una irreparabile vita ellenica. Ha inizio una più inquieta vita del popolo, più sommossa e agitata, immersa in una moderna storicità: da Jerocades a Salfi, a Padula, i religiosi saranno ormai partecipi di sentimenti politici più larghi e più popolari, tendenti a una misura nazionale. Domenico Piro, detto Donnu Pantu, nacque ad Aprigliano nel 1665 ed ebbe ingegno vivacissimo, larga e facile vena del dettar versi licenziosi e boccacceschi oltre misura, i quali ebbero molta fortuna di diffusione. Morì nel 1696 e fu sepolto nella chiesetta di S. Stefano nella quale il fratello Isidoro, dell’ordine dei Minimi, dettò l’epitaffio per la lapide tombale1.
Con il Piro si esce fuori degli schemi ritriti della poesia aulica, dietro il poeta dialettale è un mondo paesano che si libera con la facezia (il poeta apparteneva a una brigata anche parentale di uomini colti e di chiesa che motteggiavano con estro e originalità) e con il tema fallico dal peso dell’autorità, dai condizionamenti culturali che per tutto il secolo avevano gravato la vita cosentina. Grande istituzione era stata l’Accademia Cosentina ma gli accademici avevano emigrato verso Napoli, Roma, Padova, Ferrara: l’Inquisizione cosentina era stata ferocissima per un secolo e preti e laici erano stati ferocemente tenagliati, arrotati, strascinati, afforcati con una disumanità che ha poche analogie nel Medioevo. Coloro che esaltano l’organizzazione cattolica della Controriforma hanno su che meditare. Con Piro (che fu ammonito, castigato e incarcerato dal vescovo Gennaro Sanfelice) il mondo dialettale può aprirsi alla risata dopo tanto planctus e tanto imbellettamento marinistico.
I versi di Piro e della sua brigata con la loro corposità e veemenza orgiastica erano l’affermazione di una vitalità che si affermava come volontà di esistere contro le ipocrisie e i soffocamenti. Nascevano osceni e realistici in antitesi alla bellurie marinista, erano espressione di un piccolo mondo la cui tragica subordinazione agli strumenti vicini del grande potere lontano faceva scaturire un diverso codice culturale e morale. In questo meccanismo vigeva, d’altra parte, anche un’autocensura la quale impediva un coerente e illuminante indirizzo ideologico.
Sottili fili legano, tuttavia, il realismo licenzioso di Piro all’antidogmatismo e al naturalismo della nuova filosofia, alla polemica per la libertà dell’arte e del pensiero. Era una nuova investigazione che nasceva da un forte modo di sentire la vitalità feconda e fisiologica dell’uomo: «Sunu palluni, favule, bugie li Senuocrati casti e cuntinenti». Il Piro prendeva atto che le cose valgono per quello che sono e non per l’idea che ci facciamo di esse e in questi versi amari e moderni riconosceva l’importanza del concreto e dell’economico:
Fratemma dice ca nun vale l’uoro
ca ccu lu litteratu non c’è paru.
Io lu vorrà truvare nu trisuoru
ppe dire bona notte a lu livraru.
Ca sette savii de la Grecia fuoru
e tutti uotto de fame creparu.
E si campu n’autru annu e si nun muoru
o chianchiere ma fazzu o tavernaru.
A noi pare importante che ad Aprigliano vi sia stato un piccolo gruppo di poeti in dialetto i quali, opponendosi implicitamente (con lo scrivere in dialetto, scegliendo determinati contenuti e l’espressione realistica) al ruolo aristocratico dell’intellettuale-guida protetto dal potere, manifestavano lo sbocco delle contraddizioni oggettive dell’intellettuale meridionale dei borghi e delle campagne. La scelta e la polemica rappresentavano un utile minimo di collegamento con il mondo subalterno quando le condizioni non consentivano all’intellettuale la capacità di fermarsi in una salda, razionale, costante visione dell’agire politico. La vera moralità di Domenico Piro è nel coraggio di porsi originalmente questi problemi culturali e nel coraggio di guardare la realtà.
Un poeta dialettale apriglianese dell’Ottocento, Luigi Gallucci, che nel 1833 ha curato una raccolta delle poesie di Piro (di cui esiste una ristampa castrovillarese del 1896) ha attribuito a Ignazio Donato le novelle poetiche Briga dei studenti, interessanti per la vivacità espressiva e per la lingua, e Lu gattu. Contemporaneo del Piro è Carlo Cosentino di Aprigliano il quale tradusse in versi dialettali La Gerusalemme Liberata. Si ricordano anche Cesare Quintana di Castrovillari (morto nel 1646) e Antonio Marasco, prete come il Quintana, nato a Motta S. Lucia, il quale nel 1697 compose Lu sbarru de le foreste per celebrare il riconoscimento degli usi civici ottenuto dai suoi concittadini sulle terre del feudatario del luogo.
Per conoscere la produzione di Piro esistono notevoli difficoltà. L’edizione castrovillarese del 1896 curata dal Gallucci contiene versi di Pantu, dei Donato, di Gallucci. Questi è venuto a conoscenza delle poesie apprendendole da coloro i quali le ricordavano a memoria per averle ricevute da altri memoratori; pertanto le attribuzioni sicure a ciascuno dei tre poeti apriglianesi sono incerte, anzi infide. La scadente trascrizione linguistica zeppa di storpiature è una conseguenza del modo di trasmissione non collegata a un testo scritto. La tradizione assegna a Donnu Pantu Lu mumuriali, La cazzeide, La cunneide, Jisti a de Pinnu, l’esame dei contenuti e dello stile (dovuto a Silvia Naccarato, accettato da Giulio Palange) assegna al Piro altri due sonetti, La pruvvista e Briga de li studienti.
Biografia confusa e aneddotica hanno resa vaga la fisionomia di Piro il quale ebbe come padre un notaio, Ludovico, come madre la sorella dei Donato. Abitava nel rione Pera di Aprigliano, nella «casa dei notari». Fu avviato alla carriera ecclesiastica come il fratello Isidoro che fu monaco dei Minimi. Amico fraterno fu Carlo Cosentino, verseggiatore in dialetto. Gli aneddoti dicono che Piro per la licenziosità dei versi che faceva circolare in paese venne chiuso dal vescovo nelle prigioni ecclesiastiche; che non vedendo vicina la liberazione Piro facesse ripetere ai ragazzi della strada questi versi indirizzati al vescovo: «ohi monsignù | vi ca nun mi cacci de sta fossa | iu dicu c’hai mprenatu la patissa […]».
Per la vaghezza biografica, per la ricchezza sconcertante degli aneddoti inverosimili (proiezioni bizzarre più che verosimiglianze di fatti reali) si è manifestata la tendenza ad attribuire a un popolo anonimo i componimenti di Piro, a dissolvere il poeta; si è cercato anche di confondere le attribuzioni approfittando della confusione della tradizione, per fare svanire anche con tale procedimento la personalità biografica di Piro; infine si è cercato di separare l’uomo (morigerato, morale) dal poeta («laido», «sconcio»). Dannato il poeta, considerato eversivo, dissacratore, non sono mancati coloro i quali hanno cercato di moralizzarlo, di normalizzarlo, di minimizzare la carica di licenziosità, di sottovalutare la potente originalità artistica ottenuta con strumenti linguistici nuovi, rivoluzionari. Piro è stato sempre una spina nel fianco per coloro i quali amano l’assolutismo, il dogmatismo, l’accademismo; l’aneddotica stessa serve a demotivare le posizioni intellettuali del poeta e a portare la sua polemica sul piano della scurrilità (con la quale si può essere più o meno d’accordo, che non è così grave come la volontà mentale e morale).
Invece Piro si contrappone ai giri di parole della lirica barocca, all’accettazione ipocrita delle verità imposte dall’autorità, al conformismo religioso, alla religione come predicazione, al feudalesimo che costringe alla povertà. Egli dà valore all’economia perché vede il dominio del capitale e il contrasto con lo spirito evangelico; il suo secolo è il secolo del mercantilismo, del comprare e vendere, del conquistare per vendere, del rapinare per vendere. Dal suo osservatorio paesano («vàjunu tutti a Ruma a rumpicuollu | e iu mi la cugliuniju ad Apriglianu») vede il trionfo del capitale della borghesia grassa, dei commercianti (macellai, librai, bottegai) e sprigiona la sua energia psichica e intellettiva per lanciare con forza espressionistica originale i suoi strali contro beghine, bacchettoni, vescovi, signori. Contro i dominatori adopera quasi per irrisione in realtà per rompere con la retorica, con il classicismo dell’inutile letteratura moraleggiante complice dei dominatori le armi dell’ironia, del sarcasmo, dell’eros. Nella battaglia per il rinnovamento della cultura, perché il letterato non abbia un posto indegno nella vita civile (per restare letterato e per non desiderare di fare il macellaio) Piro lancia l’istinto liberato, non represso, il dialetto che esalta la carnalità come vitalità organica. È la sfida contro l’astratto, contro i velami aristotelici e platonici, è il capovolgimento delle idealizzazioni interessate, è il ribaltamento della tradizione stilnovistica sublimante e ipocrita, paravento della corruzione. Piro rompe gli schemi accademici del trionfalismo spiritualistico, si collega con la tradizione naturalistica della nuova cultura, con il mondo della sensualità greco-romana che vive nella civiltà della campagna; non lo fa in nome di una donna, egli non ha una Cecia (antitesi di Beatrice) da contrapporre; contrappone il naturalismo fallico degli organi sessuali come emblemi della natura, come verità di un mondo pratico-politico che sarà trionfatore nel futuro. Il represso, il dominato adopera nuovi stilemi linguistici, quelli del dialetto, per entrare nel fortilizio culturale dei dominatori che vincono con l’imperialismo spagnolo, con la Controriforma, con la strage dei Valdesi, col potere sacerdotale che va alla conquista dell’America con il fucile. Egli rifiuta tutto ciò e contrappone la struttura sessuale eversiva come mezzo di liberazione; il pansessualismo schiaccia i tiranni del mondo, nulla essi possono contro la fusiV generante:
Chine manténa la gente e le regna?
Chine fa tanti papi e cardinali?
Tanti re, ’mperaturi e uffiziali
cchiù ca la fregna?
Piro insiste nel descrivere la donna in eterno calore, in tutti i momenti della vita, per fare vedere in essa prevalente la natura e per cancellare l’invenzione della donna-madonna, della donna-angelo della tradizione cortese, aristocratica, di feudo. Tra artificio, invenzione, ipocrita distacco dalla realtà si sono mossi i poeti idealizzanti; gli intellettuali del potere (i Senocrati casti e continenti: Senocrate fu filosofo platonico, metafisico e misticheggiante) hanno inventato favole e bugie perché si sono messi al servizio dei potenti e hanno avallato le loro ideologie. Piro è antisacrificale e antipenitenziale, è contro il governo dei sacerdoti, contro l’assunzione delle loro idee a idee di governo sugli uomini. C’è stato un Rinascimento (per i soli dominanti), contro le idee-madri umane è venuto l’assolutismo dell’età barocca, ad esso sono di sostegno i dogmi, la cultura accademica. Piro riprende la lotta contro gli idoli (con Bacone che aveva lottato anche contro le scuole e le accademie), in favore del diritto naturale (è l’età di Grozio, di Sarpi che vediamo schierato contro l’Indice dei libri proibiti); il quadro che è polemicamente davanti agli occhi di Piro è il capitalismo della rifeudalizzazione, del mercantilismo feroce. Abbiamo visto ciò che nel Rinascimento si attaglia a Piro; non lo splendore delle corti (che in Calabria non esistono) ma il De litteratorum infelicitate di Paolo Valeriano; precarietà, miseria, vita errante, essere ludibrio dei cortigiani più potenti, questo era la condizione di chi amava le lettere o la scienza.
