IX. Influenze di Carducci, D’Annunzio, Pascoli, crepuscolari nelle poetiche nella poesia. Echi di avanguardie

IX. Influenze di Carducci, D’Annunzio, Pascoli, Crepuscolari nelle poetiche e nella poesia. Echi di avanguardie

Quasi per un destino legato alla sua geologia la Calabria nei primi anni del Novecento, mentre si prolunga il male dell’emigrazione, è colpita da un altro terremoto che nel 1908 distrugge Reggio. Per il fascismo la regione fu una riserva demografica, di braccia, di soldati (i calabresi erano stati valorosi soldati nella prima guerra mondiale), come «una semicolonia della industria e delle banche settentrionali» (Gaetano Cingari). La grande miseria contadina, acuita dalla crisi intorno al 1930, contrappunta la realtà sociale della Calabria durante il fascismo che, al di là della demagogia, è incapace di affrontare uno solo – ma il maggiore, certamente, – dei grandi problemi che travagliano la regione: l’analfabetismo. Non era questo che uno dei grandi problemi calabresi. Un altro importantissimo, quella della terra (latifondo e proprietà demaniali), genererà dal 1944 al 1950 (data della legge per la colonizzazione della Sila e dei territori ionici, della legge per la espropriazione, la bonifica, la trasformazione e l’assegnazione dei terreni ai contadini) occupazioni di terre nel Marchesato. Non era ancora terminata la seconda guerra mondiale quando nel gennaio del 1945 un improvviso movimento rivoluzionario scoppiava nell’estremo territorio reggino con la partecipazione della repubblica di Caulonia. Da centinaia di anni di miseria e di sogni di rinnovamento – il grande mito dello spirito calabrese – nasceva quella insurrezione che avrebbe dovuto segnare, nella mente del promotore, Pasquale Cavallaro, l’inizio della rivoluzione mondiale.

Immessa, sia pure perifericamente, nella vita italiana la Calabria nel Novecento fornisce il suo contributo alla cultura nazionale nella quale esso si scioglie e dalla quale attinge modi e forme. Ormai Casalinuovo, Siciliani, si inseriscono nell’estetismo pascoliano o dannunziano, Dolce, Carrieri e Tedeschi (e Boccioni nella pittura) nel futurismo. Così mentre Alvaro porta nella cultura nazionale il sentimento e l’umanità dei pastori calabresi, riceve da quella cultura (con la polemica del ’900 contro il gusto borghese, l’estetismo, il sentimentalismo, il verismo) lo slancio morale contro aspetti corrotti del mondo moderno. Ma nella cultura italiana quella calabrese del Novecento entra vivacemente e robustamente con un suo aspetto fonda-mentale, la narrativa che continua in forme moderne e con nuovi temi la tendenza del romanticismo calabrese. I narratori calabresi del Novecento rappresentano un mondo rimasto fuori della civiltà moderna, quasi arcaico nelle sue strutture sociali e nella sua vita, il dramma di gruppi di uomini che lottano contro condizioni avverse e che fatalmente sono vinti, i sentimenti di fierezza, di religiosità, di speranza di un popolo che comincia ad avere maggiore consapevolezza dei propri diritti e delle proprie capacità. Ma per la prima volta nella storia calabrese, forse, comincia a nascere il senso della socialità che, al di là di ogni romanticismo, finirà col prevalere sugli eccessi psicologici della personalità e della dignità personale: anche l’arte potrà ricevere nuovo sigillo. Soprattutto se la cultura e l’arte continueranno a trarre alimento dall’uomo e dalla sua vita poiché in Calabria, facciamo nostra una intuizione di Giuseppe Isnardi, ligure di nascita e calabrese per amore ed elezione, «si è forse più vicini che altrove al cuore profondo degli uomini».

Eppure tale espressione non può essere pronunziata genericamente perché rischia di essere retorica se il «cuore profondo» non diventa ragione critica e sociale. Il socialismo in Calabria raggiunse anzitutto, alla fine del secolo scorso, gli artigiani. Nacquero allora le società operaie; nel primo dopoguerra la promessa della terra ai contadini agita il proletariato rurale che comincia a muoversi contro lo Stato storico. La nascita del socialismo si rispecchia nella stampa calabrese (La giostra e La giovine Calabria a Catanzaro, La lotta e Il socialista a Cosenza, L’operaio e La luce a Reggio) che documenta la lenta evoluzione dal misticismo comunistico o anarchico ai principi organizzativi. Figura di generoso anarchico in Calabria fu Bruno Misefari di Palizzi (1892-1936) che fondò a Reggio L’amico del popolo; Francesco Misiano di Ardore (1884-1936), socialista, disertore in Svizzera durante la guerra, condannato, fu eletto deputato mentre si trovava in carcere.

Milioni di Calabresi nel nostro secolo hanno subito l’emigrazione forzata per l’insufficienza delle strutture economiche, sociali e politiche, per il carattere autoritario, repressivo, clientelare delle istituzioni degenerate. Tutti i problemi della regione erano stati condizionati o alterati: abbandono delle campagne, difesa del territorio, problemi di case, scuole, salute, lavoro, lingua ecc. Il tessuto di una società che era rimasta arcaica e arretrata è rimasto sconvolto, il capitalismo italiano o straniero ha «razionalizzato» l’economia contadina distruggendola mentre contemporaneamente stravolgeva le strutture urbanistiche.

Se i calabresi che sono stati costretti a emigrare costituiscono delle minoranze in località coatte, altre minoranze in Calabria (Greci, Albanesi, Provenzali) sono più trascurate che gli stessi calabresi. Gli storici calabresi scrivono che nel secolo XVI l’isola di lingua greca era localizzata nel territorio che da Seminara si estende al vertice settentrionale dell’Aspromonte, le isole ellenofone furono segnalate la prima volta da A.F. Pott nel 1806, nel 1820 il tedesco Carlo Witte scoprì dodici villaggi di ellenofoni in condizioni primitive di vita. Dopo l’Unità d’Italia il rito greco è venuto decadendo e l’integrità dei nuclei si è venuta frantumando, i greci vennero chiamati con disprezzo tamarri o paddechi, nel 1921 la «Grecia» si riduceva a pochi comuni privi di comunicazione rotabile con la costa, raccolti nel bacino della fiumara (Ammendolea) di Roccaforte e aveva il suo centro a Bova. Oggi la comunità etnolinguistica è ridotta a poche migliaia di unità che svolgono particolarmente attività contadina e pastorale. Alcuni paesi sono stati smembrati o annullati dalle frane e dai dissesti geologici; nessuna istituzione scolastica bilingue esiste1.

La minoranza albanese, inserita nella vita nazionale tanto da avere espresso intellettuali e patrioti dell’unità d’Italia rischia di essere assorbita e di perdere quei valori che sono diventati italo-albanesi. Anche per questa comunità non esiste il bilinguismo nelle scuole.

Circa cinquant’anni dopo le stragi degli anni 1557-1561 i valdesi di Guardia e dei villaggi parlavano ancora provenzale; oggi la lingua è estinta.

Nel secondo dopoguerra i problemi della Calabria si sono aggravati e gruppi di potere hanno congenerato una mafia di vendite, appalti, guardianie, speculazioni ecc. legata al clientelismo, al sottogoverno, al favoritismo, alla corruzione. Con tali aiuti e strumenti politici ed economici la mafia è arrivata a occupare posti di direzione e di autorità, e sovvertire il tessuto sociale, civile e politico, compartendosi la gestione del potere. Le migrazioni bibliche di lavoratori calabresi nel centro Europa o in Italia settentrionale – conseguenza di una politica tendente a favorire l’esodo della manovalanza – la disgregazione dell’unità regionale hanno consentito i movimenti eversivi di Reggio in cui sono state incanalate oggettive richieste di giustizia e di lavoro e incorporate frustrazioni, delusioni, inganni, che schiacciavano ceti popolari e medi.


Da oltre un secolo la letteratura calabrese comincia a perdere talune particolarità che l’avevano distinta e caratterizzata e viene a convergere con più chiaro orientamento nella letteratura italiana, segno della più intima partecipazione della regione alla vita nazionale. Per gli scrittori e i poeti del Novecento non esiste ormai la tradizione culturale del Regno di Napoli, ad esempio, ma il risorgimento, il positivismo, la reazione idealistica, il marxismo, le nuove correnti e l’Europa. La stessa poesia latina, una delle forme della cultura nel passato, si dissolve nell’impronta che alla poesia latina ha dato lo spirito del Pascoli, anche se non mancheranno poeti i quali manterranno come loro modelli Catullo, Properzio, Tibullo, Orazio ecc. L’influenza di Pascoli – sulla quale ritorneremo – ci sembra un paradigma del rapporto tra la letteratura nazionale e quella regionale. Dopo il decadentismo e dopo Pascoli il classicismo della tradizione o scompare o diventa altra cosa, anche i suoi miti devono cercare parentele con quelli del mondo moderno, più angosciato, meno solare, meno fiducioso di trovare la felicità sulle rive dell’Ilisso.

Dopo l’Unità d’Italia la letteratura della società colta calabrese (delle città, delle cittadine) cerca di modellarsi su quella della nazione, di acquistare una identità in un quadro nazionale. L’operazione è lentissima e non agevole, perché quando lo scrittore vive in Calabria non può che raggiungere un pubblico regionale che è quello dei letterati di formazione umanistica, pur cercando di rivolgersi ai lettori fittizi del nuovo regno ovvero cercare di divulgare nella regione ciò che della vita nazionale riesce a recepire, unificare, contrastare. Questi studi – sulla letteratura di consumo regionale, sugli interventi individuali, emozionali, sui livelli linguistici di consumo, sui mezzi adoperati per tali fini, sui sistemi letterari in uso e sulle loro trasformazioni, sul nuovo pubblico, sul tasso di letterarietà prodotto o che entra per la prima volta e in ondate successive ecc. – non sono stati ancora compiuti e ciò rende difficile l’esame dei rapporti tra la letteratura regionale e quella nazionale.

La letteratura dialettale continua ad essere, nel secondo Ottocento, organica al compatto mondo contadino ed ha, anzi, una sua anabasi per reazione alla piemontesizzazione. Gli scrittori in lingua si sentono immersi in un mare di dialettofoni delle varie subregioni in cui la Calabria è ancora divisa, e non raramente i loro scritti sono quelli di epigoni pseudo-realisti, mimetici, folklorici (a parte la genialità di un Padula che va alla ricerca delle radici antropologiche della Calabria postunitaria).

Solamente all’inizio del Novecento lo scrittore che vive in Calabria comincia ad assorbire i temi della letteratura nazionale, ma non può più chiamarsi calabrese che anagraficamente; meno ancora può chiamarsi calabrese lo scrittore che vive a Napoli, Roma, Firenze.

Milano, che lavora nel giornalismo, insegna, è vicino ai centri maggiori di cultura. La regione è veramente periferia: mancano università, case editrici, giornali, scuole; lo scrittore accoglie sul piano della esemplificazione e del consumo i motivi di Carducci, D’Annunzio, Pascoli, dei crepuscolari. In questi modelli culturali lo scrittore cerca di far sentire – come su un terreno di riporto – il proprio mondo lirico-intellettuale-autobiografico, di uscire dalla propria realtà sociale rurale. I centri propulsori della letteratura nazionale sono altrove, il decadentismo sprovincializza la nazione, le culture regionali perdono vigore (sopravvivono le più originali, la siciliana, la napoletana; quella calabrese era in parte tributaria di quella napoletana). Avviene anche che di fronte alla cultura borghese nazionale le culture regionali si rinchiudono nei loro limiti più ristretti, paesani; ma anche nelle regioni c’è una resistenza politico-culturale, una opposizione che ha le sue radici autoctone remote o nasce dal mazzinianesimo, dal garibaldismo.

Carducci entra in Calabria oltre che come classicista come poeta giambico, come poeta dei ribelli, dei refrattari, come libero pensatore, come massone, come cantore di grandezza eroica. Poco conosciuta fino a pochi anni or sono era la produzione di Leopoldo De Fazio (1865-1953) di Serrastretta. Nel 1977 a cura di Giuseppe Mascaro sono state pubblicate le Poesie (Chiaravalle C., Frama Sud) De Fazio studiò a Reggio Calabria, nel 1886 si trasferì a Roma dove svolse attività giornalistica e conobbe (secondo quanto scrive Mascaro) Carducci, D’Annunzio, la Duse, Filippo Turati, Felice Cavallotti; quindi partecipò alle agitazioni sociali siciliane del 1893, si occupò dei prigionieri politici e, perseguitato dalla reazione crispina, si rifugiò nella Sila dove incontrò un altro perseguitato, Ugo Stranges. Amnistiato, ritornò a Roma. Nel 1913 conobbe Mussolini, più tardi aderì al fascismo su base sociale e rivoluzionaria e nel 1927 fu nominato podestà di Serrastretta ma dopo due anni ritornò definitivamente a Roma.

Le idee politiche di De Fazio sono quelle radicali di Cavallotti, socialiste di Turati; il sistema letterario è quello della positivista e i modelli derivano dalle scelte congeniali: la lotta per la vita in cui il più forte opprime il più debole («gli uomini, al par di voi, | fanno strage degli umili | e perciò voglionsi chiamare eroi […]», «Pezzenti o imperatori | son quasi tutti prede e predatori […]»; «di lor vicende insidiose, losche | è fatta ed è fornita | la lotta per la vita»); lo sfruttamento dell’uomo (la vecchia che lavora e interrogata risponde. «Ringraziamo Dio! miele ce n’è; | ma non certo per me. | Io n’ho la cura e qualche pungiglione: | il miele è del padrone!»; finché un giorno – i versi si intitolano Futuro –, udito «un botto enorme» Saturno s’affaccia sulla terra e vede che il «mostro | ingordo, sconosciuto al tempo nostro» è stato abbattuto, è ritornata la pace e l’inferno «cessato è ormai, perché quell’animale | adorato, adorante in suo fastigio, | fu spento dal prodigio | bello d’un ideale! […]»). Abbiamo indicato alcune scelte ma altre ce ne sono per De Fazio: egli vuole essere vindice del dolore umano, abbattere l’Odio, ed è cosciente della propria forza («tu sei fatto di fango, io di basalto», vuole infondere «l’anima proletaria», non vuole essere il capo di un gregge «in traccia di pastura» né un mago che cambi con sortilegi la figura dell’universo ma intende agitare la riscossa dei sottomessi al dolore; respinge «dei filantropi la cura» che «un po’ d’igiene al mendicante infligge»); protesta, nel 1909, contro la fucilazione di Ferrer

(Non temon le catene
le braccia che son forti
per infrangere presto.
Amen! Gloria ai morti);

alla presenza di Carducci esalta la Pasqua come simbolo di redenzione dell’uomo («l’ideale | trasforma la coscienza», l’uomo «diverrà di se stesso il Redentore», «Quella sarà la vera Pasqua nostra, | quella che aspettiamo»); esalta anche il primo maggio simbolo della redenzione dell’uomo e del suo lavoro; la fuga nella Sila con lo spettacolo della natura lo conferma nella credenza che la materia è «di se stessa fattrice», che c’è un linguaggio spontaneo che deriva dalla gran Madre vegetale; come poeta si sente un «arder» che martella per costruire «un candido vascello | senza comando pel suo navigar» e si sente di se stesso «suddito e re». Il sistema letterario di De Fazio è quello della poesia di Carducci cantore del libero pensiero, della ribellione, della grandezza della stirpe.

Il poeta si rivolge con linguaggio classicistico a un pubblico borghese composito ma non si direbbe che si liberi dall’oratoria. Ribellione, anarchia non trovano la loro espressione moderna, e gli ideali umanitari si restringono agli «eroi latini» quando D’Annunzio (per il quale scrisse un’ode) succede nel patriottismo a Carducci. In definitiva il De Fazio è interprete della libertà di pensiero ma si smarrisce di fronte alla realta, si perde nel Novecento rinnovatore sopravvivendo in qualche canzonetta d’amore dai ritmi un po’ franti che risentono del D’Annunzio paradisiaco e dei crepuscolari. A livello di imitazione di Carducci il De Fazio – e nel quadro della propria cultura un po’ giornalistica – era stato per un’arte come conoscenza e rappresentazione del reale (realtà sociale, progresso, rivoluzione sociale). Ma nel Novecento il poeta si smarrisce: il pubblico borghese illuminato, potenzialmente filoproletario, è scomparso, sono mutate psicologia, lingua, stile; l’anarchismo e l’interiorità ribellistica sono sormontati dall’intellettuale che ha un posto organico nella società capitalistica o e in rivolta contro il mondo di Carducci e D’Annunzio.

Lo stacco dall’Ottocento è allora – nei primi due decenni del Novecento – assai profondo (più di quanto noi non possiamo misurare perché abbiamo radici nel Novecento), il panorama è mutato per: 1) cambiamento del piano letterario, dei generi letterari; 2) perdita di fiducia nella funzione della letteratura di fronte alla civiltà della macchina. Si aggiunga anche l’estraneità dell’artista al mondo borghese assai diversamente articolato che a fine Ottocento (ciò che diciamo per De Fazio vale anche per molti carducciani e dannunziani). Un modo focolare ed emblematico di sentire la dissoluzione novecentesca del classicismo è quello di Vincenzo Gerace (1875-1930) di Cittanova, il quale vide in essa la fine di tutti i valori. Nella Fontana nella foresta (1927) temprò su Leopardi e Foscolo il dolore metafisico personale. Il suo culto letterario fu la tradizione per la quale sostenne una battaglia a cui si era venuto preparando con un saggio di teoria estetica su La tradizione e la moderna barbarie (1927), dove polemizza con Croce e Tilgher contro l’«internazionalismo letterario e romantico che è la negazione del genio della nostra razza». Contro il generico concetto crociano di «forma», di cosmicità lirica (che produce metafore vuote, non strutture architettoniche, non idee-sentimenti), contro il sensualismo, il frammentismo del Novecento, Gerace oppone la poesia filosofica di Leopardi, sintesi di umanesimo-eticità (sublimità morale, individualismo titanico). Gerace propone un cammino dal classicismo all’amplificazione metafisica, che abbia una forte tensione morale (mistico-morale-umanistica), che includa l’umanesimo di Carducci spogliato del paganesimo e l’idealismo etico di Fichte per correggere l’estetica della forma che è responsabile dell’arte degenerata e barbarica2. Il classicismo di Gerace era un classicismo sofferto, esistenziale, ricerca di autenticità; perciò il critico fu lontano dall’estetismo di Luigi Siciliani. L’operazione di Croce pareva a Gerace quella di un epicureo, di un uomo soddisfatto della vita che si diletta di poesia. La tensione morale portò Gerace a suscitare polemiche per illustrare la sua problematica di tradizione, di sentimento del mistero. Egli è stato uno dei pochissimi calabresi che si sono occupati di Michelstaedter, e scrisse, in omaggio alla propria poetica, che il giovane goriziano non si sarebbe suicidato se avesse potuto dare una forma classica al suo pessimismo: la morte, cioè, sarebbe stata causata da una sorta di informe che era nel suo spirito (che è un giudizio inaccettabile).

Gerace è rimasto un isolato nella storia della cultura calabrese e in quella italiana; anzi, viene considerato tuttora, addirittura, come un classicista conservatore e avversato quale simbolo dell’amore per un passato formalistico. In tale giudizio è dimenticato il suo richiamo all’individualismo titanico e alla musica in cui si fondono il momento etico-intellettuale e quello mistico-lirico. Ma è pur vero che come poeta fu lontanissimo dal gusto del Novecento e diede prove di classicismo ritardato e scolastico:

I fianchi in molle movenza ondeggiano;
frusciando forte, la gonna sventola:
ma fermo il suo busto; dritto
l’anfora il collo ritondo regge […]
Quando alla fonte nel vespro cammina,
recando in capo la rossa brocca,
quel suo piè nudo in terra non tocca:
sembra una barbara bruna regina.

Che è riflusso paesano e accademico.

Polemista e giornalista ma anche autore di saggi fu Vincenzo Morello nato a Bagnara nel 1860 e morto a Roma nel 1933. Nella Roma dannunziana fu redattore del «Don Chisciotte», del «Capitan Fracassa», della «Tribuna» (su questo periodico firmava con lo pseudonimo di Rastignac), direttore de «L’ora», del «Secolo». La sua prosa è di ispirazione dannunziana, oratoria. Abbiamo anche suoi scritti di critica teatrale. Oltre i versi Strofe (1881), Pulvis et umbra (1894) abbiamo opere di teatro Il malefico anello (1910), L’amore emigra (1912), opere di saggistica, Leggendo (1887), Nell’arte e nella vita (1900), G. D’Annunzio (1910), Dante, Farinata, Cavalcanti (1927).