Il prete Piro avrebbe potuto accettare di fare parte dell’organizzazione ecclesiastica e vivere in tranquillità come don Abbondio all’ombra della protezione e dei benefici che il suo stato gli portava ma aveva intelletto acuto e penetrante. In epoca di assolutismi non poteva accettare l’evangelizzazione che si espandeva, protetta dalla monarchia spagnola, da Goa a Lima, la diffusione della fede legata alla conquista di territori. L’antiassolutismo è rifiuto del dogma. Non abbiamo motivi per ritenere che Piro fosse un cattivo sacerdote; anche gli aneddoti collegano il suo erotismo con il sarcasmo contro l’autorità ecclesiale, le sue risposte alla satira contro gli ipocriti e i potenti (avesse operato non in un borgo ma in una città, avesse avuto influenza fuori del borgo non avrebbe provato il carcere vescovile ma le tenaglie o il rogo). La lapide funebre posta nella chiesa in cui Piro fu sepolto porta un’iscrizione del 1700 (quattro anni dopo la morte) dettata dal fratello Isidoro dei Minimi in cui si dice che Domenico «olim ex cathedra: jam sepulcro docet: breves dies homims esse»: che la vita degli uomini è breve, che esistono durate maggiori della vita; si dice che Domenico includeva tutte le scienze nel suo argomentare; l’iscrizione gioca elegantemente (secondo la moda barocca) su lustris, illustrior, lucis (pochi lustri di vita, più illustre per la perizia di ogni scienza, perdette l’uso degli occhi – cioè la vita); Dominicus lui, l’anno della morte è quello (1696) domenicae Incarnationis (l’accostamento dei termini è voluto a bella posta, devotamente: addirittura si ricorda l’Incarnazione di Cristo citando la data di morte); Domenico insegna ancora da morto poiché la morte è scuola di vita: «Discat vivus a mortuo nam schola vitae mors est»; due volte è espresso il dolore del fratello sacerdote: (proh dolor!), non sine lacrimis. L’iscrizione esprime ammirazione per l’ingegno e i magistero (cathedra) di Domenico, dolore per la sua scomparsa, esortazione ai vivi a imparare da lui morto.
L’atteggiamento di Piro, la sua posizione di naturalizzatore del sesso fanno parte di un irriducibile sistema di idee che è contro gli assolutismi e che esprime la indipendenza di pensiero, la tensione morale, intellettuale di chi rifiuta i veli dell’ipocrisia e vuole educare a demistificare la realtà che non è quella della cultura ufficiale ma quella individuale, soggettiva, dell’istinto. La cultura ufficiale è corrotta come la vita sociale:
E mo curre nu sieculu puttanu
pe nun dire nu sieculu curnutu […]
Le fimmini te ’mpacchianu de manu
le pigliau lu diavulu pinnutu […]
In contrasto con l’ipocrisia Piro indica la natura come stato primordiale ed essenziale della vita e siamo in linea con la nuova cultura che si apre la strada con scienziati, medici filosofi anche (se non soprattutto) calabresi a Napoli e con l’Accademia degli Investiganti. Né mancano i letterati. Non si tratta di oscenità ma di indicazioni culturali, psicologiche, materiali perché si comprenda l’unità dell’essere. Piro è sacerdote ma il dogma è per lui contro la natura. Un aneddoto dice che il vescovo Gennaro Sanfelice libera Piro dalla prigione vescovile impegnandolo a scrivere una lode alla Vergine che Piro scrisse concludendola con i seguenti versi: «e nzica chi campau la mamma bella | de cazzu nun pruvau na tanticchiella».
La posizione ideologica di Piro non è l’oscenità in sé ma l’antiascetismo, l’ironia contro la finzione della religione, contro il penitenzialismo. Già il rinascimentale Ariosto aveva satireggiato la morale decaduta della vita eremitica e aveva contrapposto all’apparenza devota e venerabile di un eremita la brama sensuale che lo tormentava alla vista di Angelica; in altro eremita «tutto pien di caritade, di buoni esempi ornato e d’eloquenzia» si imbatte Isabella dopo la morte di Zerbino; il culmine della sensualità dell’eremita nei confronti di Angelica è descritto nel canto VIII del Furioso. Al Boccaccio realista e umorista che si trova all’inizio di un mondo più vivo di quello medievale si possono ricondurre alcune osservazioni dell’Ariosto sulla fedeltà delle donne (XXVIII, 50, 72):
Se ben ch’in tutto il gran femineo stuolo
una non è che stia contenta a un solo […]
se più che crini avesse occhi il marito
non potrìa far che non fosse tradito […]
Piro era su questa linea culturale antimedievale, rinascimentale che ormai vede la natura e la scienza perché i tempi, pur nelle contraddizioni, sono più avanzati. L’antico non ha più funzione sociale e umana, esso serve per il distacco che se ne sente per sottolineare le nuove esperienze di concretezza e di realismo. L’ironia, il sarcasmo di Piro hanno una funzione etico-estetica giudicante, sono forme di visione che mette in relazione con la realtà e con la storia. La mitologia che rappresenta l’antico è prosaicizzata, le necessità umane sono scoperte e satireggiate nei protagonisti, l’eroicomico ha perforato la corazza dell’epicità e della serietà. Il latino è usato ma per metterne in rilievo il carattere di formulario, di non necessitante, di esornativo che esso ormai ha, latinorum accademico, scolastico. Citare gli antichi, l’esperienza passata è proporre il non vivente. Piro presenta il farsesco, il comico, il desublimato per contestare la solennità del barocco, del latino, della retorica, dell’umanesimo formale.
Sull’Italia era calata una lingua inespressiva, artificiosa e che presumeva di inventare cose nuove, una lingua che consonava con i ghirigori interiori della vanità della classe dominante spagnoleggiante dalla quale discendeva sui ceti burocratici, politici, sui letterati interpreti dell’opinione conforme. La frammentazione politica e il distacco della cultura subalterna e dei ceti inferiori dalla vita ufficiale suscita l’uso delle espressioni dialettali che sono più consone ai modi di vita del popolo, dei volghi che marciscono nella loro vita e non si esaltano nelle vanità. Tutto il gruppo dei poeti di Aprigliano sceglie, come Piro, il dialetto della vita quotidiana (si dice che lui, Piro, andasse al mercato per ascoltare le locuzioni peculiari e più espressive). Il dialetto rigetta la funzione aristocratica dell’arte, è vicino alla natura, non partecipa dell’artificio letterario (se non volutamente o per fini artistici). Quello di Piro è espressionista per l’eccesso di rappresentazione mimetica, realistica, che va nel profondo dei personaggi o della situazione, non per bozzettismo (che non manca), per la discesa nel mondo popolare per mezzo di proverbi, incisi, diminutivi, vezzeggiativi consoni alla situazione che tende sempre a ricreare la vita come si svolge nella sua concretezza. Il suo dialetto rude e potente afferma con le iperboli l’appropriazione di strumenti realistici (il sesso, la natura) da opporre come scoperta di verità (la corruzione è nei commerci in uso nelle città, in taluni ceti sociali, nell’adulterazione mercenaria) al mondo della finta cortesia (quello dei signorotti e dei bravi: mondo di violenza e di sopraffazione). Il dialetto di Piro è feroce, non ha grazia, vuole produrre provocazione e scandalo nei lettori delle classi superiori; i componimenti di Piro, letti all’interno del mondo popolare in cui l’interdizione è ridotta, non suscitano scandalo. Cutale e pittinale che sono i termini sessuali di Piro vengono adoperati dal poeta nell’atmosfera beffarda che si assegna alle parole consapute e normali; le metafore sono quelle della consuetudine popolare la quale conosce la fenomenologia della natura sicché la vulva è assimilata alla fossa che contiene la calce viva («Quannu luoru l’avvampa la carcara, | duve la foja svulle, sbàuza e mina […]»). Come nell’Ariosto la donna può ingannare quando vuole il marito:
Gapa la maritata lu maritu […]
La cattiva se more de petitu:
chiù si lu caccia, chiù lo vò cacciatu! […]
La quatrascòla, mò, la schettulilla
nun sta senza pruvari minchiarella […]
La piccirilla, pue, ch’è de la minna,
chi ancora nun sa dire tata o nanna,
vurrìa nu cazzu a paru de ’na ’ntinna
e si l’assarpa pe ’nsinca la canna!
Piro è il capostipite della poesia fallico-naturalistica tramandata dalle «farchinomie» che si svolgevano nei boschi, di quella linea dell’eros come liberazione che avrà nell’Ottocento il suo vero poeta in Ammirà di «Futtiti tutti finca chi ncè lena, | […] lu futtari pardeu no n’è peccatu». Piro dà l’avvìo: «Tutte se futtu e se futtu cu’ tutti | […] Tutti futtìanu chilli chi su muorti! | […] Dunca, futtiti vue mo quatrarazzi, | scialativilla cu’ ’sti cunnarizzi». I due componimenti più noti di Piro hanno inizio con il ricordo dell’età dell’oro, con i motivi tibulliani dell’appagamento della campagna e dei piaceri naturali:
Tutti li sfirzi-sfarzi de ’stu munnu
li tiegnu ’n garavuòttulu de culu
ch’a ’sta povera vita vorria sulu
’n’ugna de cunnu.
Diversamente dal mite e temperato poeta latino Piro manifesta iperbolicamente la propria ghiottoneria sessuale: non gli basterebbe la riserva del sultano, vorrebbe tutte le donne (vedove, maritate, nulli, giovani, vecchie, belle, brutte, nere, bianche, rosse, pettorute, senza petto, insipide, smorfiose, luterane, maomettane, ebree calviniste, in tutte le stagioni, in tutti i luoghi, in tutti i modi, ecc.) e se non fosse che lu pettinale lega e unisce gli uomini la vita sarebbe un inferno:
Si nun fussi ped’illa chi ne ’nnorca
l’uomu sarìa diavulu ’ncarnatu,
sarìa ’na tigra, ’n’ursu scatinatu
pieju de’ ’n’orca.
Il motivo sessuale è, di quella poesia dialettale del gruppo di Aprigliano, un elemento che si presta mirabilmente alla contrapposizione nei confronti della letteratura barocca ridondante e costruita. Ma nella Briga de li studienti Piro (se il componimento è suo; stilisticamente sembra esserlo) si rivela artista di un momento realistico in cui il linguaggio è stato reso maturo da una sperimentazione linguistica vigorosa e ricca, in cui le cose hanno nomi precisi, individui, pertinenti, pregnanti, in cui tutto è serrato dalla povertà e dall’essenzialità. Il tono eroicomico è quello della satira della sublimità, della scoperta di toni materiali costantemente perché la vita si esprime con i registri materiali e l’individuo è il suo corpo in molteplici epifanie fra le quali sono privilegiate quelle terragne, non sublimi: se volgari e brutali sono in modo sottinteso adeguate al modo di vivere che è brutale per costruzione, oggettivamente, ma senza che gli individui si lamentino o dimostrino la sofferenza. Gli oggetti della vita rurale sono a portata di mano come denotazione di lavoro e di necessità e rendono l’idea dell’artigianato manuale del legno, della pietra, dei metalli. Le ingiurie derivano dalla concentrazione psicologica che deve trovare sfogo, dalla consapevolezza quotidiana dei brevi spazi in cui si vive, dalla ripetizione degli stessi atti, dalla impossibilità di modificare alcunché. Perciò i personaggi hanno qualcosa di bertoldesco, di intelligenza villanesca consaputa del proprio stato e zampillante in arguzie surreali, in metafore potenti ma anche in burchiellismi magici: «e cu nu dente de’ na gatta morta | pretennìa fare aperire a porta», «scannàu na musca e ne jettau nu quartu», «a buffettune e a punte de carcagnu».
Il componimento ha come oggetto gli affamati studenti del seminario di Cosenza i quali saccheggiano la casa del ricco compagno Piscitiellu per rubargli le provviste. Il derubato denunzia il saccheggio al vicario che fa catturare i colpevoli e li processa ma infine li assolve come pazzi. In tutto il componimento le azioni sono rapide e rapidissime le parole sicché l’opera ha un andamento scenico di commedia dell’arte, con battute che insistono sul corporale (soprattutto mangiare, darsi botte, tramare per danneggiare il corpo di qualcuno) con iperboli, giochi di parole, assonanze, onomatopee dei maiali che succhiano la brodaglia, del mangiare rumoroso in una sequenza di scene che fanno della Briga l’unico documento di un antirinascimento calabrese. Piro immagina (al di fuori delle successive rappresentazioni carnevalesche) con il saccheggio degli studenti poveri e affamati l’unico paese di Cuccagna della letteratura calabrese nel quadro di una lotta contro le istituzioni che si servono delle leggi per asservire anche il pensiero. Egli non può fare a meno delle carceri del vicario ma fa vedere la fame dei seminari, la vita dei seminari e, infine, l’assoluzione dei saccheggiatori in quanto pazzi; indirettamente c’è anche l’elogio della pazzia. Alla letteratura curiale-araldica degli intellettuali cortigiani Piro contrappone il sogno di formaggi e salami del paese di Cuccagna (sogno che diventa espropriazione vera e propria) descritto dal Doni: «Deh non sterno più a stentar! | Vegnì in Cuccagna se volé triunfar».
In quest’operetta di Piro c’è dell’antirinascimento che esprime in Europa l’elogio della pazzia, la rivolta degli affamati, il corpo sopra l’anima la rottura della disciplina nei confronti dell’ordine ecclesiastico, di quello familiare, delle regole di convivenza, il riconoscimento del potere degli studenti; c’è anche la rappresentazione di risse continue, di botte che si danno e si prendono, di un inferno in cui ci si salva solo con la parola bruciante e offensiva. Il paradiso per Piro è il sesso, unico paradiso come requie dopo le risse e la fame perpetua della vita. Gli studenti si scatenano quando sentono il loro compagno ricco vantare il possesso di soppressate, salami ripieni di interiora, lingue salate, caciocavalli, formaggi piccanti e butirrosi, ricotte rapprese e costate di maiale. Le «trippe dijune» sono di fronte a «lu viverune», al compagno che ha «tarùolo e scarfatura» (taralli e legna per scaldarsi) e assaltano la casa rompendo porte, finestre, mura: è l’unica rappresentazione di massa di tipo bruegeliano che troviamo nella letteratura calabrese. C’è chi per approntare pezzi di legno taglia con l’accetta («gacciàva») intere travi, chi «cu’ la vesta auzàta a li cugliuni» dà ordini, chi «cu’ nu dente de’ na gatta morta | pretenda fare aperìre a porta», c’è chi è bastonato («e fu tantu a la ’mbrigna mazziatu | che ancora nu cugliune porta unghiatu»; una vecchia è così spaventata da ciò che succede che «le facia cqua-cqua-racquà lu cularinu | cuomu quannu àuza vullu ’na pignata». Le persone curiose sono ammassate come i cavalli quando sono alla bagnatura o i grilli si radunano intorno all’alloro, altri si riversano dentro la casa, «nu pullulizzu» di gente che «tiàni arruzzulavanu e scutelle» o si davano a «jaccare segge, scasciare vanchietti» mentre dovunque si vedevano «scasciati stipi e casce aperte, | vampuliati livri». I divoratori si gettano sulle cibarie «cu’ li gangagli faciennu gran botte, | faciennu tale strùscio cu’ la gòrgia | chi te cridie Vurcanu intr’a la forgia».
Le rime strane (ascia, iscia, acchiu, icchiu) declinanti verso il cupo (arrupa, scupa) sono il contrappunto doloroso del monologo del derubato che conclude amaramente: «Mò tintu è chillu ch’a lu munnu vene: | guai si sì tristu e pieju si sì dabbene!».
Il saccheggiato invia un memoriale alle autorità ecclesiastiche e descrive l’invasione dei mangiatori: «facia nu strùsciu chiù de na jumara | lu gran rumure de le gangulate!».
Nel memoriale dominano le iperboli indicative dell’oltranza deleteria e mangiatoria degli invasori, i modi di dire del rapinare, dello sgraffignare, modi gergali che sono connaturati alla situazione descritta, i nomi dei componenti la sbirraglia (Stringulo, Calibiu, Vavusu, Guerciu) che affilano i coltelli ungendoli di olio. È una sequela onomastico-connotativa della sgangherata sbirraglia di poveri bravi ecclesiastici che godono il loro momento epico: «e lu Cecatu la scuppetta ’ngrilla | e disse: “Si te muovi ’na tanticchia | te fazzu fari mò pedi stennìcchia!”».
La confessione del trascinatore Colasantu è un capolavoro di riduzione di responsabilità: «Io lu penatu […]» (io «uomo di pena», pieno di preoccupazioni), «io parìa nu catàfuru spruppatu». Il vicario interpreta l’accaduto secondo le leggi formali e libera Colasantu perche l’azione procede «ex metu». I dialoghi finali sono densi di invettive («scarcagnu ’ssi dienti», «te strippignu ’ssa lingua carnuta», «facce de cunnu», «te chiavu ’stu livru a lu schinu», «de cuzzolate ti ne abbunnu», «daghiàtu (affettato con una daga) chi te via», «’ssa lingua te càja!», «te piglia a la nuda cu’ na raja» (raggio di ruota di carretto), «te scafazzo e te jettu a nu puzzu», «t’ammaccava la capu cuomu vrunzu», «a li Turchi pue te via vinnutu!», «faccie de infranzisatu, chiattillusu», «chi te via fattu minutu minutu | cuomu quannu s’addàccia lu salatu») e di minacce, potenti espressioni che rimangono per secoli nell’espressionismo delle invettive calabresi e che trovano uso anche nelle parole conclusive del vicario: «timpe de ciotammi animalazzi! […] | Jativinni a Diavulu, cajazzi! | Male de trupesia dare ve puozzi!».
Siamo agli antipodi dei poemi sacri sulle Maddalene pentite, delle «tragedie spirituali» (così Giovanni Francesco Tranquillo di Pizzo definiva la propria Cecilia edita nel 1606), delle Gerusalemmi distrutte, perdute, desolate degli epigoni del Tasso che non nascono da necessità poetica ma da illusione che la risonanza e il clangore della finta epopea, che l’apologetica roboante, il penitenzialismo possano essere poesia e non propaganda religiosa. Anche il ricordato Carlo Magno ovvero la Chiesa vendicata del Garopoli vive più per l’ideale politico del suo autore, l’indipendenza dell’Italia dalla Spagna con l’aiuto di una Francia cristianissima continuatrice della politica di Carlo Magno nella lotta contro i barbari i quali erano adesso i continui incursori musulmani, che per virtù poetica propria. Garopoli sosteneva l’idea che era stata di Campanella di una monarchia teocratica guidata dal papa; l’antispagnolismo di Campanella era anche nel Mazzarino che costituiva la speranza del Garopoli, veramente animato da una passione politica per il re di Francia che vedeva come liberatore e restauratore di un sacro romano impero: «a la cui destra fora lieve il pondo | de l’universa Monarchia del Mondo».
Questi poemi (ma il Garopoli fu autore anche di una tragicommedia, L’Ondimare, overo la costanza espugnata, edita a Bologna nel 1670) defuntamente cavallereschi, mortuariamente epici su guerre di Cipro, battaglie di Lepanto, conquiste di Granata, su Costantino, su Carlo Magno ecc. sono risonante retorica dei vanti della restaurazione cattolica o aristocratica. Il Piro è contro gli sbandieratori e i suonatori di clarine i quali si avvolgono in stendardi e orifiamme e non vedono la miseria dell’Italia, la misera vita dei suoi abitatori.
La tradizione letteraria del verseggiare in latino è continuata secondo una costante interna, dovuta a cause storiche, religiose, psicologiche, che non ha l’eguale (con le dovute differenze) se non nella Romagna. Lingua della cultura, il latino è usato in Calabria fino al Settecento in opere di diritto, di medicina, di teologia, di filosofia, di geometria, ecc. come avremo modo di vedere più avanti. Nel Seicento incontriamo qualche verseggiatore quale Pietro De Ardito di Nicastro (1611 m. nel 1640 circa) del quale ci ha fornito notizie un suo omonimo e discendente in un opuscolo pubblicato nel 1875; Francesco Acerbi di Tropea (1606 m. a Napoli nel 1690), autore di esametri, elegie, epitaffi, epigrammi, canti religiosi (l’Acerbi era entrato nel 1624 nella Compagnia di Gesù), dotato di vera spiritualità, lenì con la poesia i mali del corpo («rejecto supercilio, contractae fronds maerorem, Musarum hilaritate solvebam» scrive nella prefazione a Aegro corpori a Musa solatium (1666). Ci rimangono di lui anche un Polypodium Apollineum (1674) e Deiparae Virgini Rosarum Areolae (1680). Dobbiamo ricordare anche Girolamo Piperi di Taverna il quale fu medico, coltivò la poesia e cantò la sua patria con l’antico nome di Trischina.
Tra i numerosissimi verseggiatori in latino ricordiamo Ignazio Sambiase di Cosenza (1616-1693), Antonio Guzzo di Luzzi che nell’Agrophilus (1669) descrisse le lodi della vita di campagna ma nei cui versi non manca, quando parla dell’orologio, il rammarico doloroso per la vita che «levis umbra fugit». Giovanni Ottavio Cannizzoni di Reggio, agostiniano, è il religioso, da noi ricordato in principio, il quale durante la carestia del 1691 descrisse la miseria dei cittadini.
Nel Seicento la storia della cultura si arricchisce e comincia a bipartirsi in conseguenza delle scoperte e del metodo galileiano, l’antica visione del mondo comincia a essere rifiutata dalla cultura scientifica che si specializza, si suddivide in rami speciali.
Le strutture economiche e sociali arretrate, irte di contraddizioni, si riflettono (pur se con molte mediazioni) nella cultura calabrese dell’età successiva all’umanesimo e al rinascimento. La cultura letteraria è ben misera e risente del feudalesimo del baronaggio ma il divenire storico comporta, nella storicità di base, un mutamento sovrastrutturale in relazione alle lotte antifeudali e antitiranniche che, pur nei limiti ribellistici, modificano orientamenti sia pubblici che privati, di gusto, di psicologia. Uno spirito pubblico meno timoroso comporta una cultura più mobile e variegata. Se si considera che gli intellettuali della diaspora ebbero esperienza delle novità più penetranti e radianti (attese e rispondenti alle utopie e ai bisogni collettivi di coloro che erano costretti a vivere nella regione) e che dai ritorni in Calabria trassero generoso alimento alle loro attività, occorre dire che tali intellettuali – soprattutto filosofi e scienziati –, rappresentano uno dei momenti più alti della cultura calabrese collegata con quella italiana ma anche con quella europea.
I rapporti con la cultura avanzata confermano tali intellettuali nella necessità di opporsi al potere di troni e altari, di perforare l’ipocrisia che è sempre insita nel dominio. Inoltre essi derivarono dalle meditazioni sullo stato del Regno e della regione la forza intellettuale e la forza morale necessarie per contrastare il conformismo e l’acquiescenza. Li sostennero la naturalezza antropologica della cultura contadina (un corno dell’anfibologia culturale era l’arretratezza superstiziosa), il confronto con gli ambienti scientifici avanzati, le stesse accuse di eresia di cui furono oggetto. Ma loro destino fu essere perseguitati periegeti, esuli di luogo in luogo, in sospetto di birri e clero, con brevi soste presso università, istituti, biblioteche, accademie, signori, amici generosi e sinceri in nome della scienza e della verità. Queste vite non fortunate ma frantumate non potevano non cadere nella dimenticanza dei contemporanei, delle maggioranze conformiste, dei posteri. Oggi essi rientrano nello svolgimento della cultura naturalistica soprattutto per il recupero che ne ha fatto Luigi De Franco: recupero non romantico, non estetizzante, non ideologico ma storico in virtù di rapporti e influenze documentati e fondati.