A Roma nell’età umbertina si occupò di problemi politici e di attualità, di critica letteraria e drammatica, fu poeta e scrittore di teatro. Nel primo decennio del Novecento D’Annunzio è lo scrittore più letto e discusso: dannunziani e antidannunziani lo sentono come modello di costume, di stile, di eros, di parola, come fatto di moda; il vitalismo meccanico del tempo, quello sportivo, ne esaltano l’avventurismo e il dinamismo, l’apparizione delle Laudi, della Figlia di Iorio, della Fiaccola sotto il moggio, di Più che l’amore. La nave ecc., gli amori romanzeschi e teatrali, la partenza per la Francia, gli interventi politici, gli scandali, gli sdegni diventano elementi centrali della vita sociale (e anche privata), entrano nella letteratura di massa, nel giornalismo; sia le pagine dello scrittore che le scelte e i gesti influenzano il gusto dei ceti medi; D’Annunzio stesso promuove la propria influenza, la incanala, non teme di ripetersi. Ma per quanto riguarda la Calabria (e le altre regioni) e i livelli diversi del dannunzianesimo il lavoro di ricerca è tutto da fare: tradizionalismo classicista regionale e innovazioni, imitazioni, circoli ispirati dal poeta, elementi di gusto nel costume, sul giornalismo, nell’oratoria forense, nel teatro ecc. tutto un mondo sommerso che può avere dei rilievi caratteristici utili a valutare oggettivamente ciò che D’Annunzio ha rappresentato.

Si veda il particolare riferimento di Morello a D’Annunzio che dà, in Maia, il nome di Energeia alla decima musa ispiratrice di poeti nuovi e che significa la forza, l’energia3 occulta che l’uomo capta dal creato e piega ai più ingegnosi usi per la civiltà. Morello esalta la letteratura come energia
e il critico misura la qualità di energia che è nell’opera d’arte. Il criterio energetico consente di apprezzare soprattutto il D’Annunzio esalatore del mondo ferino, i miti cruenti e sanguinari, i miti delle metamorfosi e la loro forza plastica come nell’Otre, nella Morte del cervo. Morello è vicino anche a Enrico Corradini, il quale usò il darwinismo per dare una base alla celebrazione della guerra imperialista, alle ideologie futuriste interventiste: la volontà di potenza e la lotta per la vita avranno sbocco nel prefascismo e nel fascismo. Morello vive il suo antiliberalismo e il suo antisocialismo in questo clima culturale sforzato, eccitato, con la povertà ideologica del giornalista brillante.

Morello fu amico di D’Annunzio, difese Più che l’amore, nel 1910 fece conoscere il taccuino di appunti per il Canto novo, scrisse su D’Annunzio un indiscriminato volume informativo4.

Al dannunzianesimo appartengono anche Napoleone Vitale (nato nel 1883) di Bova e Arturo Borgese (1880-1949) di Polistena. Il Vitale, nazionalista e futurista, amò descrivere la storia per visioni e per quadri scarsamente ispirati, decorativi, di derivazione (oltre che da Carducci) dal D’Annunzio del IV libro delle Laudi e vorrebbe che i suoi versi fossero «saette che lampeggiano nei cieli | e tuoni parlanti».

Cantò la sfida dell’uomo contro il destino e la sua fine di eroe nel deserto, motivo dell’invincibile, dell’inosabile vulgato da Da Verona per consumo dei ceti piccolo e infimo borghesi:

Giace ora l’antagonista
del formidabile dramma,
l’allucinato utopista […]
Anch’egli sarà fra poco
uno spolpato calcare.

Arturo Borgese fu anch’egli nazionalista e fascista; scrittore eclettico, filocolonialista e antisocialista al tempo di Crispi, durante il fa
scismo rappresentò l’idealismo dell’arte che dalle riviste «Il regno», «Leonardo», «Hermes» egli travasò nella koiné idealistico-nazionale del fascismo. Dalle Laudi deriva il gusto declamatorio del Trittico del cieco (1918), fantasie drammatiche, liriche. Nel 1922 fondò la rivista «Nosside» che visse a Polistena fino al 1932 e raccolse intorno a sé cattolici, laici, afascisti di fede idealistica, rappresentanti dei vari strati della borghesia, livelli culturali diversi ma accomunati dalle sinfonie dell’infanzia agreste (una arcadia lirica novecentesca), dal travaglio oscuro dell’umana famiglia, dall’umanitarismo socialista e cristiano (motivi pascoliani), dalla bellezza classicistico-idealistica carducciana, dagli ideali patriottici e umani di D’Annunzio (sono tutte espressioni che ricorrono nella rivista, approdo del tritume idealistico piccolo-borghese provinciale fascista). Borgese fu conferenziere polimateta, panidealista, che in L’eroica primavera d’Italia nelle Canzoni di G. D’Annunzio (1912) così scriveva:

È una vittoria delle armi oggi, come sarà una vittoria del lavoro domani, – per noi, per noi che andiamo a riprofondar la traccia antica scoprendo, sotto il fango della barbarie turca, le impronte della madre Roma, là in Tripolitania, dai nostri avi impresse. E come oggi vediamo la Vittoria eretta in armi sulle prue delle navi, la vedremo domani, al nostro fianco, con le braccia nude, quando le nostre mani saranno piene di semi! […] la canzone fu concepita quando quasi tutti i Vescovi d’Italia – o concordia di popolo! – accompagnavano con voti e benedizioni la partenza dei soldati per la guerra; quando innumeri sacerdoti, da ogni lembo d’Italia, a gara facevano richiesta di arruolarsi come cappellani nei reggimenti, marcianti incontro alla morte, alla gloria! Il Vescovo arringa, poi dà l’assoluzione […].

Anche la Calabria aveva i suoi nipotini di padre Bresciani. Sulla rivista non c’era dissenso né in essa si trova

un solo articolo che facesse onesto riferimento – come scrive Vincenzo Fusco5 – alla sempre allarmante gravità della questione meridionale […]. Ciò che si scopre, piuttosto, essere il tema dominante degli articoli, delle poesie […] è il senso di frustrazione e di decadimento morale della classe borghese la quale, per una sorta di mito autoconservativo, si illudeva di poter ovviare a quella sua condizione, assumendo pose “vitalistiche” o parossisticamente individualiste.

L’unico a dissentire fu il condirettore della rivista, Domenico Maria Giffone, che ruppe la collaborazione e così scrisse del Borgese:

Quando piglia la penna Arturo,
cosa mai non si scatena:
secca il fiore sulla pianta,
tuona il fulmine e balena,
l’uccellino più non canta […]
Ecco un tavolo, un bicchiere,
dietro il Gran Conferenziere,
con le scarpe di copàle
sembra andare a un funerale.
Prima i baffi si forbisce,
poi degluta ed esordisce:
«La modestia proibisce…»
(pavoncello che mentisce),
cita questo, cita quello,
ma di lui non c’è un granello!!

La rivista fu la «gazzetta ufficiale» del movimento calabrese di quegli anni, e il Fusco, dopo aver descritto la solennità di don Arturo, così conclude a proposito del salotto letterario sulla cui libreria incombevano le riviste fiorentine:

Né mancava, in quella puntuale rassegna di sentimentalità serotina, l’esibizione compiaciuta di una gestualità decadente; quella stessa che si respirava negli incontri che si tenevano nel loro salotto in stile, allorché qualche giovane poeta diceva emozionato i suoi versi, sperando nel favorevole parere di don Arturo, oppure allorquando in quel “sacro rifugio” si teneva concerto per piano di fine settimana, con pezzi di Chopin e l’immancabile “rosolio” da sorseggiare negli intervalli […] Altre volte, la coppia Borgese, invece di uscire, preferiva salire sulla terrazza di casa per godersi lo spettacolo del tramonto. E allora quelle due immobili figure, immerse nella controluce crepuscolare, davano l’impressione di sciogliersi nella luce morente […] (V. Fusco, op. cit., pp.310-311)

Il sistema letterario di Nicola Giunta (1895-1968) di Reggio Calabria è carducciano-dannunziano, la sua poetica e quella classicistica per le regole e i miti che la informano. L’arte per Giunta ha «significazione ideale», la poesia si pone «in alto in virtù della divina intuizione» (prefazione a Reghion), al di sopra della storia, è «sintesi astrale» in virtù del genio del poeta. La vera poesia è grandiosità e trova il suo stampo nell’etica e nella lirica civile, i metri sono quelli della tradizione. La poesia – scriveva Giunta nella prefazione a Reghion – ha bisogno di veste condegna e deve indossare «l’abito di rigore, come il magistrato la toga in tribunale, il sacerdote la cotta sull’altare, il generale la sua uniforme in piazza d’armi». Con questa poetica il cantore di Reghion (1946, ma scritto nel 1938) collocava sullo stesso piano di valore tutti gli eventi importanti e tutti i miti della sua città, continuava la polemica contro gli ermetici e si illudeva di scrivere poesia civile versificando lo Spanò-Bolani o il Larizza che gli servivano come canovaccio e Anassila, Caronda, Paolo di Tarso, Carlo V, il terremoto del 1908 ecc. diventavano poetici perché circonfusi di grandiosità. Il quadro letterario e idealizzato era il risultato della tecnica di Giunta, costante, senza mutamento, senza divenire. Era agiografia letteraria. Qualche motivo più concreto si ha quando Giunta è critico nei confronti della popolazione

che non s’anima ed ispira
a novità, e di tutto essa sospetta,
e sui calcoli suoi gira e rigira […]
più contenta ad essere formica che
leonessa

ovvero quando parla del suo rapporto con la città (la città degli «storti» dirà nei versi dialettali) insipiente: «ché ai piccoli di mente è van parlare | e il mar non entra in guscio di nocciola».

In un contesto culturale profondamente mutato come quello degli anni Cinquanta Giunta intendeva continuare la tradizione della poesia civile di Carducci e D’Annunzio con gli strumenti della retorica ottocentesca. Così è nei Canti della Repubblica (1954) – il poeta era repubblicano, socialista, era stato oppositore del fascismo che lo aveva «purgato» – nati senza ideazione: «al di fuori e al di sopra di ogni competizione di parte» si dice nella nota finale, mentre la Repubblica era nata contro la monarchia e il fascismo sostenuti da reazionari, destre e clericali di destra. L’uomo nuovo repubblicano, in sostanza, si ritrovava sfegatato scudiero dei classicisti.

Nei Canti italici (1956) torna a predominare il mito della patria, del suolo, dell’eroe con esiti artistici di tardo dannunzianesimo del IV libro delle Laudi:

che, se lo sterco e il fango già t’abbrutta,
come da pianta, a nova primavera,
il fior del tuo valor ancora butta […]
lo spirito che mai di te s’appaga,
per il mistico soffio che c’invade […]

Il componimento di maggiore partecipazione è quello per D’Annunzio: «e, Encelado dalla fiammea fronte […] | O Vate, o Vate, o Vate! All’invocarti | te vedo in un azzurro sfondo arioso […]».

Giunta avrebbe potuto scrivere tanti libri di «canti» ma la sua tecnica rimaneva senza sviluppo: dal Sir senza cuore (1928) in cui venne imitando i modi della lirica antica e dal Satiro al fonte (per il quale egli ambiva trovare un posto nel clima letterario che sta tra i Conviviali e l’Alcione: ma il libro è del 1928!) in poi Giunta non si accorgeva della inutilità di ricalcare modelli di un altro tempo, un retroterra classicistico-retorico, una poetica ottocentesca del vate solitario e aristocratico che trova unicamente nel proprio canto le ragioni sociali e civili dell’arte. Ben diverso sarà il Giunta dialettale (v. cap. XI).
Pasquale Enrico Murmura (1903-1924) di Monteleone studiò nel sistema dell’estetismo Ezechiele, Eschilo, Dante, Mazzini e, soprattutto, D’Annunzio. Il classicismo estetizzante costituì la struttura culturale delle mitizzazioni di Murmura che, formatosi negli anni della prima guerra mondiale, vagheggiò l’eroismo dell’Ellade antica, interpretò la realtà attraverso Omero, Pindaro. Quel classicismo gli consentì di elaborare artisticamente antichi e moderni secondo l’esempio di Luigi Siciliani, ma il mito supremo fu, per il giovane, D’Annunzio vate, eroe, rinnovatore della rinascenza italica: «Si è trasferito in D’Annunzio e in lui vive respira si muove» scrisse Adriano Tilgher6. Bellezza, eroismo, morte sono per lui simboli della vita che si realizza sacrificandola: religione del dolore e del sacrificio. L’estetismo eroico dell’uomo che si sente sulla terra «come un re esiliato» si veniva correggendo attraverso lo studio dei narratori russi, ma il poeta non poté compiere la sua evoluzione e rimase legato a una visione decadente del classicismo, all’esempio inimitabile del poeta di Pescara. Murmura aveva visitato D’Annunzio al Vittoriale, ne ebbe in dono una fotografia; c’è un telegramma fanatico del giovane (dicembre 1922: «L’ultimo degli Argonauti che Voi avete eletto alla gloria delle tempeste, ribevendo nel vento tirreno l’odore del Lago, bacia, come nella prima sera, le vostre mani, terribili e sante»), uno di risposta, simbolico, del vate, un altro per la morte del giovane poeta.

Il giovane combacia con il vate-eroe, ma nell’ode Ad Hipponion (1921) c’è ancora il carduccianesimo celebrativo («O città di tre nomi e d’una vita»), ma già appare il linguaggio («Ghigno», «Simile oggi tu sei ad urna») della Canzone d’oltremare, carico di note erudite, topostoria. In A Dante il linguaggio è quello del D’Annunzio eroico («cinta di lauro») ma anche dei riecheggiamenti realistici danteschi come espressione di sdegno contro il presente meschino, di speranze nel futuro («roggia folgore»). L’ode A Gabriele D’Annunzio (1922) è una mistione di profetismo nazionalista («contra il reo-croato»), di mitologismo ellenico, di sublimazioni estetizzanti:

La tua parola è dolce come il sònito
dei flauti in lontananza,
come la piova su le rose a sera,
lenta di sogni al cuore e d’oblianza,
tenue come l’acònito,
fresca al pari del vento in primavera.

Questo tardissimo alcionismo lascia il posto in La notte di Kranae al pascolismo dei Conviviali:

Come l’ambiguo fascino de l’onda
gli occhi ella ha verdi, e come filtro erbale
la sua voce ne l’anima s’infonde […]
Nera un’isola s’alza con suoi monti,
lento il volto del giorno trascolora […]
è un giglio voluttuoso la sua faccia,
onde s’esala un brivido […]
Qual chiusa fiamma in urna d’alabastro
nella candida tunica egli appare […]
Non forse
ella è scossa da un tremito improvviso?
[…] nel gran mistero al sogno delle stelle […]

D’Annunzio paradisiaco, Pascoli di Alexandros, fatalismo estetizzato, spiritualismo declamato come nobiltà, carico di significati reconditi assoluti si accumulano in un impasto letterario di museo del kitsch che è ormai gusto ufficiale, omologo alla preparazione del Vittoriale-Kitsch:

Spandi nei gorghi del mio petto invasi
dalla rapina un olio di viola […]
Arca dei balsami, urna del piacere,
o bocca dolce come vin mirrato […]

È il dannunzianesimo psicologico, piccolo e infimo borghese di «filtri e di bevande affatturate» come aveva detto Gozzano. In Murmura c’è l’adesione indiscriminata al dannunzianesimo come vita e come stile: «il cuor che lógoro gorgoglia», il ferito che «con la man regge l’anguinaia tronca», «Fluendo da le piaghe discoverte | il sangue su la tunica s’accaglia», «il sangue che t’avvampa | io lo berrò qual dolce beveraggio» (Helena), «Bevuto hai filtri perfidi di maga?», «Tutti per la tua fronte i lauri e i mirti», «L’ugne ferree calcarono la fronte, | gli zoccoli vuotarono l’occhiaie», «Oggi solo chi piange è mio fratello», «sono una voce d’anima senz’ossa», «la brace l’ultimo rosso anelito scagliava» (Priamo) e siamo nella poltiglia del dannunzianesimo di consumo. Murmura adopera il livello linguistico di consumo per comunicare con un pubblico che ha fatto suo l’atteggiamento di D’Annunzio di fronte alla vita, il desiderio di predominio e di possesso, la divinizzazione delle energie vitali, il vagheggiamento della bellezza in sé (o che crede di vivere e di sentire secondo modi d’annunziani). Il giovane diffonde il dannunzianesimo della lussuria, del sangue e legge Omero con tali mezzi e con tali fini. Ci sono anche, allo stesso livello di consumo, gli estetismi delle estenuazioni psicologiche, degli smagamenti, delle significazioni simboliche del vate che, proprio nel 1923, scrivendo a Thaon di Revel, assommava nel Vittoriale i motivi dionisiaci, corsareschi, leggendari, letterari da dare in pasto al pubblico: «[…] io ho e avrò qui colonne insigni per tutti gli eroismi, a gara coi tronchi dei lauri e degli oleandri». Murmura accoglie la koiné dannunziana o suoi aspetti particolari come (in Canto d’aprile) l’atmosfera paradisiaca del convalescente che simbolizza crepuscoli, parchi ecc.:

Non è più giorno e non è sera ancora […]
L’ombra si spande sul giardino muto […]
Tutto si vela d’un mister sublime.
Cadono stanche già le rose prime […]
Qualche statua nel verde come un’urna
la luce include e l’epoca lontana
sogna […]
Dal monastero prossimo le suore
levano un canto de la liturgia.
È il canto de la carne che desia
insaziata, è la malinconia
d’un disperato anelito d’amore […]
La melodia è come una trireme
che a noi ritorni da contrade estrane […]

Alcune prose di Murmura definiscono l’adesione al sistema letterario del decadentismo estetizzante:

La vita è come una corona di atti profondi, dei quali l’uomo non conosce l’intimo senso […] solo l’Eletto giunge ad intuire […] il nuovo ordine cosmico sarà governato da una legge energetica […]. Non esisteranno i fatui dinegatori, gli epigoni di Democrito e di Leucippo, i seguaci di Feuerbach e di Bakounine […] Se noi lodiamo la carne, l’atto inferiore, la gioia e il tormento del sangue, lo facciamo in quanto nella carne, nell’atto, nel sangue, è sempre presente l’anima, lo spirito […]. La religione dell’Ignoto. La bellezza dell’ombra. L’aspettazione di un evento divino. L’opera come preghiera. L’atto come un rito […] L’arte, prima sorgente della vita nuova per gli uomini […] La vita dello spirito è una enormità riguardo alla comunanza degli uomini […] L’incredulo è sempre un infelice […] L’artista è un emulo di Dio nell’opera […] C’è una voluttà del dolore come c’è un amore del dolore […] Odio la bellezza del maschio. Bellezza=grazia. Forza=bestialità […] Il sesso del maschio è una difformità, un’interruzione brusca e violenta della linea del corpo, un errore dell’ordine simmetrico.

Tale sistema culturale estetico-simbolistico, pur nel suo carattere poltiglioso e coerente con la psicologia, la sensibilità degli anni che preparano il fascismo, include molti motivi banalizzanti della cultura media, del logoramento della democrazia, della preparazione dell’Eletto, dello spiritualismo anfibio (radici del quale sono nel Pascoli conviviale, dei discorsi, dell’esegeta di Dante). In quegli anni si scriveva in vari ambienti alla maniera di Murmura: una letteratura amaro-tragedizzante irta contro la ragione, carica di amore dell’ombra e del mistero, di complicità intorno all’arcano. Il nazionalismo borghese nell’adesione acritica a D’Annunzio esprimeva il gusto provinciale della retorica del gesto e della parola, diventata fatto di costume. Era un epigonismo che indugiava sia sul vistoso che sul recondito (ma sempre in funzione assoluta e destoricizzante, al di fuori di un contesto reale) frenando il movimento più veloce della cultura e i segni più veri e profondi; spesso si trattava di fenomeni locali che venivano sopravvalutati, di linguaggi stereotipati che continuavano per decenni di subalternità psicologica, di confessioni di vizi sentiti come virtù, di esibizionismi individuali di fronte a un pubblico limitato o condizionato; il protagonista poeta-intellettuale manca, abbondano i tradizionalisti, i finti rivoluzionari, i solitari, i non realizzati, gli eclettici. La società che era dietro questi fenomeni letterari era quella genericamente borghese ma articolata in un pubblico diversificato dal punto di vista della cultura e della psicologia, canalizzato in un orientamento o in un altro a seconda dei fatti esterni, delle reazioni interiori, capace di accogliere ambiguità sentimentali, eroismi, rinunce spirituali ma anche sete di sangue e di imperio.

L’influenza di Pascoli in Calabria è caratterizzata dai sentimenti affettivi ed etici (amore della famiglia, del paese natio, della casa) che trovano corrispondenza nello spirito e nella cultura profondamente tradizionalista. Nel quadro della cultura umanistica regionale si può spiegare anche un altro aspetto dell’influenza pascoliana, quella sui poeti che al Pascoli si ispirarono.

Quantunque il poeta non potesse essere facilmente compreso quale grande portatore di novità artistica l’influenza del Pascoli rappresenta uno dei modi in cui la storia letteraria regionale partecipa e si dissolve nella letteratura nazionale. Pascoli ebbe notizia della poesia latina fiorente in Calabria quando era ancor giovinetto nel collegio di Urbino dal padre Giuseppe Giacoletti che nel 1863 aveva ottenuto un premio aureo ad Amsterdam nella gara hoeufftiana e ricordava il primo vincitore del premio aureo dell’Istituto Belgico, Diego Vitrioli. Il romagnolo giungeva a Messina nella seconda quindicina di gennaio del 1898 come ordinario di letteratura latina per succedere allo Stampini; poco dopo il suo arrivo moriva a Reggio Calabria Diego Vitrioli considerato il maggiore dei poeti latini di quel tempo soprattutto per un poemetto sulla pesca del pescespada nello stretto di Messina, premiato ad Amsterdam nel 1845. Pascoli aveva cominciato a cantare in latino il mondo antico, il crepuscolo del mondo pagano e il sorgere di quello cristiano.