Risulta da questa ricucitura storica che non solo il Campanella fu «contraddicente» alla vecchia cultura ma che tutti i filosofi calabresi cercarono di svincolarsi dalla pseudo-scienza, che dovettero lottare contro le sopravvivenze metafisiche formalistiche che si rintanavano nelle scuole e che derivavano da un’antichità senza valore. Eppure tali ricercatori sfidarono l’autorità, si crearono spazio, furono bersaglio della cultura ufficiale legata alla truffa economica e alle posizioni di potere, si rivolsero agli scienziati veri i quali affrontavano, modernamente, i problemi filosofici e si collegavano, in tal modo, al pensiero europeo. Questo ardimento comincia ad avere un primo, ma ancor tenue, riconoscimento.
Marco Aurelio Severino nacque a Tarsia nel 1580; dopo i corsi di studio compiuti in Calabria, nel 1598 è a Napoli dove segue lezioni di filosofia e fisica aristoteliche, quindi si rivolge a Tommaso Campanella che gli insegna l’indirizzo telesiano e a Nicola Antonio Stelliola matematico e filosofo pitagorico. Segue anche studi di filosofia chimica, di medicina e nel 1606 consegue a Salerno il titolo di dottore in filosofia e medicina. A Napoli fa pratica di chirurgia presso il famoso calabrese Giulio Iasolino, nella stessa città insegnerà chirurgia dal 1622. Divenuto, per il suo valore, oggetto di invidia da parte degli altri medici (che lo accusano di crudeltà) è imprigionato due volte, fugge, la sua casa è spogliata anche dei libri. Dopo avere subito due processi per eresia viene richiamato all’ospedale degli Incurabili. Morirà nel 1656, l’anno della peste.
La sua filosofia è quella scientifica: fisiologia, anatomia, medicina chirurgica, zootomia sono le principali discipline della sua attività non ricca di teoria, avente come linea direttiva l’idea che la natura è la mano di Dio e che l’uomo è il fine dell’universo. Rinascimentali e derivanti da Campanella (che egli chiama «nuovo Timeo») sono le sue idee. Le lacerazioni in esse non prevalgono sugli accostamenti di elementi o sulle opposizioni concettuali: il cielo è fonte di vita, la terra di morte, la vita è il caldo che prevale nell’umido, lo spirito, forza vitale anche dell’uomo, è formato dal sangue: concezione che giunge fino alla fine del Settecento. Severino fa sua la teoria di Harvey della circolazione del sangue: per lui il sangue sostiene il principio naturale dal quale deriva quello vitale che mantiene lo spirito: questo dà moto e vita alla catena degli esseri in cui il superiore contiene l’inferiore. Nella natura è un finalismo provvidenziale che corregge col creazionismo il determinismo democriteo verso il quale Severino mostrava simpatia.
Moderno sia come filosofo che come chirurgo (usava ferro, fuoco per cauterizzare) e anatomista che sente la necessità di avere la natura come guida, lo studioso deve ricercare le parti piccolissime (atomi) senza distruggerle. A Severino si deve il primo trattato di anatomia comparata, Zootomia democritea. Al progresso della tecnica chirurgica contribuì nel campo della broncotomia e della tracheotomia; per primo legò l’arteria femorale sotto l’arcata di Poupart, studiò gli ascessi, l’osteomielite, il gibbo, gli aneurismi, le cisti, l’idrocefalo, la deformità, le vene varicose, le lussazioni, l’angina difterica, modificò anche lo strumentario chirurgico per renderlo idoneo ai nuovi modi di intervento.
Tommaso Cornelio nacque a Rovito nel 1614 e concluse grandiosamente il naturalismo filosofico in modo moderno, svincolandosi dai magismi e dalla metafisica perché si àncora a Galileo e a Cartesio. Egli è documento del mutamento dei tempi che hanno in sé elementi di maggiore scientificità, di più vasta applicazione delle scienze e facilitano la circolazione delle idee. La stessa mentalità barocca contribuisce indirettamente e per qualche sua tendenza relativista e antistoricista a rompere le cristallizzazioni aristotelico-tomistiche. Nella crisi il potere cattolico cerca compattezza in un altro assolutismo ma nel mutamento l’occhio della scienza moderna si apre sempre più, il rapporto tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande rende desuete e ridicole le discussioni formalistico-teologiche, lo stesso concetto di meraviglia rende plausibile e giustificata la ricerca dei metodi nuovi. Il pensiero di Cartesio in ascesa affretta il rinnovamento quando Tommaso Cornelio si stabilisce a Napoli (1650) e innesta la tradizione naturalistica telesiana (rivisitata da Campanella e Severino) con la speculazione europea dei galileiani e dei cartesiani. Cornelio è a conoscenza del pensiero moderno (Gilbert, Harvey, Cartesio, Galilei), dichiara di amare la «ingenii libertas» di Telesio, di rifuggire dalla filosofia fantastica, e nel De mundi structura unisce fisica e matematica per spiegare i fenomeni celesti non «per ambages sed per propria naturae principia». Già era sfuggito a persecuzioni religiose e si era rifugiato a Roma (1644) dove aveva studiato geometria e matematica, a Firenze aveva conosciuto e frequentato il Torricelli che lo aveva avviato a studi di astronomia, a Bologna (1647), dove era stato prediletto di Bonaventura Cavalieri. Attraverso la trafila di viaggi aveva conosciuto quei sommi ingegni, i risultati dei loro rapporti con la moderna ricerca scientifica europea; studioso di medicina, matematica e fisica, spediva a Severino un breve scritto (De cognitione aeris et aquae) da piacere più ai filosofi che «specolano nel libro della natura che in quelli de’ frati».
Nella polemica culturale, a Napoli, del secondo Seicento, Cornelio fu tra gli innovatori, insegnò matematica dal 1653 alla morte (1684) ed ebbe l’incarico di medicina. All’Accademia degli Oziosi (dove aveva esordito con una elegia in latino per la morte di G.B. Manso) nel 1652 legge il Discorso dell’eclissi. Nella sua casa a Napoli si riunivano gli esponenti della nuova cultura (Francesco e Gennaro D’Andrea, Leonardo Di Capua, G.B. Capucci medico calabrese, Nicola Sfigliola, M.A. Severino, Lucantonio Porzio discepolo prediletto e altri) per presentare e discutere i propri contributi. Così nacquero anche i Proginasmi fisici che appariranno solo nel 1663 (a Venezia perché a Napoli le sue tesi erano pericolosamente contrastate: ristampati a Francoforte, ancora a Venezia, a Lipsia, appariranno a Napoli solo dopo la morte di Cornelio). Nello stesso anno egli fondava a Napoli l’Accademia degli Investiganti che si reggeva sull’indagine filosofica. I seguaci delle scadute ciance gli si rivolsero contro accusandolo di eresia: l’Inquisizione si mosse nel 1671 perché si indagasse intorno al suo democratismo e al suo cartesianesimo. Per queste traversie fu tentato, su invito del Malpighi nel 1674, d’insegnare medicina a Padova. Negli ultimi anni di Cornelio la cultura scientifica a Napoli venne decadendo.
Dopo la morte la fama del grande scienziato e cattedratico (venerato dalla Royal Society di Londra, stimato da Leibniz e da molti studiosi europei) venne scomparendo per il prevalere dell’anticartesianesimo, della cultura giuridico-politica. Il suo pensiero collega scienza e filosofia e la sua indagine, ostinatamente contraria ai formalismi peripatetici, è una tappa fondamentale di quella speculazione calabrese naturalistica che si incontra con quella più avanzata moderna italiana ed europea. Con i concetti di natura e scienza egli oltrepassa i teologismi e fin dal De mundi structura (ancora manoscritto) propone il dubbio e la ricerca, contrasta l’autorità degli antichi, dà valore agli strumenti scientifici, insiste tra l’analogia che c’è tra l’uomo e l’universo, rivaluta la filosofia presocratica, si rallegra che con Cartesio il ghiaccio è stato rotto di modo che le questioni scientifiche possono essere dibattute prescindendo dall’astratto e tenendo come base la fisica. Il fisico-filosofo con l’aiuto della scienza medica può bene studiare i moti che avvengono nel corpo umano, nel De cognitione aeris et aquae sostiene che aria e acqua (contro la teoria degli elementi) sono una stessa sostanza, hanno la stessa origine ma si trovano in diverso stato. Nel Discorso dell’eclisse il fenomeno studiato entra nel meraviglioso spettacolo del «gran Teatro dell’Universo» del quale parlano ormai poeti e letterati, coglie il rapporto tra vera scienza e la metafora moderna dell’amplificazione della scienza.
Le esercitazioni Progymnasmata physica (che si concludono con una lettera ai medici inglesi T. Wills e F. Glisson in cui rivendica la priorità delle proprie scoperte tardivamente pubblicate) sostengono la scienza nuova: in un dialogo lo Stelliola e il Bruno sono favorevoli al nuovo metodo che fa derivare dall’accertamento naturalistico assoluti assiomi che certificano razionalmente l’esperienza dei sensi. La libertà filosofica richiesta da Telesio ha liberato dalla tirannide delle scuole asservite, ha consentito il progresso della fisiologia (la fisica: che si richiama a Democrito). Il caldo è conseguenza del moto dell’etere dal quale derivano anche il senso e l’intelligenza dell’anima. Per quanto riguarda la generazione Cornelio sostiene che in una sostanza molto tenue del seme è l’anima ma nella conclusione Cornelio afferma che la vita consiste nello scorrere del sangue. Nella lettera che segue ai progimnasmi (scritta da Severino giunto ai campi elisi) Cornelio esalta il metodo di Galilei, condanna la futilità dell’astrologia, l’ignoranza della medicina e nell’incompiuto e postumo progimnasma I sensi dimostra che le antiche opposizioni (caldo, freddo; umido, secco) non hanno fondamento: ormai si aprivano nuove gnoseologie e Cornelio era fra gli antesignani di una scienza nuova.
Era stato Cornelio, al ritorno dai suoi viaggi, a introdurre nel Regno la lettura delle opere di Gassendi, Bacone, Hobbes, Cartesio; la cultura di Telesio e Campanella aveva già preparato l’ambiente napoletano al metodo sperimentale e a ritenere non valido ciò che non poteva essere dimostrato. Fra i suoi ascoltatori all’università di Napoli ci fu anche Pirro Schettino.
Nella tradizione scientifica napoletana avvalorata dall’esperienza rientrano gli studi di Aurelio Severino sulla respirazione dei pesci, sul veleno delle vipere, la pratica della tracheotomia durante l’epidemia difterica del 1610. Cornelio fisiologo approfondì le ricerche intorno al circolo sanguigno; inoltre egli attribuì una prima idea del sistema eliocentrico al calabrese Girolamo Tagliavia i cui appunti sarebbero stati letti da Copernico durante il suo soggiorno a Roma (1500). L’avvicinamento politico della Spagna all’Inghilterra favorì a Napoli un più moderno pensiero politico-sociale che fece distinguere culturalmente l’aristocrazia cittadina da quella baronale violenta e sopraffattrice.
In Calabria l’umanesimo rimane la cultura prevalente ma non mancano sostenitori e divulgatori del metodo sperimentale come il ricordato G.B. Capucci, medico insigne, e il carmelitano Paolo Antonio Foscarini. Questi nacque a Montalto Uffugo probabilmente nel 1580 e forse il suo cognome fu Scarini che egli mutò in Foscarini per nobilitarlo. Entrato nell’ordine dei Carmelitani,fu per sei anni reggente degli studi nel convento del Carmine Maggiore di Napoli. A Messina insegnò teologia nell’università; ritornato in Calabria diventò Provinciale dei Carmelitani nella regione. A Montalto aprì un convento del quale divenne priore; qui morì nel 1616.
La Lettera sopra l’opinione de’ Pitagorici e del Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole (1615) fu bene accolta dai galileiani e con ostilità dalla curia romana. Nella Defensio che accompagna la copia inviata al cardinale Bellarmino l’autore sostiene che la Chiesa non può sentenziare dogmaticamente in materia di scienza. L’opera venne condannata dalla Chiesa perché ne contraddiceva la dottrina figurando come vera una ipotesi (quella eliocentrica). Foscarini rivendicava alla tradizione pitagorica i princìpi del nuovo sistema e tra i due sistemi egli dice di porsi neutrale. In realtà Foscarini assegna, nelle dimostrazioni, superiorità al sistema copernicano fondandosi anche sull’esperienza scientifica del cannocchiale: la verità poco importa che contraddica la vecchia filosofia e astrologia; per raggiungerla si faccia una nuova scienza. Affermazione coraggiosa che colloca Foscarini sulla linea dei moderni filosofi perché la Bibbia, secondo lui, deve essere letta superando il significato letterale in quanto il messaggio dell’opera non è scientifico bensì morale. Galilei non conobbe di persona il Foscarini ma fu d’accordo con lui nel ritenere che il problema non era contraddire la Bibbia perché Dio ha insegnato all’uomo «come si vadia in cielo, non come vadia il cielo».