In tale atmosfera venne imitato da Francesco Sofia Alessio (1873-1943) di Radicena, che nel Vitus fa sentire un’eco troppo immediata del Veianius e in Ultimi Tibulli dies (Amstelodami, 1920) gli stampi delle Myricae. In Asterie (Amstelodami, 1921) di Sofia Alessio la religiosità dei neofiti ha la pesantezza storica di una figurazione postridentina e il sentimento si esprime in sentimenti ora elementari ora rugiadosi. In Vergilius ugello expulsus (Amstelodami, 1922) la tendenza a comporre il quadro – la campagna che si ridesta al sorgere del giorno – fa indugiare il poeta nella descrizione degli animali e degli uomini che popolano la scena. Nei successivi poemetti si tratta di letteratura latina pascoliana di consumo, nella quale il calabrese esprime una religiosità che sa di santuario, di attesa del miracolo e di scioglimento del voto: gli manca quell’ansia arcana che a volte crea nel Pascoli il sentimento indefinito e suggestivo che rende tragico il pianto di Thallusa, la fine di Pomponia Grecina. Il componimento per il quale Sofia Alessio è ricordato più propriamente tra i pascoliani è il carme Sepulcrum Ioannis Pascoli (Amstelodami, 1917, poi in Musa latina, Napoli, 1922) che venne dopo quelli di Mingarelli, Pellecchia, Gandiglio, Rosati. È un carme polimetro nel cui epicedio è la descrizione di Maria che sulla sera viene a piangere sulla tomba del fratello. Nel componimento c’è il movimento gentile dell’animo che si ripiega con malinconia sulla tomba del poeta amato per piangere su essa, e il disegno del carme e i particolari si fondono in una melodiosa unità. Il neoumanista calabrese interpreta con semplicità
l’etica del Pascoli che raccomanda propositi di pace e di amore.

Alti voli poetici non si trovano neanche in un altro neoumanista calabrese, Giuseppe Morabito (nato a Reggio Calabria nel 1900, vincitore nel 1954 del premio nederlandese col poemetto Pericula) che ebbe come maestro Alfredo Bartoli, traduttore di Pascoli. Morabito è vicino al Pascoli nei poemetti di argomento greco-romano, come nel Laertiades (in «Palestra latina», 1957, n. 157) per la delicatezza con cui Laerte si avvicina al mondo infantile del figlio, per la tenera umanità del fanciullo ricca di desideri, di meraviglie e di abbandoni.

Durante gli anni trascorsi a Messina il Pascoli ebbe scolari, amici ed estimatori calabresi, e qualcuno di essi, come Luigi Siciliani, gli fu molto caro fino agli ultimi giorni di vita. Il poeta calabrese che sentì maggiormente l’influenza di Pascoli fu Giuseppe Casalinuovo (1885-1942) di S. Vito Jonio, il quale cercò di rendere lirico il fantasma poetico suggeritogli dal dolore umano, dalla malinconia del ricordo, dalla nostalgia di un mondo paesano e intimo, ma spesso c’è nei suoi versi il gusto del quadro stillante di pianto e la mancanza di distacco dal contenuto. Al poeta mancò una ricca esperienza culturale e artistica, e quanti pochi passi abbia egli percorso del suo cammino si può vedere leggendo La lampada del poeta (1929) che, apparso oltre venti anni dopo Dall’ombra (1907), ripete i toni e i modi del primo libro7. In una commemorazione del Pascoli tenuta nel 1912 (edita in Celebrazioni, Napoli, 1936) Casalinuovo vede in lui il poeta della bontà, delle piccole cose, della semplicità, della povertà. Anche per Casalinuovo l’infanzia è un assoluto poetico legato al ricordo delle persone amate, al grezzo contenuto psicologico è assegnato valore poetico di simbolo; la facilità espressiva si nota anche nella tecnica con cui Casalinuovo vuole porre in sentimentale evidenza la sventura o lo schianto dell’animo; è la tecnica del contrasto di situazioni con la quale si ricercano effetti facili. Il meglio di Casalinuovo si ha quando il poeta riesce a cogliere ansie sovrasensibili (Mezzanotte):

Mezzanotte! Dentro il cielo
son le stelle un gran rosaio;
ed il gallo segna l’ora […]
Par la luna, senza stelo
una rosa d’oro giallo;
da una prossima dimora
segna l’ora un altro gallo.
Pare il cielo alto ed enorme,
tutto immobile un vespaio […]

Altra volta coglie le impressioni di un plenilunio autunnale (Plenilunio):

S’effonde il plenilunio
sui monti e sulle ville:
le stelle son che guardano
miriadi di pupille […]
Cadono dalla pergola
le prime rose sfatte;
c’è a terra come un morbido
color di sangue e latte.

In Falce d’oro il poeta riesce ad effondere liricamente il suo mondo:

C’è nel cielo immenso e limpido
una falce d’oro appesa:
tutto intorno è d’oro florida
la fiorita ampia distesa.
Par la falce d’oro pendula
che sul monte or posi piano…
oh salire su in un attimo
e ghermirla con la mano!
Oh ghermirla, e poi disperdermi
entro il cielo a far mannelle,
far mannelle d’oro cariche,
falciatore delle stelle!

Casalinuovo si era laureato in giurisprudenza a Roma (1909), nel 1919 – alla morte di Fausto Squillace – diresse il Circolo di cultura e nello stesso anno fondò «La Calabria giudiziaria». La sua poesia fu lodata da Mazzoni, Galletti, Cesareo, Anile, fior fiore della tradizione ottocentesca ma era lontanissima dal gusto del Novecento. Come può un poeta stampare versi quali: «Fiori di maggio | sulla terra e nel cor sceso è il meriggio, | e l’anima ritorna al suo villaggio»? Casalinuovo non ebbe gusto moderno. Sconforto, pietà per gli uomini, ricordi d’infanzia, paese natio sono puri contenuti psicologici, affettivi che non si tramutano in arte. Casalinuovo alimenta l’estetismo degli affetti che diverrà costante in Calabria nei crepuscolari (ritardati e privi di ironia, elegiaci): basta cantare (senza tecnica artistica) cimiteri, sventure ecc. per ritenere di comporre poesia. Paladino sociale di umili e vinti che suscitano compassione Casalinuovo non dà loro l’idea di giustizia e di riscatto; il suo è populismo affettivo, deleterio e impoetico. Questa psicologia affettiva generica non poteva non finire nel bozzetto, nel quadro, nella scenetta per muovere gli affetti. Casalinuovo vuole farsi ammirare e amare per il suo idealismo, per le sofferenze dei suoi poveri, per la nobiltà dei suoi sentimenti. Trionfa in tal modo l’estetismo del cuore, la sentimentalità borghese che è antitetica al gusto del Novecento, al dolore vero.

Casalinuovo fu vicino al mondo degli umili e dei vinti ma l’interpretò sentimentalmente. Gli umili sono immagini pietrificate nella sua poesia, sono privi di vita e la loro psicologia è generica. Il poeta li descrive nei tratti esteriori (vecchie affrante, zingari, bambini poveri), bozzettisticamente: è la letteratura pascoliana diventata consumo letterario.

L’influenza di Pascoli su Luigi Siciliani (1881-1925) di Cirò operò più sul letterato che sul poeta. Col Siciliani Pascoli avrebbe voluto fondare un giornale e un partito degli uomini senza partito, un’anarchia intellettuale e intelligente (nei suoi propositi) di uomini liberi. La poesia di Siciliani si risolve in un estetismo sensuale conforme a quel gusto dei primi anni del Novecento che fonde il paganesimo carducciano con il preziosismo di D’Annunzio e di Pascoli e delle letterature straniere. Più artista che poeta Siciliani rielaborò motivi classicistici e moderni e accolse echi e riflessi di altre voci interpretando i classici alla luce dell’estetismo moderno. Estetizzante fu il suo amore per la poesia pascoliana e soprattutto per i Conviviali che egli difese dall’accusa di classicismo accademico.

Inflessioni, cadenze, echi pascoliani si trovano anche in altri poeti calabresi (Antonino Anile, Corrado Alvaro, Antonio Giuffré, Giuseppe Carrieri, Agostino Pernice, Michele Pane, Pasquale Murmura, ecc.) i quali mantengono la struttura tradizionale del discorso poetico. Più vicina a quella del Pascoli per una liricità che cerca di esprimere il sentimento cosmico, per le perplessità spirituali, ci sembra essere la sensibilità di Alba Florio in Oltremorte (1936) e Troveremo il paese sconosciuto (1939). Il mondo poetico della Florio8 è alimentato dai motivi del dolore e della morte, dal rimpianto dell’innocenza, dal sentimento di colpa che l’esperienza ci comunica, dal rimorso che si sconta soffrendo. Gli umili vivono nella sua poesia come sotto un doloroso peso che rassegnatamente sopportano.

Il pascolismo umanitario entra largamente in Calabria come letteratura di consumo anche nella prosa forense. Molti avvocati, oltre Giuseppe Casalinuovo, hanno adoperato in Calabria i moduli della prosa poetica e della prosa oratoria pascoliana per la facilità con cui gli elementi retorici di quella prosa (apostrofi, interrogazioni, anafore, antitesi, ripetizioni, ecc.) si prestano a esprimere i movimenti affettivi dell’animo e il procedere alogico del pensiero9.

Anche la letteratura crepuscolare entra tardi in Calabria e vi permane come armamentario di consumo al di là di un ragionevole ritardo e come emblema psicologico e stilistico dell’elegia. Il crepuscolarismo privo di scatti individuali diventa psicologia sociale di gruppi di poeti che si servono di quel tono per comunicare il sentimento di una vita dimessa. Nel sistema letterario borghese il crepuscolarismo esprime la malattia, il disagio, l’Italia povera, la provincia periferica, il materiale psicologico con cui si costruisce la propria vita. Solitamente si tratta – dagli anni Venti in poi – di strascichi, di scie letterarie, di modi patetico-romanzeschi. Nel caso di Franco Berardelli (1908-1932, nato a Roma da famiglia di Martirano) etisia e crepuscolarismo coincidono. Berardelli andò alla ricerca della salute in un sanatorio sulle Alpi di Rogueda ed ebbe presente nell’Altra cosa bella (postumo; Roma, Canesi 1963) la vita e la morte di Guido Gozzano. Alla sua morte non mancò la esaltazione che la pietà del caso favoriva e il poeta fu celebrato a Roma, in Calabria (dove la celebrazione dura ancora oggi), in America. Gli s’innalzarono monumenti a New Castle (USA), e certamente se si considera la tragica sorte si comprende quell’esaltazione ma non si è più nella critica essenziale; per cui riteniamo che una migliore misura nel giudizio innalzerà il Berardelli che lascia alcuni componimenti spontanei che meritano di essere ricordati non in assoluto (come spesso si fa) ma storicizzandoli nel ritardato gozzanismo10. Nei componimenti più maturi il poeta tende a far cadere l’enfasi e la solennità e a esprimere l’elegia individuale e quella degli eroi morenti. Il tono fondamentale è l’attesa della morte, di una morte dolce

(morire
senza uccidere la vita,
così finire
per una breve vena
spezzata nel cuore).

Alla malinconia il poeta si rivolge con accenti corazziniani:

Io batto alla tua porta
con un fiorito ramo.
Accorri al mio richiamo.
In giorni molto tristi
io lo ricordo, apristi
all’anima mia morta […]
La sera
scende nella mia stanza,
piena d’ombre e di sogni,
sempre come chi agogni
la triste lontananza.

Il dolore si allevia in qualche momento di evasione dalla realtà nella favola del passato (Il passato:

E il giorno una tavola lieta,
con sopra le azzurre stoviglie;
la sera il giardino incantato
fiorito tra le meraviglie.
Ed ora?
Non c’è la Signora;
il babbo, mio nonno, mia nonna
ove mai sono? Una donna
sconosciuta sta presso il letto:
la suora)

o si accascia in Testamento

(Perché sono stancos
di tutto; di vivere ancora
in questa dimora!
vedere due volte al giorno
un camice bianco,
che chiede con voce uniforme:
‘Ha febbre? Non mangia? Non dorme?..
Pensare che forse mi tocca
morire
tra poco).

Con la poesia crepuscolare si raccordano i versi di Giuseppe Tympani di Gerace e Franco Saccà di S. Lorenzo. Tympani aderisce impressionisticamente a Gozzano, Saccà ha movimenti stilistici scontati: «Sempre che le tue rose, o primavera […]», «Stelle riflesse su la terra come | ardenti candelabri […]». Ermetismo, neorealismo non toccheranno Saccà che, chiuso nel suo crepuscolo, canta le periferie della città la quale gli rimane estranea e nemica. La sua condizione era simile a quella di molti poeti della sua generazione, i quali sentirono avverso il mondo moderno e non seppero crearsi strumenti stilistici adeguati al mutamento11 né usare l’ironia corrosiva dei primi crepuscolari.


Al passaggio tra Otto e Novecento appartiene Salvatore Mitidieri (1883-1917) di Laino Borgo, caduto in guerra presso Vipacco, vicino Gorizia. Già durante l’università aveva pubblicato (1911) un libro di versi, Fiori d’autunno, aveva fondato con Leone Ricca e Luigi Bloise la biblioteca popolare e, con gli stessi amici e Italo Maione e Francesco Rogati, la rivista «Il Convito» (1912). Dal 1914 aveva iniziato la collaborazione a «L’Arte» diretta da Adolfo Venturi. Nelle poesie Mitidieri esprime il suo amore per il libero pensiero («Lucrezio e Tacito t’apriron l’ali, | e volasti lontano, | dove brillano eterni gl’ideali | del delirare umano», A Giovanni Bovio; «Vo’ spaziar ne’ fulgidi ideali | dove trionfa la scienza e il vero, | dov’è più ampio il remigar de’ l’ali»). La donna è esaltata non tanto quale bellezza quanto come persona vera. Altro elemento importante della poesia di Mitidieri è il fiume Lao, Fiume Grande, vicino alla casa, sodale della vita familiare. Mitidieri si è laureato con una tesi su Mattia Preti in cui il barocco non è compiacimento di forme ma espressione di una tragicità che ha bisogno di chiaroscuri forti, di sfondi coperti da tenebre: il suo realismo non può essere giudicato con i criteri con i quali si giudica l’arte rinascimentale in quanto la folla che nel Seicento entra nella storia e nella cultura richiede adeguati strumenti perché si possano intendere i gesti di stupore, i grandi personaggi.

Le disgrazie naturali e le “piaghe” alle quali è stata soggetta la Calabria colpirono studiosi e intellettuali. Nel 1909 venne fondata l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno. Tra i fondatori fu Umberto Zanotti Bianco il quale fu animato da un concreto amore per la Calabria. Nel 1921 fondò la società «Magna Grecia» che finanziò scavi in molti centri della regione; nel 1928 favorì la pubblicazione del dizionario bio-bibliografico Gli scrittori delle Calabrie di Vito G. Galati; nel 1931 preparò la pubblicazione dell’«Archivio storico per la Calabria e la Lucania» che apparve sotto la direzione di Paolo Orsi (la rivista riprendeva gli scopi di «L’Archivio» già diretto da Francesco Petitto ed Hettore Capialbi) e più tardi fu diretta dallo stesso Zanotti Bianco. Questi aveva già pubblicato una notevole inchiesta, Il martirio della scuola in Calabria.

Vito G. Galati ricorda di avere conosciuto nel 1912 a Catanzaro Zanotti Bianco che accompagnava Tommaso Gallarati Scotti a una conferenza su Mazzini al «Circolo di cultura». L’amicizia fra i due nacque nel 1925 quando Galati collaborava a «Rivoluzione liberale» di Gobetti. Lo studioso calabrese ricorda la versatilità, lo spirito missionario, la vita morale di Zanotti Bianco fin da quando faceva parte del gruppo che si ispirava a Fogazzaro nell’assumere iniziative pratiche di assistenza. Ma i motivi interiori di Zanotti Bianco nella sua attività meridionalista erano originati dalle ideologie di Mazzini quantunque egli fosse monarchico e durante il suo fermo e costante antifascismo fosse legato a Maria José di Savoia.

I fascisti erano per Zanotti Bianco «i manigoldi che andavano distruggendo in tutta la penisola le nostre democratiche istituzioni». Ricordiamo le idee di questo aristocratico e raffinato intellettuale piemontese (nato a Canea, nell’isola di Creta, nel 1889 da padre piemontese e da madre inglese) per sottolineare nell’azione in favore della Calabria il suo sentimento civile che investiva una regione la quale ne era quasi priva per viltà di reguli e baroni feudali. Egli non credeva che le masse meridionali potessero divenire artefici del proprio riscatto ma anticipò le idee dell’ambientalismo, del volontariato sociale, della difesa dei beni culturali, fu antesignano nel campo dell’archeologia. Nel 1909 incontrò a Pizzo, con il suo amico Giovanni Malvezzi, Giovanni Semeria e nello stesso anno con il Malvezzi compie l’inchiesta sulle condizioni di vita in 38 paesi dell’Aspromonte occidentale. Dell’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno fecero parte Giustino Fortunato, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Lombardo Radice, Luigi Bodio, Gaetano Salvemini, Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti. Nell’ufficio di Reggio dell’Associazione l’azione di Zanotti Bianco fu molto peculiare sia per quanto riguarda la scuola che l’inchiesta su Africo (famosa è la descrizione della trave lunga dieci metri che bisogna attraversare a piedi o a cavalcioni a forza di braccia, a nove metri sull’acqua per andare a lavorare da un versante all’altro della montagna; memorabili le pagnotte di farina di lenticchie, cicerchie e orzo, dal gusto acido e amaro che ogni sera egli compra e spedisce agli amici di ogni parte d’Italia a testimonianza delle condizioni di quel paese). Nel 1911 su un traghetto dello Stretto aveva conosciuto Paolo Orsi che divenne suo grande amico e insieme col quale lavorò alla ricerca e all’identificazione di Sibari. Altro suo grande amico fu Salvemini.

Attuare una società concreta di uomini liberi fu il suo fine sia che promovesse l’apertura della biblioteca di Studi meridionali «Giustino Fortunato» o la pubblicazione presso Vallecchi della Collezione meridionale o fosse presidente nel 1944 (nel 1941 venne arrestato per antifascismo) della Croce Rossa Italiana, nel 1956 di «Italia nostra» e, dal 1952 al 1963, senatore a vita per avere illustrato la patria «con altissimi meriti nel campo sociale e scientifico» (il riconoscimento fu voluto da Luigi Einaudi).

Animatore dell’Associazione fu anche Giuseppe Isnardi, nato a S. Remo, il quale insegnò a Catanzaro e in Calabria diresse l’Opera contro l’analfabetismo nel Mezzogiorno. Dopo la morte di Zanotti Bianco (1963) diresse l’«Archivio storico per la Calabria e la Lucania» e la biblioteca «Giustino Fortunato». Raccolse i suoi scritti sulla regione in Paesaggi calabresi e Frontiera calabrese (1963), nel secondo dopoguerra organizzò il primo congresso storico della Calabria e si prodigò per l’istituzione della Deputazione di storia patria per la Calabria.

I movimenti di avanguardia del Novecento hanno avuto scarsa fortuna in Calabria. I motivi sono diversi. La regione anche nei primi decenni del nostro secolo era culturalmente lontana dal mondo settentrionale che in talune circostanze importanti era affiatato con l’Europa; le città calabresi non avevano la varietà metropolitana di ceti che consentisse la formazione di punti sensibili, di poli aggreganti per collegarsi con le rivoluzioni culturali; la tradizione utopistica regionale nasceva da profonde aggregazioni psicologiche ed etiche popolari e sociali che nulla avevano in comune con le novecentesche rivendicazioni elitarie; nuclei consistenti della borghesia calabrese coltivavano i miti, il classicismo, la nostalgia del passato: era la parte più reazionaria, sempre avversa ai mutamenti, sempre provinciale e nemica del contemporaneo e del reale. Questa società c’è stata in tutti i secoli dovuta al predominio della pregiudiziale feudale; adesso il feudalesimo si camuffa come tradizione. Il nemico dichiarato del nuovo in nome della tradizione sarà in Calabria Vincenzo Gerace, innamorato della forma classicistica carducciana; ma Gerace formulerà le sue tesi contro la «moderna barbarie» a metà degli anni Venti e assumerà come suo gonfalone l’eroismo dell’ethos fichtiano.

I movimenti europeizzanti non trovavano rispondenza nel conservatorismo regionale: così fu per futurismo, novecentismo, ermetismo, neoavanguardia ecc. Ciò non vuol dire che tali movimenti non fossero conosciuti (lo furono, per lo più, in ritardo e con pregiudizi: si veda il livello massimamente acritico, impreciso, rigumatorio delle riviste letterarie militanti calabresi di letteratura) ma le reazioni furono dei singoli e, non raramente, dei singoli di origine calabrese ma operanti in altre regioni.