La storia della scienza nel Seicento non è affidata soltanto al dibattito sui grandi princìpi e gli avanzamenti concettuali duramente strappati dalla ragione all’autorità ma la cultura scientifica si sviluppa anche attraverso lo sviluppo della micro-tecnica, le scoperte e le invenzioni praticamente utili che contrassegnano il secolo. Già nel Cinquecento erano stati famosi Vincenzo Vianeo di Maida e Pietro Vianeo di Tropea, celebri nella chirurgia plastica anche in Germania e Francia. Vincenzo per primo riuscì a ricostruire le labbra e i nasi mutili e i continuatori aprirono una scuola a Tropea che è stata attiva anche nel Seicento. Nel 1561 Pietro Vianeo (il cognome sarà deformato in Voiano e Boiano) esercitava la sua arte a Tropea (si ha documentazione di operazioni di rifacimento del naso con prelievo di pelle e muscoli dal braccio; si ha ricordo anche di operazioni di chirurgia auricolare). Almeno due poeti in due sonetti ricordano il valore dei due operatori calabresi di chirurgia plastica e anche Tommaso Campanella in Del senso delle cose e della magia ricorda la loro arte mirabile uscita da Tropea. Anche un famoso medico e ciarlatano bolognese, Leonardo Fioravanti, che ha soggiornato in Sicilia e compiuto viaggi e soste in Calabria ci parla in Il tesoro della vita humana (1570) di una operazione compiuta dai due fratelli:
A Messina tenni amicizia con maestro Mattio Guaraccio, un vecchio che medicava ferite miracolosamente. E così mi mostrò il modo di fare tre rimedii, acqua, polvere, e olio. E io raffinai nel farli con più arte. Per medicare feriti decisi di andare a Napoli, ma prima passai in Calabria, a Turpia (Tropea), dove due fratelli, Pietro e Paolo, bravi chirurghi, facevano il naso a coloro che l’avevano per qualche accidente perduto.
Del modo che tenevano quei due fratelli nel fare i nasi. Cap. 27.
Ritrovandomi dunque io in Turpia (leggi Tropea) benissimo a cavallo, e con un servitore, andai alla casa di questi dui medici, dicendoli che io era gentiluomo bolognese, e che era andato là a parlar con loro, perché io havea un parente che alla rotta di Serravalle in Lombardia gli era stato tagliato il naso, combattendo con i nemici, e che desiderava sapere se dovea venir si o no. E perché a Bologna vi era un figliuolo di un Senatore, che si chiamava Messer Cornelio Albergati, che in tal luoco gli era stato tagliato il naso da un Stradiotto, e costoro già ne haveano havuto nuova per lettere, e così io dissi volerlo aspettare, e ogni giorno andava alla casa di costoro che ne haveano cinque da farli i nasi. E quando volean fare quelle operationi mi chiamavano a vedere, e io fingendo di non poter vedere tal cosa, mi voltava con la faccia a dietro, ma gli occhi vedeano benissimi. E così viddi tutto il secreto, dacapo a piedi, e lo imparai. Et l’ordine è questo, cioè, la prima cosa che costoro facevano ad uno quando li volevano fare tale operatione lo facevano purgare, e poi nel braccio sinistro tra la spalla et il gombito, nel mezzo pigliavano quella pelle con una tanaglia, e con una lacetta grande passavano tra la tanaglia et la carne del muscolo, et vi passavano una lenzetta o stricca di tela, e le medicarono fin tanto che quella pelle diventava grossissima. E come pareva a loro che fosse grossa a bastanza, tagliavano il naso tutto pare, e tagliavano quella pelle ad una banda e la cusivano al naso e lo ligavano con tanto artificio e destrezza che non si poteva muovere in modo alcuno fin tanto, che la detta pelle non era saldata insieme col naso. E saldata che era la tagliavano a l’altra banda, e scorticavano il labro della bocca, e vi cusivano la detta pelle del braccio, e la medicavano fintanto che fosse saldata insieme col labro. E poi vi mettevano una forma fatta di metallo, nella quale il naso cresceva a proportione e restava formato ma alquanto più bianco della faccia, e questo è l’ordine che questi tali tenevano nel fare i nasi. E io lo imparai tanto bene quanto loro stessi. E così volendo lo saprei fare, et è una bellissima pratica, e grande esperienza.
Tommaso Campanella scrisse anche dell’ernia (che lo affliggeva e per la quale sperimentò su se stesso diversi mezzi empirici finché applicò il cinto contenitivo), applicò la cura del ferro come presidio ricostituente (consigliò di ingerire la ruggine in soluzione acquosa).
Ancora Campanella nell’opera sopra citata afferma che in Calabria uno sperimentatore ha compiuto una prova di volo per mezzo miglio.
Tra i primissimi soci dell’Accademia del Cimento troviamo due scienziati di Reggio Giovanni Alfonso Borelli e Antonio Oliva. Borelli fu fondatore della iatromeccanica (scienza che studia i fenomeni della vita biologica come causati dal moto delle varie parti), ha lasciato la descrizione di un battello sottomarino, di uno scafandro per palombari; ha pubblicato in Calabria Della causa delle febbri maligne (Cosenza, 1649), De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus (Reggio Julio, 1670), Historia et meteorologia incendi Aetnei anni 1669 (Reggio Julio, 1670); per diverse intuizioni nel campo della medicina, della fisica, della meccanica celeste fu precursore di Galilei e di Newton. Nell’ultima opera ricordata, un trattato di vulcanologia originato da una visita sull’Etna e stimolato dal cardinale Leopoldo dei Medici, Borelli determina la necessaria esistenza di sifoni attraverso i quali è uscito il liquido vetroso mentre dal cratere uscivano solo vapori e fumo acquoso. Fu suo allievo Alessandro Marchetti, il traduttore di Lucrezio.
A Castrovillari nacque nel 1635 Carlo Musitano, medico, chirurgo e lettore di medicina nell’università di Napoli. Si occupò di venerologia e scrisse De lue venerea (1689), De morbo gallico (1689) in quattro libri, tradotto in italiano, come il precedente, dal nipote Giuseppe e De morbis mulierum (1683). Il Musitano era prete; la sua mente era portata, così P. Arcieri, «più che per le speculazioni filosofiche, per l’osservazione obiettiva, che in quel secolo trovava fiamma nutrita e feconda nel metodo sperimentale, avente nella dottrina di Galilei la più esauriente sanzione» che apriva la strada alla scuola iatromeccanica. Anche Musitano visse tra i nuovi ricercatori antiaristotelici, taluni dei quali, però, rifiutavano il culto esclusivo della scienza cartesiana anche in nome di un vitalismo derivante da Della Porta, Bruno, Campanella, Imperato ecc. Il Musitano scrisse inoltre opere di chirurgia che ebbero risonanza in Germania, di pediatria, un trattato sulle febbri collegando metodologicamente i problemi della medicina con quelli della scienza. Nel campo della lue distinse l’ulcera dura dalla molle, scoprì il sifiloma delle tonsille e fu convinto che la sifilide debba essere considerata malattia costituzionale.
Di piante esotiche scrisse Gerolamo Piperi di Taverna in Tractatus de potione herbae the, cocolatae et caphe; Giulio Cesare Barricelli di S. Marco Argentano pubblicò a Colonia Hortulus genialis;Ettore Capalbo di Corigliano si occupò della respirazione e della circolazione nei pesci. La curiosità scientifica dei singoli ricercatori i quali tentano di districarsi dalle superstizioni e dalle false credenze inveterate è notevole e gli studiosi cercano di avere contatti con altri scienziati in Italia o nei paesi oltremontani o attraverso le accademie. Una accademia calabrese che ebbe carattere scientifico fu quella degli Incuriosi di Rossano. Fu dotata di un gabinetto di fisica sperimentale e di un museo di storia naturale. Il tropeano Ignazio Di Lauro ivi separò gli elementi costitutivi dell’antimonio e poi ne effettuò la sintesi con l’elevazione del calore. Michelangelo Monticelli vi tenne una lezione sulla vita dei coralli. All’Accademia diede l’adesione Benedetto XIII e socio ne fu Carlo Musitano, altre adesioni (Antonio Magliabechi, Gabriele Kramer di Ginevra, G.B. Vico, Giovanni Fantoni, G.B. Crescimbeni) indicano l’importanza dell’Accademia anche nel secolo successivo.
Antonio Oliva di Reggio è singolarissima personalità del secolo, promotore di cultura, uno dei soci fondatori dell’Accademia del Cimento, professore di medicina all’università di Pisa, preparatore degli esperimenti che si compivano presso l’Accademia. Non ha lasciato uno scritto anche se taluni scritti gli vengono attribuiti. Fu di carattere non facile, irascibile, litigioso, acceso nelle discussioni ma «grande ingegno» venne definito dal Redi che con lui litigò. Tutta la ricostruzione, cauta, scientifica, della vita e del suo pensiero è dovuta a Luigi De Franco.
Nacque l’Oliva nel 1624, nel 1643 è a Roma come teologo del cardinale Francesco Barberini; a Roma probabilmente frequentò il Collegio della Sapienza e fu alunno di Benedetto Castelli, amico di Galilei e corrispondente di Torricelli. Dovette studiare matematica, filosofia e medicina, ebbe il titolo di abate come godimento di un beneficio ecclesiastico. Nel 1647 ritornò a Reggio e fu nella rivolta antispagnola coi nobili alleati del ceto borghese e filofrancesi; essendo stato seguace del francese Duca Di Guisa, per il fallimento dei mori fu imprigionato nel castello di Reggio fino al 1652 e venne liberato a condizione che non ritornasse più nella sua patria, come avvenne. Nel 1657 sappiamo che è a Firenze tra gli amici e cortigiani del Granduca Ferdinando II e di suo fratello Leopoldo, assiduo dell’Accademia del Cimento aperta in quell’anno; presso la Corte l’Oliva era uomo di fiducia con diversi incarichi (insegnante, ebbe alunni il Redi e Lorenzo Bellini); era certamente dottore quando il Granduca lo nominò lettore ordinario di medicina. Dopo il 1665 tenne anche una scuola privata di filosofia e fisica. Nel 1667 abbandonò la cattedra di Pisa e la corte di Firenze per trasferirsi a Roma forse per contrasti con la Granduchessa Vittoria Della Rovere.
A Roma fu introdotto come medico della corte papale da Tommaso Rospigliosi, già suo alunno a Pisa e nipote del papa Clemente IX. Dal papa ebbe anche un beneficio a S. Maria Maggiore; morto quel papa ricevette una rendita col titolo di abate di S. Giovannino a Posillipo e fu nominato bussolante pontificio e governatore del feudo di Marino, di proprietà dei Colonna, col titolo di viceduca. Da tale altezza l’Oliva cominciò a decadere per la sua frequentazione dell’Accademia dei Bianchi che era in odore di eresia. I componenti furono arrestati e processati e costretti all’abiura; l’Oliva si presentò spontaneamente al Sant’Uffizio ma a un certo punto si buttò dalla finestra morendo qualche ora dopo (1691).