Il futurismo giunse all’opinione comune collegato al chiasso delle serate futuriste, solo pochissimi ebbero consapevolezza della profonda capacità rivoluzionaria del movimento, ma anche del suo carattere anti-paleoborghese, della sua storicità correlata con la tecnica industriale, dell’ipotizzato superamento del naturalismo e della trasfigurazione del reale. Pochissimi calabresi appartennero al primo futurismo che è quello rivoluzionario, la maggior parte ha conosciuto quello dell’ufficialità. Antonio Marasco, nato a Nicastro nel 1896, fiorentino di adozione (morì a Firenze nel 1975), pittore, aderì al futurismo nel 1913, nel 1914 accompagnò Marinetti a Pietroburgo e Mosca dove conobbe Majakowskij, Esenin, Malevič. Il suo interesse fu rivolto anche alla scenografia, al cinema, al teatro e dal 1925 fu presente alle più importanti mostre futuriste. Dopo breve interruzione dei rapporti con Marinetti rientrò nel futurismo ufficiale e rimase coinvolto dall’alleanza del movimento con il fascismo. Fu volontario di guerra, fascista, nella Repubblica Sociale fu console della milizia, finita la guerra rimase ignorato da tutti.

Trascurato dalla critica è stato anche Alfonso Dolce (1882-1959) di Cropani che venne annoverato da Marinetti tra i creatori del teatro sintetico (insieme con Marinetti, Cangiullo, Pratella, Balla, Iannelli). Dolce pubblicò (1921) A piedi nudi, un volume di commedie «senza veli», costituito da atti brevi, veloci. Altre sue commedie sono La dolce vita. La luna sul lago. Vecchia città. Nell’anno in cui venne lanciato il manifesto del teatro sintetico (1913) Marinetti si recò a Catanzaro al teatro Comunale per una serata futurista; altra visita a Catanzaro al circolo di cultura «Squillace» compì nel 1927 per commemorare Boccioni «modernolatra».

A Reggio nel 1916 Paolo Carbonelli pubblicò «Rivolta futurista» e nel 1926, nel contesto della IV Biennale d’Arte organizzata da Alfonso Frangipane si radunarono 17 pittori futuristi con 41 opere mentre Enzo Benedetto (1904-1994) di Reggio, pittore e parolibero, nel 1924 dirige nella sua città tre numeri di «Originalità» e nel 1929 presenta opere proprie e di Boccioni alla I mostra di Arte Regionale a Roma.

Tendenze futuriste sono in Giuseppe Carrieri (1886-1968) di S. Pietro in Guarano su un fondo di idillio e di nostalgia. Fantasime (1909) accoglie modi futuristi ma tali modi vengono abbandonati per il distacco del poeta (che aveva collaborato a «Poesia» di Marinetti) dal movimento. Per 40 anni Carrieri tacque, ritornò alla poesia nel 1950, dalle forme libere al sonetto, con I sonetti del rosario e altre raccolte successive. Carrieri non amava il fragore futurista, era schivo e appartato; nei suoi ultimi anni fu presidente dell’Accademia Cosentina.

Geppo Tedeschi (1907-1993) di Tresilico scrisse da parolibero ma in seguito mutuò modi ungarettiani giungendo a uno stile sintetico nelle sue brevi liriche. Nei primi anni Trenta Tedeschi comincia la sua attività di poeta futurista (Il golfo di La Spezia, 1933; Corti circuiti, 1938 con prefazione di Marinetti; Il suonivendolo, 1939; I canti con l’acceleratore, 1940; L’incendiario del villaggio, 1957) cantando macchine e motori ma anche la realtà rurale. Nel 1938 aveva diramato a Messina un manifesto futurista sulla poesia sottomarina ma dal 1940 in poi (nel 1941-42 è podestà di Oppido Mamertina) la poetica futurista è messa da parte per lasciare posto a motivi di impressionismo pascoliano o di vita paesana. I migliori componimenti successivi (Rosolacci tra il grano, 1943; Canne d’organo, 1951; Zufoli sul colle, 1957) derivano la loro originalità dall’essere composti da immagini veloci ed essenziali viventi nell’atmosfera della lirica nuova del primo Novecento. C’è la tendenza a rendere solenne l’immagine essenziale, una tendenza sensuale, immaginifico-cromatica (con variazioni dal barocco al decadente) come nel seguente indizio di poetica autobiografica:

Pasturò strane immagini
a raggera.
Usò appellare il tramonto:
cardinale filosofo
in preghiera

(bizzarra enunciazione priva di ironia, ingenua fino all’espressione «appellare»). Dopo la scelta di poetica marinettiana come poteva Tedeschi ripiegarsi sul gusto epigrafico-neoclassicistico di Giuseppe Lipparini che egli stimò e che nel futurista Tedeschi scoprì il parente degli «Elleni della Magna Grecia»? Sfasature e ritardi; altro ritardo: nel 1968 Tedeschi aderì al manifesto di Enzo Benedetto che preluse all’uscita della rivista «Futurismo oggi». A tanta distanza di anni Tedeschi invece del tradimento voleva riaffermare la fedeltà al movimento futurista della cui rivoluzione profonda (mutamento antropologico e psicologico portato da telefono, aeroplano, transatlantico, automobile, velocità, fabbrica, guerra, industria di guerra ecc.) i futuristi calabresi raramente riuscirono a tradurre il significato in arte: cantare il programma e i contenuti non basta mai.

Non c’è dubbio che il fascismo ha tentato di promuovere la cultura di massa e di rendere più dinamica la vita della regione ma quella cultura di massa rimase propaganda, spettacolo, apparenza di facciata; i problemi della regione non ebbero accenno di soluzione. Combattentismo, rivendicazioni localiste, piccola borghesia urbana trovano il fascismo come sbocco, nella koinè idealistico-nazionalista i fermenti hanno pace. Ma non era pace. Una storiografia improvvisata vorrebbe rivalutare il fascismo regionale sulla base della microstoria nella quale si riflettono gli aspetti positivi del nuovo dinamismo del rapporto tra Stato e regione; ma è ovvio che una «mostra», un «profilo» uno sguardo a microscopio fanno vedere aspetti particolari e non l’intero orizzonte. Per una correzione della vista microscopica rimandiamo agli elenchi degli antifascisti calabresi, al popolo alla macchia durante il ventennio.

Tra i leader calabresi del fascismo Agostino Lanzillo, nato a Reggio nel 1886, non è stato un ras. Laureatosi in giurisprudenza a Roma si strinse di amicizia con i sindacalisti rivoluzionari ma più che organizzatore fu teorico politico. Vicino a Sorel del quale fu divulgatore in Italia, lesse attentamente Marx e Bergson, Pareto, Proudhon, la letteratura reazionaria. Non amò le ristrettezze mentali dei nazionalisti, statalisti e polizieschi, preferì il social-rivoluzionarismo di Mussolini, il liberalismo di Salvemini.

Trasferitosi a Milano fu nel movimento «diciannovista», credette nel mito, allora importante, dello sciopero generale, nel liberalismo della spontaneità di sviluppo del capitalismo. Il capitalismo doveva essere speronato dalla classe operaia e il fascismo doveva mantenere il pluralismo sociale e l’autonomia sindacale perché il fascismo era per Lanzillo un’espressione dinamica nuova dal punto di vista sociale ed economico in quanto al centro della sua visione erano i ceti medi. La classe media per lui «ha in pugno tutte le funzioni veramente tecniche, quindi comprende le posizioni decisive della complicatissima e tutta meccanica vita moderna». Per lui il fascismo era un fenomeno soprattutto urbano («Il fascismo ha mobilitato le forze nella zona grigia della politica, e da qui deriva la violenza scapigliata e l’esuberanza giovanile della sua condotta»). Gli eccessi del fascismo agrario gli sembrarono «ripugnanti».

Il fascismo di Lanzillo doveva essere un partito medio, che raccogliesse il meglio di una borghesia rinnovata dalla guerra, animato da un liberismo vitalistico ed espansivo: tale purezza di Lanzillo venne in collisione, dopo il 1925, con il regime totalitario e nazional-populista. Venne in urto anche con Mussolini perché Lanzillo difendeva l’autonomia sindacale e il diritto di sciopero mentre Rocco progettava la disciplina giuridica del rapporto di lavoro. Nel 1927 scrisse a Mussolini per spiegare la propria posizione sulla stabilizzazione della moneta a quota 90, dicendosi contrario perché la legge avrebbe colpito duramente i salari. Il fascismo non lasciava spazi liberali né razionali. Si veda il caso del cosentino e fascista della prima ora, segretario provinciale del partito, Luigi Filosa, espulso dal partito per essersi opposto alla violenza di alcuni fascisti contro un consigliere provinciale di parte socialista. Subì in séguito la rimozione del grado di ufficiale, il carcere e il confino. Filosa credeva nella rivoluzione sociale e scrisse che dopo la marcia su Roma «una classe di politicanti si è avviticchiata al governo succhiandone l’attività lavorativa […] È sciocco voler negare il fatale avvento sociale delle classi operaie». Lanzillo venne emarginato politicamente e si dedicò solo alla vita universitaria; sarà anche rettore dell’Università di Venezia. Passato all’opposizione, nel 1944 per salvare la vita dovrà fuggire all’estero. Dopo la guerra riprenderà l’insegnamento e nel 1950 in La pianificazione e la vita il conflitto sarà visto come conclusione cruenta di una stolta alleanza con lo statalismo nazista. Tra le opere di Lanzillo ricordiamo Giorgio Sorel (1910), Il soldato e l’eroe (1918), La disfatta del socialismo (1918), Le rivoluzioni del dopoguerra (1922), Lo Stato nel processo economico (1936), L’equilibrio sociale e il classismo (1949).