Gli storici sono concordi nel ritenere l’Oliva uomo di profondo ingegno, non moderato né mite, acceso nelle discussioni e irruente. Il Borelli accenna a una Apologia dell’Oliva da scrivere contro lo stesso Borelli per differenti approdi scientifici relativi a esperimenti sul moto dei corpi ma dell’opera nulla si sa. L’Oliva avrebbe dovuto comporre un Trattato dei liquidi di cui parlava il principe Leopoldo nel 1665 e il Targioni Tozzetti cita una tavola sinottica di un trattato sull’acqua e riporta tale tavola in una propria opera; la tavola è uno schema che cataloga le diverse specie di acqua che si trovano in natura. Lo Spanò Bolani indica come opera di Oliva mai venute alla luce Memoria dei sali e Lettere intorno alla generazione dei bacherozzoli ma si tratta di congetture. Anche di un altro scritto, un compendio di filosofia derivante dal pensiero di Gassendi, si ha notizia vaga e non sicura. Fra tante incertezze rimangono la validità della presenza culturale di Oliva nella vita italiana, la sua reazione intellettuale di fronte ai problemi della scienza, il suo sperimentalismo.
Si occuparono di studi giuridici il cosentino Serafino Biscardi (1643-1711) il quale fu chiamato quale reggente del Consiglio Collaterale a Napoli, Carlo Pellegrino di Castrovillari, Carlo Kalà, Angelo Rocchi. Il più grande dei giuriconsulti del secolo è Gaetano Argento, nato a Cosenza (nel 1661). Dopo i primi studi fatti a Cosenza dove conobbe Pirro Schettino prima del 1689 andò a Napoli dove ebbe la protezione del Biscardi e del conte Stella. Guidato nella carriera forense dal Biscardi, nel 1707 fu nominato Consigliere regio, quindi Reggente del Supremo Consiglio collaterale, nel 1714 Protonotario e Presidente del Sacro Regio Consiglio, ottenne anche il titolo di Duca. L’Argento fu uomo di stato molto abile e seppe con giusto equilibrio lottare contro i privilegi ecclesiastici nel Regno di Napoli, riuscì a restringere il diritto di asilo, a ridurre i poteri giurisdizionali, a far valere i diritti di bonifiche dei terreni del clero. Morì a Napoli nel 1730. Numerose sono le raccolte di allegazioni manoscritte dell’Argento, pareri, decisioni, interpretazioni, molto nota è la sua opera De re beneficiaria dissertationes tres (1708). Fama di avvocato ebbe anche Giovanni Battista Argirò nato nel 1660 a Castelvetere e morto a Roma prima del 1729, nel quale anno un suo nipote ne pubblicava l’opera postuma Theatrum universi juris.
Il secolo è peculiare per gli ingegni bizzarri e girovaghi ma tanto più dovevano essere girovaghi i calabresi costretti dalla necessità ad andare lontani dalla terra in cui erano nati, per procurarsi cognizioni delle nuove dottrine, delle recenti sperimentazioni. Campanella e Mattia Preti simboleggiano con le loro vite avventurose questa psicologia apparentemente centrifuga ma in effetti alla ricerca di una unità che non fosse meccanica bensì nascesse dall’interno e la cui forza si potesse comunicare agli altri. Tale fu anche la vicenda di Tommaso Antonio Astorino nato a Cirò nel 1651 e morto a Terranova di Sibari nel 1702. L’Astorino fu un poligrafo dalla mente geniale e dall’animo irrequieto volto alla ricerca della verità senza posa e senza riguardo per le convenienze e le opportunità. Fu filosofo, matematico, giureconsulto, medico, astronomo, glottologo e venne chiamato, per la sua prodigiosa conoscenza di molte discipline, onniscio.A sedici anni vestì a Cosenza l’abito carmelitano e assunse il nome di fra Elia. Studiò a Napoli la filosofia aristotelica, a Roma la teologia, viaggiò varie volte per l’Italia per imparare le lingue orientali, l’arabo, il greco, l’ebraico che, essendo dotato di prodigiosa memoria, scriveva e parlava, si diceva, come se fossero state ciascuna il suo dialetto. Ben presto criticò la filosofia aristotelica e si volse ad apprezzare la telesiana sicché in Cosenza il desiderio di conoscere e seguire le nuove correnti di pensiero gli procurò nemici e creò pericoli intorno a lui: si diceva infatti, che fosse «dotto per magia».
Da Bari, dove venne perseguitato per le idee, si rifugiò a Zurigo cominciando un «agitato pellegrinaggio così il Galati che finisce con la sua morte». Lo troviamo a Basilea, ad Heidelberg, dove conosce i grandi scienziati del luogo, a Marburgo dove diventa viceprefetto dell’Università; contemporaneamente comincia lo studio della medicina, che completa a Groninga, addottorandosi nel 1686 con una famosa tesi De vitali oeconomia foetus in utero. «È notevole – prosegue il Galati – in questo temperamento irrequieto, che s’inserisce nella più vigorosa tradizione dei pensatori calabresi, lo spirito d’indipendenza, che non gli fa subire supinamente nessuna situazione che contrasti con i suoi convincimenti».
In Germania l’Astorino sperimenta la mancanza dell’unità della fede nel protestantesimo, si reca ad Amburgo e vi sostiene l’unità della Chiesa cattolica: quindi ritratta i propri errori, è assolto nel 1688 dal vescovo di Munster, ritorna a Roma e l’anno seguente lo troviamo predicatore in Toscana. Qui conobbe il Marchetti, il Redi, il Viviani, fu soprattutto amico del Magliabechi. A Siena contribuì alla fondazione dell’Accademia dei Fisiocritici della quale fu eletto principe e censore perpetuo, a Roma fu nominato maestro di teologia. Trascorse gli ultimi anni tra Cosenza e Napoli, infine ebbe asilo dal principe di Tarsia in Terranova di Calabria dove visse fino alla morte quale custode della biblioteca del principe. Tutte le opere manoscritte dell’Astorino, interessanti la filosofia, la teologia, la logica, l’ottica, le grammatiche delle lingue orientali, ecc. sono andate perdute.
Anche nel Seicento troviamo storici della Calabria. Già Gabriele Barrio di Francica aveva pubblicato (Roma 1571) il De antiquitate et situ Calabriae, un’opera alla quale molti in seguito attingeranno; nel 1737 Tommaso Aceti curerà una nuova edizione dell’opera utilizzando le stesse correzioni del Barrio e quelle del Quattromani. Era seguito Girolamo Marafioti con le Croniche et antichità di Calabria (la prima edizione è napoletana, del 1595, la seconda è padovana del 1601) in cui erano stati largamente adoperati i materiali del Barrio. Il padre Giovanni Fiore di Cropani (1622-1683), dell’ordine dei frati minori, diede alla luce nel 1691 una «opera varia istorica», Della Calabria illustrata, il cui secondo volume, accresciuto fino all’anno di pubblicazione da fra Domenico da Badolato, venne edito nel 1743 a Napoli.
Tommaso Aceti, nato nel 1687 a Figline e morto vescovo a Lacedonia nel 1749, sacerdote visse a Cosenza dove fu avversato per il suo ingegno, a Napoli, a Roma. Qui divenne correttore della Stamperia Vaticana, per l’edizione del Barrio si servì di un codice della Biblioteca Vaticana postillato dal francicano e rilevò da un manoscritto dell’Angelica le note del Quattromani. L’Aceti, che come storico è considerato inesatto da molti, scrisse anche ierodrammi e un trattato di ortografia latina e italiana.
Alla storia della cultura e non soltanto a quella della specifica economia appartiene il cosentino Antonio Serra il quale nel carcere della Vicaria, dove era stato chiuso forse sotto l’accusa di avere cospirato contro il reame, scrisse nel 1613 un saggio di economia, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento dove non son miniere, con applicazione al Regno di Napoli.Il Serra è uno dei primissimi studiosi di aspetti importanti del problema meridionale quale si viene configurando agli occhi degli spiriti pensosi e desiderosi di un rinnovamento politico ed economico. L’«operina», come la chiamava l’autore, affrontava dottrinariamente il problema monetario opponendo al De Santis, ispiratore della politica del duca di Benevento e della fissazione del tasso di cambio tra le monete napoletane e quelle straniere, la necessità di favorire industrie e commercio; l’equivalente di tale produzione è moneta. Venezia è più ricca di Napoli perché ha industrie e commercio mentre le industrie napoletane sono in mano di stranieri che comprano le merci locali esportandole e arricchendo sé e i propri paesi. Il Serra vedeva come errori dello stato l’ammassamento di oro nei forzieri, il permesso di libera circolazione della moneta straniera, proponeva come rimedio l’incoraggiamento della produzione e dell’industria. Inoltre egli scorgeva chiaramente ed era in questo precursore che il Regno di Napoli non era un paese ricco ma povero per la natura stessa della terra, per la mancanza di industrie, per le scarse capacità di iniziativa degli abitanti, per l’inefficienza delle istituzioni politiche. A proposito di quest’ultimo fattore il Serra scriveva che a Venezia si era «atteso dal principio della sua propagazione a governar bene, avendo per oggetto il beneficio pubblico» con la continuità di governo che è quasi utopia negli stati monarchici nei quali il governo «tanto dura, quanto dura il tempo dell’officio del viceré».
Elementi economici e politici, quindi, determinano la prosperità e la felicità dello stato ma il Serra individua concretamente anche la negligenza degli abitatori del Regno ai quali oppone la capacità di veneziani, bergamaschi, fiorentini, genovesi di intrecciare relazioni commerciali con i principali paesi d’Europa. Lo studioso calabrese, cioè, non si colloca tra gli utopisti che auspicano il rinnovamento ma ne indica i modi. Per tali motivi la sua è, come ha scritto il Croce, «la voce di un precursore». Dall’esame del disordine, in cui all’inizio del Seicento versavano a Napoli monete e cambi, il Serra muove per indagare sulle vere cause della scarsezza di moneta, generatrice, a sua volta, di povertà e di debiti: un paese povero, come Napoli, di miniere, per avere oro e argento, aveva bisogno di intensificare la produzione e l’esportazione dei prodotti locali. Lo sviluppo economico industriale avrebbe avuto i suoi riflessi in tutti i settori della vita nazionale. Il Serra credeva, dal punto di vista politico, negli ideali repubblicani: la loro essenza era per il Serra la stabilità, favorevole allo spirito di impresa. In tal modo l’economista calabrese collegava i propri ideali con le necessità della situazione obiettiva del Regno e giustamente uno storico dell’economia, l’Arias, lo considerava il primo meridionalista d’Italia e il precursore dei grandi spiriti che oltre un secolo più tardi porranno a confronto il sottosviluppo del Regno con le condizioni di progresso di regioni economicamente avanzate in Italia e fuori d’Italia.
Il Serra smentì il mito di una Italia meridionale giardino d’Europa o orto delle Esperidi: tre secoli dopo si scoprirà che essa è un amaro inferno degli uomini viventi tra sfasciumi non solo geologici. Lo studioso cosentino indagò sui mali del Sud: il fattore agronomico (povertà del suo infecondo e malarico), la posizione eccentrica e al di fuori delle grandi vie di comunicazione europea, la mancanza di attività industriale e di iniziativa, il governo monarchico. I meriti di Serra sono stati riconosciuti dal Galiani («Io non dubiterò di collocare il Serra nel rango del primo e più antico scrittore della scienza politicoeconomica e di concedere alla Calabria anche questo finora ignoto vanto d’esserne stata la produttrice»), da De Viti de Marco, Graziani, Arias, Petino ecc.
La storiografia calabrese fino ad ora incontrata scritta da preti o frati (Barrio, Marafioti, Fiore) è di carattere erudito-umanistico, enciclopedica, storico-geografica, discende dalle epitomi medievali per il moralismo, per il carattere agiografico; l’impronta controriformistica ribadisce il modulo sacro della storia umana. In quegli storiografi si possono incontrare erudite dissertazioni sulle origini magnogreche delle località, favolose descrizioni di una regione descritta come un paradiso terrestre (solo il Barrio accenna ai mostri che la governano) ricco di acque salubri e medicinali, frutti verdi per tutti i mesi dell’anno, di «lini e bambaggi», di miele, pece, resina, legnami, caccia, pesca, minerali, ecc. La storiografia è ancora bambina – come si dice di uno storico greco che è all’origine della linea storiografica –, la critica storica manca perché manca rimpianto critico.