La letteratura del fascismo è stata quella borghese, anzi piccolo-borghese perché il ventennio è il tempo dello sviluppo del ceto piccolo-borghese. L’ideologia idealistico-nazionalista e la cultura di massa pervadono la regione ma la vecchia struttura agraria dominante (borghesia proprietaria trasformatasi in fascista per tenere a bada i contadini) non illuminata, mantiene i suoi miti calabresi, i tremendi sentimenti dell’onore, della vendetta. Senza dubbio c’è una sprovincializzazione che è dovuta alla storicità più normale ma la calabresità continua a sussistere come microfacies del nazionalismo, come tendenza a rivalutare le qualità di spicco dell’individuo che venivano attribuite a un popolo, a una razza e che risultavano genericamente dalla storia, dalla tradizione, da momenti che diventavano emblematici. La diversità regionale veniva nobilitata e eticizzata, il riconoscimento era consentito su base astrattamente etica. Agli elementi astratti si aggiunse, col dannunzianesimo, col carduccianesimo, col pascolismo l’estetismo letterario, altro sigillo di nobilitazione che mirava, con la polvere narcotizzante delle virtù patrie, a oltrepassare le condizioni sociali, lo stato sociale dell’intera regione nonché i problemi concreti. Durante il fascismo la componente elogistica delle virtù patrie si venne rinforzando. La storia letteraria degli «ismi» ottocenteschi che continuano a dominare nel Novecento come nominalismi e come contenuti di altri tempi sono la smentita della tesi (che è venuta a piovere con la cattiva sociologia) di un nazionalismo sprovincializzatore quando nazionalismo è sempre chiusura, tendenza alla macerazione e alla putrefazione. Il nazionalismo fu ritorno all’ordine dopo le avanguardie, dopo il surrealismo, l’ermetismo ecc.: il «Selvaggio» dei nazionalisti-fascisti è l’equivalente della calabresità.

La koiné idealistica del nazionalismo (antitetica al positivismo, al realismo, al naturalismo, alla scienza) creò anche in Calabria strutture mentali, negli studi, ascientifiche e favorì la retorica nominalistica degli emblemi verbali, le nobilitazioni autosufficienti, le proclamazioni superficiali, la negazione della ricerca sul concreto affiatata con il mondo moderno: tale fu l’ufficialità ma non mancarono nel ventennio i casi di artisti che, solitari, furono originali nonostante e contro la retorica; la narrativa, la poesia in lingua e in dialetto ebbero punte espressive di notevole qualità. Ma, a parte il caso Alvaro il quale aveva esperienza del realismo magico e aveva assorbito non pochi motivi di Pirandello, non vi fu una fuoruscita totale dell’artista del tempo dal contesto borghese per cui l’intellettuale borghese vedesse il fallimento della sua società come il fallimento dell’uomo e scambiasse la disperazione borghese con la condizione umana e si spingesse verso Musil, Kafka, Joyce, Svevo (quasi del tutto sconosciuti): il legame regionale, il cordone ombelicale non fu mai sciolto dai più originali.

Le influenze descritte sono anzitutto sentimentali e comportano un’adesione psicologica, etica, affettiva. Per quanto riguarda Pascoli si veda, ad esempio, come il suo omopsichico, Felice Soffrè (nato a Delianova nel 1861 e morto a Scido nel 1927), nei Versi (1900), in Fragili (1908) e in Ultime foglie (1920) si volga verso le piccole cose della natura, verso il sentimento di pietà e fraternità sociale secondo i modi di sentire pascoliani; ma anche nell’amore di Siciliani per la romanità o per il mondo classico (Sogni pagani, 1906; Corona, 1907; Arida nutrix, 1908) sono componenti oratorie pascoliane.

Un posto a sé nella poesia occupa Antonino Anile il quale nacque a Pizzo il 20 novembre 1869, compì gli studi classici a Napoli e a Monteleone, studiò medicina e chirurgia nell’Università di Napoli e insegnò anatomia artistica prima nell’Ateneo napoletano poi nella R. Accademia di Belle Arti di Roma; nel 1921-22 fu ministro della P.I., morì nel 1944 in Abruzzo.

L’Anile proviene dalla scienza della natura e la sua opera di scienziato e di artista vuole essere anzitutto un superamento del positivismo ma anche una reazione all’idealismo che considera il mondo esterno un’oggettivazione del pensiero umano e tende a dimostrare (Bellezza e verità delle cose, Firenze 1935) che un ordine superiore lega i fenomeni della realtà la quale ha in sé un significato, l’idea di Dio che in essa traluce. In Bellezza e verità scienza e arte trovano la loro espressione unitaria. Ma la concezione scientifica dell’Anile si realizza in Questo è l’uomo, l’ultima sua opera, in cui è anche più razionalmente dimostrata la necessità dell’unità del sapere. Nelle poesie questa idea viene liricizzata e spesso sollevata ad una certa altezza e quantunque la concezione mistico-scientifica non sia nuova nell’Anile bisogna ammirare la sincerità, la convinzione, la purezza dell’idea, di cui più di un motivo riesce a trasformarsi in arte. Tuttavia l’esperienza scientifica e filosofica rimane talvolta come un grumo prodotto dal tempo in cui il poeta visse, con un appesantimento extrartistico e in verità noi troviamo le cose migliori dell’Anile nei primi libri, nell’ansia di verità e nel simbolismo contenuti nei Sonetti dell’anima (Napoli 1903) e ne La croce e le rose (Napoli 1909) – i due libri si trovano raccolti nelle Poesie (Bologna 1921) – mentre con i volumi che seguono (Sonetti religiosi, Bologna 1924; Nuovi sonetti religiosi, Milano 1931) la manifestazione si conclude in una espressione classica. In Le ore sacre (Firenze 1937), L’ombra della montagna (Roma-Milano 1939) il motivo mistico-scientifico si apre alle forme nuove, o libere, e se talora si allontana dall’interesse artistico con la monotonia del tema (la ricerca e l’accenno alle linee di collegamento dell’ordine della natura con quello dello spirito), le concezioni sono limpide e armoniose di suoni e di colori.

Anche Corrado Alvaro, del quale parleremo come narratore e saggista, ha un suo posto nella poesia del primo ventennio del Novecento. La personalità di Alvaro presenta due tendenze: una realistica di ispirazione regionale ed una fantastica d’ispirazione moderna. Tuttavia il sostrato fondamentale di questa arte rimane unico ed è quel senso d’incantesimo, di magico che nel mondo di Alvaro tiene sospesa la realtà e fa vivere creature primitive, tormentate dalla passione, dominate dall’istinto, miti e leggende che sembrano nascere dalla memoria di una vita travolta dai millenni della storia, avventure di vita moderna, cosmopolita e straordinaria, che la fantasia dello scrittore trasfigura in una luce di irrealtà e di miracolo. Come interprete della dolorosa vita del suo popolo legato alle rocce e alla terra e al corso delle stelle, Alvaro ha raggiunto un tono singolare e umano di espressione. In Alvaro poeta (Poesie grigio-verdi, Roma 1917; Il viaggio, Brescia 1942) i due atteggiamenti coesistono con una certa prevalenza dell’elemento strapaesano e veristico che tende a raggiungere un tono popolare di epicità in cui si avverte – nelle Poesie grigioverdi – una lontana risonanza marinettiana, bontempelliana e morettiana.

La poesia rimane anche legata alla tradizione del mondo familiare e popolaresco della Calabria, una sequela di liriche come di cantastorie popolari che vanno recitando la dolente sorte degli umili che muoiono in guerra, lo smarrimento di coloro che devono partire per la guerra, la loro assenza dal mondo patriarcale:

Che tutti quelli che voleano
amare sono spariti nella dura guerra,
Giacciono più di tre metri sotto terra
e per non pianger me li scorderò […]
Come farai a imbracciare un fucile
forte e tremendo che a spararlo tremi?
Chi ti dà forza di veder morire
i tuoi compagni e non aver pietà?
A rider della forza di patire
lo vedrai quanto poco ci vorrà.

  1. Studioso dei problemi linguistici della grecità calabrese è Gerhard Rohlfs (nato a Berlino nel 1892) il quale è autore del Dizionario dialettale delle tre Calabrie (1932-39) al quale fu aggiunto un Vocabolario supplementare (1967), di Le due Calabrie (1962), del Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria (1974). Rohlfs è morto nel 1986. Salvatore Gemelli ha scritto per lui G. Rohlfs, una vita per l’Italia dei dialetti (1990).
  2. Su Gerace: A. Piromalli, Poeti lirici calabresi dal Due al Novecento, Reggio Calabria, Cenacolo, 1950; A. Piromalli, La critica letteraria calabrese del Novecento, in «Ipotesi 80», 1981, n. 1-2; Vito G. Galati, La poesia di V. Gerace, Cosenza, Pellegrini, 1967. Di Gerace si sono occupati anche Silvio Benco, Umberto Bosco, Lorenzo Gigli, Eugenio Montale, Alfredo Galletti, Attilio Momigliano, Ercole Rivalta, Giuseppe Titta Rosa, Luigi Tonelli, ecc.
  3. V. Morello, L’energia letteraria. Torino-Roma, 1905.
  4. Su Morello cfr. A. Testa, La critica letteraria calabrese nel Novecento, Cosenza, Pellegrini, 1968; I. Lo Schiavo Prete, Vincenzo Morello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1985.
  5. V. Fusco, Polistena. Storia sociale e politica, Reggio Calabria, «Parallelo 38», 1981, p. 312.
  6. Prefazione a P.E. Murmura, Versi e prose, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1926. Su Murmura si veda: F.A. Ferrari, L’aedo sparito, Vibo Valentia, 1924; Id., P. Murmura, «Calabria Rotary», febbraio-aprile 1977; Id., Il giovane solitario, in «Calabria letteraria», nn. 7-12, 1981 (opuscoli oratori e apologetici di scarso valore); M. Murmura Folino, P.E. Murmura, in «Calabria sconosciuta», nn. 31-32, luglio-dicembre 1985.
  7. Le poesie sono ora raccolte in un solo volume (Giornata breve, Bari, Laterza, 1981).
  8. Su Alba Florio cfr.: A. Piromalli in «Meridiano di Roma», 28 gennaio 1940; A. Piromalli, A. F., in I contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, V; A. Piromalli, La lirica di Alba Florio, in Indagini e letture, Ravenna, Longo, 1970 (lo studio è riprodotto in Società e cultura in Calabria tra Otto e Novecento, Cassino, Garigliano, 1979; «Calabria sconosciuta», aprile-settembre 1981.
  9. Sul pascolismo in Calabria cfr. A. Piromalli, Alcuni aspetti particolari della fortuna di G. Pascoli (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, I, pp. 268-285) (poi in A. Piromalli, Dal Quattro al Novecento, Firenze, Olschki, 1964, pp. 123-140 e in Società e cultura in Calabria, cit., pp. 67-96).
  10. Sul Berardelli cfr. A. Piromalli, L’opera poetica di F. Berardelli, in «Democrazia» (Reggio Calabria), 15 aprile 1945; Franco Berardelli, in «Il tempo» (Reggio Calabria), 16 luglio 1945; Franco Berardelli poeta tardo-crepuscolare, in «Letterature moderne», XI, n. 3 (tale studio è riprodotto in Dal Quattro al Novecento, cit., pp. 141-148) nonché la scelta antologica in Poeti lirici calabresi, cit..
  11. Su Franco Saccà cfr. A. Piromalli, in «La gazzetta padana» (Ferrara), 19 dicembre 1948; su Giuseppe Tympani: A. Piromalli, in «La voce di Calabria», giugno 1951.