Sacerdote fu anche Domenico Martire nato a Perito di Pedace nel 1634 e morto a Roma nei primi anni del Settecento, autore di Calabria sacra e profana che apparve alla luce nel secolo scorso in due volumi (1876-78) e venne ristampata nel 1973. In essa si tratta di calabresi santi, papi, vescovi, preti, martiri, romiti, abati basiliani e di altri ordini, dei beati, vescovi e uccisi in «odio della fede» degli ordini benedettino, cistercense, certosino, agostiniano, domenicano, francescano, carmelitano, dei Minimi, teatino, servita ecc. Storia locale ma importante per l’adesione alle forme letterarie del barocco è la Cronica della nobil’e fedelissima città di Reggio di Marcantonio Politi, filosofo e medico, che fu anche sindaco nobile della città descritta dove nacque nel 1541 e morì nel 1623. L’opera apparve a Messina nel 1617 e quantunque l’autore sia nato nella prima metà del Cinquecento scrive nei modi studiati e artificiosi del Seicento. La narrazione non è cronologica, notizie disparate (geografiche, araldiche) sono infilzate senza cura di vigilanza storica, di controllo delle fonti. Le notizie più precise sono quelle sull’estensione della città (tra il Calopinace e il Lumbone), sulle torri e le mura, le porte, la dolcezza del clima («dove mai né estremo freddo né caldo si sente, anzi sempre vi è una continua e vaga primavera»). La città di Reggio per Politi è nel paesaggio «una pittura vagamente adorna di mirabil prospettiva di campagne, fiumi, monti, fonti e mare». Essa doveva essere nel Seicento veramente bella per i giardini irrigati dai due fiumi ricordati i quali allora scorrevano sia d’estate che di inverno; nei giardini crescevano gelsi neri, arcandi, limoni, cedri, «cose veramente incredibili a chi non li vede con li propri occhi, che liberamente avanzano in questo ogn’altro paese, e non hanno invidia degli orti dell’esperidi». La celebrazione della città è un motivo frequente nella lirica e nella narrativa barocca (si veda l’elogio di Cosenza in Francesco Della Valle: «Nobil città, ch’ai chiaro Crati in sponda siedi e superba all’aure ergi le mura», «nido e soggiorno di pellegrini ingegni») e tutta la narrazione di Politi tende all’elogio ma ciò che egli dice della bellezza degli orti suburbani è confermato da storici, viaggiatori, letterati. La bellezza è unita all’utile in un atto di un notaio del 1601 in cui si parla della produzione di «herbe di foglia domestica e comestibile […] lattuche, scarole, boragini, sinape, secre, spinace, cipulli, porri, agli, finocchi domestici, rape, rapisti, radici bastionache». Quegli orti e giardini finiti in un atto notarile, però, ispirano atmosfere di sovrano stupore barocco, sofferte analogie della mutabilità delle forme che sfociano in una visione allucinata della pazzia delle cose nel sonetto del gesuita napoletano Giacomo Lubrano Cedri fantastici variamente figurati negli orti reggitani. Questo sonetto in cui è fissato il delirio di forme di un orto reggino è per Getto «un simbolo del relativismo prospettico e dell’universale metamorfismo»:
Rustiche frenesie, sogni fioriti,
deliri vegetabili odorosi,
capricci de’ giardin, Protei frondosi,
e di ameno furor cedri impazziti […]
Vedi zampe di tigri e ceffi d’orso
e chimere di serpi; e se l’addenti,
quasi ne temi il tocco e fuggi il morso.
Altri in larve di Lemuri frementi
arruffano di corna orrido il dorso,
e fan cibo e diletto anco i spaventi.
Il Lubrano in un’ode in cui descrive il fenomeno della Fata Morgana sullo Stretto ricorda nella trasformazione della realtà quei giardini e gli orti Esperidi venuti alla mente al Politi:
Se ‘l reggitano autunno
di frenetici cedri in mar trapianta
l’amenità native;
ne l’oro d’ogni pianta
fatto nocchier Vertunno,
selvarecci Perù sbarca alle rive.
Pensili boschi, esperidi verdure
sanno fiorir su le cocenti arsure;
e di aprili sì lieti
giardiniere è Nettun, la Flora è Teti.
Alle erbe di quegli orti scomparsi ci porta la deviazione linguistica di un aromatario reggino del 1611 in cui sono ricordati «conserva di violi, enguentu rusatu, siruppi di ligaricza, oglio di mendula amara, simenza di miluni, siroppi di scursunera (pianta a forma di scorpione), siruppi di zinzuli, spremituri di mordila, zinzifaru».
La tradizione del Sirleto fu continuata nel Seicento da fra Paolo Piromalli nato a Siderno nel 1591 il quale fu famoso orientalista e teologo. Studiò filosofia e matematiche a Napoli e fu alla scuola del sidernese Nicola Antonio Stelliola (1547-1621). Ritornato in patria abbracciò la regola di S. Domenico nel convento di S. Giorgio Morgeto nel quale era stato Tommaso Campanella. Dopo essere passato nel convento di Soriano Calabro per gli studi teologici, nel 1628 fondò il convento domenicano a Siderno e fu nominato per un triennio maestro dei novizi nel convento di S. Maria sopra Minerva a Roma. Nel 1631 fu mandato come prefetto delle missioni apostoliche d’Armenia. Per essere venuto in urto col prelato domenicano in Armenia Agostino Bagiense fu messo da costui in carcere e qui compose il lessico armeno-latino. Urbano II lo fece liberare nel 1634.
L’Armenia maggiore (che comprendeva la Cilicia dove è Tarso, patria di Paolo apostolo) era sede delle eresie del monotelismo e del monofisismo, di scismatici ed eutichiani. Il Piromalli (che era padrone delle lingua latina, turca, araba, persiana, armena) convertì la comunità di Eccemiazin, nel 1637 fu in Georgia, a Costantinopoli, nel 1638 in Polonia, due anni dopo in Persia dove rimase dieci anni. Dopo fu in India e in Africa, prigioniero dei corsari ad Algeri per quattordici mesi. Dopo essere stato riscattato dalla prigionia per opera della Congregazione di Propaganda Fide (dal cardinale Franciotti) fu consacrato arcivescovo di Nassivan in Armenia (1655), quindi trasferito a Bisignano (1664) dove morì nel 1667. Fu esperto di lingua greca, armena, turca, araba, persiana, scrisse opere di argomento teologico, apologetico, grammaticale. Furono pubblicate Apologia de duplici natura Christi (Vienna, 1656), Teantropologeia seu oeconomia Salvatoris nostri (Vienna, 1656). Nel primo opuscolo, confutando gli Ariani, dimostra la divinità di Cristo soprattutto attraverso il vangelo di S. Giovanni e confuta anche i Nestoriani. Nell’altro opuscolo confuta l’antropomorfismo idolatrico dimostrando che l’incarnazione non comporta trasformazione né fusione di natura divina con quella umana ma assunzione della natura umana nella persona del Verbo.
A Bisignano nel 1666 preparò un sinodo diocesano. L’attività di Paolo Piromalli si svolge nel quadro controriformistico della lotta contro gli scismatici, della evangelizzazione degli infedeli e, in Calabria, della latinizzazione della Chiesa greca.
Le opere lasciate inedite riguardano scritti apologetici, traduzioni di testi sacri in lingua armena, vocabolario armeno-latino, perso-latino ecc.
Il secolo XVII è contrassegnato dalla varietà degli eventi, dalla differenziazione antropologica dei personaggi che lo percorrono, in relazione alle nuove curiosità, alle intuizioni scientifiche, all’ingegnosità delle scoperte, elementi che per la prima volta sono alimentati da spirito più moderno. Non che il vecchio scompaia; le strutture politiche e controriformistiche sono contro il nuovo ma fuochi fitti serpeggiano ovunque generando il desiderio della polemica, della contrapposizione: anche il barocco con il meraviglioso concorre a disincantare, fare oltrepassare il gusto delle tenebre, fare emergere il particolare estroso e brillante. Carestie, guerre, pestilenze e terremoti sono elementi di depressione ma ci sono anche sogni di rivolte contro gli Spagnoli, contro i baroni locali, utopie generate dalla scoperta di nuove terre, applicazioni della scienza per gli scopi pratici, viaggi. Il romanzesco diventa motivo più frequente della vita e dell’arte.
Un calabrese, Giovanni Francesco Gemelli Careri nato a Radicena nel 1651, iniziò nel 1693 un viaggio intorno al mondo che terminò nel 1698. L’autore, di famiglia agiata, si laurea a Napoli in giurisprudenza; perseguitato da un personaggio altolocato, non corrisposto in amore secondo quanto egli dice nel 1685 lascia Napoli per Vienna per servire la casa d’Austria. Ma prima di raggiungere Vienna passa per Venezia, Milano, Lione, Parigi, Londra, Anversa, Amsterdam, Colonia. Di questo viaggio c’è un resoconto in Viaggi per l’Europa che pubblica nel 1693 e che avrà anche un’edizione inglese. Al ritorno dal viaggio intorno al mondo ebbe la nomina a giudice a vita alla Vicarìa. Il suo Giro del mondo (1699) in sei volumi ebbe molta fortuna nei primi decenni del Settecento (lo troviamo nella biblioteca di Voltaire) per l’interesse suscitato dalle descrizioni di Turchia, Persia, Cina, Filippine, Messico; fu anche tradotto in francese e in inglese. L’autore venne accusato di avere compiuto un viaggio fittizio, di avere immaginato il viaggio e di avere intessuto una trafila ideale di un viaggio che era nei desideri di chiunque ma testimonianze di chi aveva incontrato Careri a Pechino, prove filologiche compiute su lettere e testimonianze di gesuiti frequentati dal viaggiatore in Cina, descrizioni molto precise di villaggi del Messico hanno fatto cadere i dubbi. L’opera fu riveduta da Matteo Egizio, l’antiquario e numismatico napoletano che era solito rivedere i testi altrui. L’Egizio dovette aggiungere e parafrasare luoghi altrui già noti sui luoghi e paesi visitati: mutazioni e prestiti sono evidenti. A differenza di altri viaggiatori che andavano in giro per il mondo per motivi di interessi naturalistici e geografici o di mercatura in tempo di conquista di imperi coloniali e di mercati il Gemelli Careri compì il suo lungo viaggio solo per curiosità, per desiderio di conoscere l’ignoto. La sua opera non è appesantita da motivazioni religiose o filosofiche.
La commedia dell’arte ebbe vita in Calabria, i suoi caratteri furono relativi alle condizioni sociali della regione e ai suoi rapporti con la cultura napoletana. Le situazioni più frequenti che il teatro portò sulla scena furono quelle dello studente affamato, del servo gabbato, dello zanni fortunato. Giangurgolo è il personaggio principale della commedia calabrese, deriva dal soldato fanfarone ridicolo per i suoi vanti ma rappresentò anche i ruoli del padre, dell’oste, del birro. Appare a Napoli nel 1618 quando gli fu data la figura del paesano inurbato, il calabrese goffo che parla un dialetto stretto e serrato, causa di equivoci, altre volte si esprime in linguaggi diversi ad uso comico o in italiano ricercato. Quando raffigura il calabrese ricopre il livello sociale più basso con un dialetto grossolano, storpiato, anfibologico, talvolta in contrasto con lo zanni napoletano.
Giangurgolo rende teatrale il dialetto calabrese per la forza espressiva aderente alle cose e ai sentimenti (estremamente carico nell’ammirare e nell’imprecare): quel dialetto quando veniva fatto risuonare da una maschera dal naso grosso e dal cappello a pane di zucchero, da una lingua tagliente raggiungeva il virtuosismo scenico nella contesa plurilinguistica ricca di motivazioni popolari. Epigono di Giangurgolo sarà il Pagliazzo cosentino, nel Settecento, che rappresenterà il calabrese finalmente fortunato e meno schiavo del dialetto deriso e serrato.
La prima opera teatrale in dialetto calabrese è Organtino, in tre atti, di Cesare Quintana, rappresentata a Castrovillari nel 1635. E stata pubblicata da Giulio Palange il quale nell’antichissimo contrasto tra Carnevale e Quaresima ha individuato la struttura portante del teatro dialettale in Calabria; i pubblici poteri non hanno mai ostacolato tali rappresentazioni perché esse servivano come mezzi liberatori delle frustrazioni in cui perennemente vivevano le classi popolari. Dell’autore si sa solo che è stato cappellano a Castrovillari dal 1629 al 1649 che è probabilmente l’anno della sua morte. La commedia (prologo e tre atti in endecasillabi con rima in dentro), rusticana, in dialetto, riflette e porta sulla piazza (l’opera venne rappresentata nella piazza antistante la chiesa di S. Giuliano di Castrovillari) momenti della vita dura dei pastori visti con sguardo oggettivo, senza intenzioni morali. È il mondo della natura che troveremo in Piro, osservato nel suo svolgimento interiore: nulla vi è di idillico o bucolico, la realtà sgronda durezza sia nel pastore Organtino, avido, diventato ricco di mandrie, diffidente conoscitore degli imbrogli del mestiere, aguzzino che teme le frodi dei pastori dipendenti e degli altri pastori che si ribellano al padrone tiranno. Nell’aspra vicenda entra il tema della beffa matrimoniale (quello che nel teatro rusticano di Ruzzante era il mariazo) ma il centro dell’opera è il contrasto di forze che si fanno guerra in un ambiente disumano in cui si è a contatto con gli animali e con la natura bruta che si assimila agli animali. Quintana non giudica, il suo sguardo è quello di un Machiavelli disincantato il quale osservando i personaggi schiavi dei propri vizi si ride del grottesco e del farsesco che ne viene fuori, del non veramente cattivo né veramente buono che è in quegli uomini, in quel campionario di vulgo. I pastori non sono in contrasto col mondo ad essi esterno ma vivono penosamente i maltrattamenti del massaro e rivelano le loro magagne. I versi aspri, lenti, franti dalla rima interna indicano che la pena di essere pecorai, pastori, guardiani di bestie, isolati dal mondo, è irredemibile, senza conforto e senza fine. Questo mondo dell’immobilità fetida e immobile è l’antitesi delle mobili volute attorcigliate del barocco. Non è tentativo di poco conto la proposta artistica di Quintana.
Giangurgolo nacque a Napoli come un elemento della variazione dei linguaggi che costituisce nel calabrese parlante uno dei personaggi divertenti, quello del paesano inurbato. Abbiamo visto nel Cinquecento la cattiva fama di cui godevano i calabresi a Napoli; anche Cervantes e Lope de Vega assegnano al calabrese gli appellativi di ruffiano, accoltellatore e Giuda. Nel teatro italiano i calabresi sono poco adatti a parlare in toscano per i vocaboli ridicoli (sono quelli greci), per le bestemmie; con le loro stigmate di goffaggine e rozzezza i calabresi al loro apparire sulla scena hanno i connotati spregevoli e ridicoli. Si tratta di gusti, di convenzioni perché i popoli in quanto sono vivi mutano i caratteri con la vita storica; gli aspetti che, irrigiditi, sono considerati immutabili hanno scarsissimo fondamento reale e possono diventare pretesto di ostracismo razzista. Così come la valutazione positiva della regionalità astratta può diventare fonte di estetismi vanitosi, di pseudo-superiorità. Nel 1618 a Napoli Natale Consalvo sostiene la parte di Giangurgolo, altri Giangurgolo troviamo nel Seicento a Napoli, Roma, Parigi. La maschera rappresenta un primitivo oggetto di scherno ma non è un tipo fisso; capitano spaccone con antecedenti classici Giangurgolo porta cappello di feltro a cono, spadone, giustacuore, brache e calze a strisce gialle e rosse; il nome deriva forse da Zanni e dall’onomatopeico gurgolo = ingorgarsi di cibo e di vino, ingorgare come un gurgite. Degli scenari nei quali Giangurgolo appare nel Seicento ha redatto un catalogo Alfredo Barbina muovendo da una scoperta di Croce il quale acquistò la raccolta di scenari nel 1896 e la donò alla Biblioteca Nazionale di Napoli dove attualmente si trova. Croce dà i titoli dei canovacci, Barbina dà i nomi dei personaggi e le brevi trame derivandoli dalla lettura dei manoscritti o da appunti presi durante le ricerche. Giangurgolo vi appare: pessimo soggetto che riduce in miseria la moglie per pagare i propri debiti di gioco; padre il quale vuole sposare la figlia a un forestiero ma la figlia riesce a sposare l’amato Pulcinella; carceriere che tiene imprigionato il re; sposo collerico della donna destinatagli dal padre, travestito da birro; inventore di tappeti per nascondere una porta, ecc.
Il calabrese appare in commedia anche come studente (una «briga» di studenti calabresi abbiamo tra gli scritti che forse sono di Domenico Piro) a Napoli capitale di tutte le regioni meridionali, come studente che pretende la mano di Tolla nella Canzone di Zeza; vi appare come servo detto Morello, variante di Giangurgolo, come Pivello insultato ma orgoglioso della sua terra («S’eu sugnu calavrisi mindi groliu», «Eu che su’ di Calavria lu giojellu»); in un contraddittorio tra Pivello e Totaro napoletano di un’opera di Andrea Perrucci del 1695 riportato dal Barbina appaiono i termini Gurgulij e Gorgolie (come goleu) = gufo o uomo sciocco, altra probabile etimologia di Giangurgolo; appare anche il termine Mpuridda che erroneamente è indicato = pipistrello mentre il suo significato (come del termine lampuridha, zampuridha) è: lucciola. In una commedia secentesca della quale è autore Orazio Pugliese di Castrovillari (Lo sfratto e testamento di Carnevale) il calabrese Pantacchio (Pantuocchio) ritorce sui napoletani la povertà che veniva assegnata sempre ai calabresi («e portau nu vestitu cu chiù grupa ca su’ a nu’ palumbaru»), spagnoleggia e inventa un latino della comicità.
Il Perrucci ci ha tramandato pezzi di bravure (soliloqui o dialoghi) di cui esistono esempi celebri per il virtuosismo di G.B. Basile, sia nei racconti che nelle lettere con immagini barocche, accumulazioni di parole, assonanze, omologie, iperboli (gli occhi come tizzoni ardenti che resteranno nella poesia dialettale reggina e di altri luoghi calabresi) come «Ssa vucca nu cupighiune undi fannu fulea li Grazii e Amuri»: ciò che interessa al Perrucci del calabrese è per Barbina «il registro sonoro delle parole, il virtuosismo o edonismo delle immagini, il turgore degli accrescitivi […] più che il legame col concreto del personaggio». Altra trasmissione è quella delle «spagnoliate», testi ispano-calabresi che portano sentimentalità e teatralità nell’amore in Calabria; la contraffazione dello spagnolo rende più aereo il verso della bella serenata:
Soy amante di na quatrara
que m’enciende con linda cara […]
Mucha mbruoghia tiene a l’entranna
y por esto nchicchia et enganna […]
Ya me muero no bi ca scunchiu
comu cutina ya m’arrunchiu
se no viene quella camatra
que de st’anima fué na latra […]
Biellu xhiatu di chistu cori
ieu mi partu, e st’arma si mori
se te sustan los cantos mios
ya me voi Cudiespina Adios.
In Calabria entra il Pulcinella napoletano, maschera che ride e che fa ridere, soprattutto con il carnevale e le pulcinellate delle farse popolari accompagnate dalla musica.
Giangurgolo non ha antecedenti in Calabria, giunge con la proliferazione delle maschere nella necessità di parodia che la rimescolata realtà sociale presenta nei primi decenni del Seicento, nell’anabasi dei linguaggi dialettali corposi che fanno il verso a quelli delle altre regioni. Giangurgolo esiste per assumere la variante calabrese di ruoli particolarmente espressionistici. Perciò molto bene il Palange (che è acuto e informatissimo studioso del teatro calabrese) parla di «calabresità» puramente esterna, di superficie, orecchiata, orchestrata «con contrappunti spagnoleschi e coloriture genericamente meridionali». Il calabrese in commedia è «primitivo, imbranato, terra-terra, mosso solo da una sensualità sfacciata e da un materialismo grave» (Palange), il suo dialetto è ridicolo, sfottibile, adatto ai generi carnevaleschi, da satireggiare per parodia sulle scene.
La storia letteraria è anche uno spoglio linguistico e la commedia dell’arte e la poesia in dialetto hanno messo in evidenza il carattere caricato, ironico, furbesco, gergale dell’espressione dialettale adoperata dai volghi dei paesi e delle città (o per parodia dai letterati, dai borghesi): è un modo di fare presente realtà sofferte (anche attraverso il grido, la provocazione, la protesta, la sfida, la negazione): la poesia di Domenico Piro non è oscena, esprime una realtà diversa da quella ufficiale. Quel livello linguistico realistico ha diversi registri, da quello degli studenti della Briga a quello pantiano della copula; è un flusso di sangue nuovo nella letteratura calabrese, corrisponde a un moto biologico dei volghi i quali dilagano, si mescolano, si fanno sentire nei mercati, nelle piazze, nel 1647 inscenano una grande rivolta a Napoli che ha i suoi rivoli in Calabria. Da allora in poi quei volghi saranno sempre presenti; se, avendo ragione, saranno soffocati, faranno sentire le loro ragioni che diventeranno preziose per i colti illuminati, per i pochi borghesi. Il Seicento in Calabria è un’epoca di forti nervature: la poesia petrosa di Campanella, i chiaroscuri potenti di Mattia Preti, il controsuono o il suono basso di Donnu Pantu sono elementi di sostanza (non solo di forma) in favore degli sfruttati.
C’è un altro livello serio in quella sfera barocca che spesso trionfa con l’edonismo policromo, con la declamazione della colonna tortile, con le aeree volute; è l’amara scoperta della breve durata delle cose, della caducità della vita umana. L’espressione corrispondente a tale sentimento è la nudità, l’essenzialità. In una iscrizione funebre (1622) del nobile reggino Giuseppe Monsolino leggiamo: «O rerum vices! Oriens orienti gloriae fit | occasus» (al nascere della gloria l’Oriente in cui un giovane muore diventa il luogo della fine, del tramonto). Il meglio della lirica barocca è da leggere in questo quadro di essenzialità o negli stupori di un mondo sentito come delirio, pazzia nella sua fenomenologia di metamorfosi e apparenze. I momenti più alti sono quelli in cui il poeta sente l’assurdo della vita, il proprio estraneamento.
La diversità in Calabria è anche ricchezza e originalità. La letteratura grecanica presenta documenti interessanti; nel 1698-99 Francesco Antonio De Marco, sindaco di Bova, compone in greco bovese, scritto in alfabeto latino, sei poesie in cui domina un intenso erotismo pudico (di cui diamo la traduzione di F. Mosino):
Quando le parlo mi fa arrossire le orecchie,
e guarda vicino in alto e in basso.
Io l’adoro come una santa
e l’onoro come se fosse mia sorella.
La lingua greca del tempo documenta con cognomi e toponimi provenienti dalla Grecia e dalle isole le immigrazioni dal Medioevo in poi. Dall’Epiro e dal Peloponneso le migrazioni di albanesi furono frequenti in Calabria e tra i nuovi arrivati vi erano coloro che parlavano albanese e greco; il clero di rito greco conosceva il greco della liturgia. Da Civita proviene un frammento di glossario di italiano-greco nel Seicento, per fare conoscere meglio il greco demotico dove pochi sapevano leggere il greco.
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- Attenti soprattutto ai caratteri letterari e alla qualità della poesia di Donnu Pantu non siamo entrati nel dibattito sull’identificazione di Donnu Pantu che per Vincenzo Napolillo è Giuseppe Donato e non Domenico Piro. La confusione sarebbe stata originata dal Gallucci il quale avrebbe mescolato la tradizione orale con i manoscritti di Donnu Pantu. Ma l’identificazione avrebbe già avuto una base storica con i riconoscimenti compiuti (G. Donato = Donnu Pantu) dall’Aceti e dal D’Amato.