VII. La letteratura della delusione storica

VII. La letteratura della delusione storica

1. La protesta dialettale

Il risveglio della cultura dialettale è una inevitabile difesa contro la sopraffazione della cultura ufficiale ammassata per secoli negli stampi aulici e che adesso veniva offerta paternalisticamente dalle nuove corti burocratiche del centralismo culturale nazionale. Le voci di protesta sono diverse; drammatiche, ironiche, di rivolta, di palingenesi, nascono da situazioni consapevoli del peso del vecchio e del nuovo baronaggio, della necessità di risolvere il problema delle terre da assegnare ai lavoratori e che si trascinava fin dalla legge della devoluzione dei feudi (2 agosto 1806).

La delusione storica post-risorgimentale si esprime come protesta o come vagheggiamento di utopia: recupero della dimensione materialistica della cultura contadina, esigenze di decentramento e autonomia locale, rabbia contro lo sconvolgimento dell’economia patriarcale e dell’autoconsumo compiuto dall’economia capitalistica rapinosa nella ricerca e conquista di nuovi mercati, rivolta contro la repressione sessuale in nome della libertà individuale, contro l’ipocrisia sociale, esaltazione del brigante come eroe popolare che attua il sogno di emancipazione, protesta contro il fiscalismo, la burocrazia, il ritardo delle operazioni demaniali, la piemontesizzazione della Calabria, attese di palingenesi, del regno di Saturno, di pace universale, di avvento della legislazione della Coscienza, lettere al padreterno, al re, al demonio per raccontare la miseria, la fame, l’emigrazione, gli abusi degli usurai, le ricchezze dei preti ecc. sono i motivi più ricorrenti di questa letteratura di protesta.

Nella poesia dialettale immediatamente post-unitaria si riflette la cultura popolare contadina con i suoi problemi: brigantaggio, emigrazione, perdita di identità, contrasto di fondo con lo Stato nazionale, vita delle comunità dei villaggi (usi, riti, religione, naturalità come aggregazione umana, analfabetismo, difesa delle culture locali minacciate dalla colonizzazione piemontese o dalla letteratura aulica, protesta, contestazione del mondo egemone, ecc.) dopo che la classe vincente è risultata la neo-agraria, omologatrice della vittoria la burocrazia del nuovo Stato. In quelle condizioni la ripresa dialettale costituì la reazione di difesa delle culture locali minacciate e calpestate le quali pagano le spese della rivoluzione dei neo-agrari. I contadini vedono nella borghesia liberal-proprietaria e nello Stato dei galantuomini i loro avversari, nei versi di protesta esprimono il disagio della loro condizione ma non mancano il rimpianto degli antichi regnanti o una diffusa nostalgia dell’età dell’oro, trasferimento utopico del reale nel mito e nel sogno, nell’aiuto dei santi popolari.

Nell’età del positivismo, della scienza, dell’anticlericalismo politico in funzione unitaria, di progresso e massoneria, di naturalismo (scienza e naturalismo telesiano venivano accomunati come tradizione regionale da Roberto Mirabelli) l’antitirannide era un pennacchio della borghesia ma essa era una sostanza del mondo popolare che era stato sempre tiranneggiato. La sofferenza dei ceti medi cittadini (di cittadine, non metropoli: Reggio nel 1861 era il centro più popoloso della Calabria con 27000 abitanti) trovava sfogo culturale, a fine secolo, nel pascolismo sentimentale, nel carduccianesimo pagano, nel dannunzianesimo ferino o inteso come energia.

La lingua italiana non si venne formando dai dialetti regionali ma dall’italiano manzoniano, lontanissimo dal parlato che veniva combattuto come «malerba». Nelle trasformazioni della società meridionale si confermavano «vecchie gerarchie sociali e territoriali», si coglievano i nodi tra sviluppo e arretratezza, fra industria e agricoltura, fra città e campagna, fra storia locale e storia nazionale incidenti in modo diverso da luogo a luogo per la varietà delle situazioni, si smuoveva la duratura presenza delle «emozioni collettive (amore, odio, paure ecc.) di atteggiamenti mentali e religiosi», si riversava sentimentalmente sul mondo politico l’effetto degli sconvolgimenti economici. Giuseppe Monaldo, di Filadelfia (dove morirà nel 1900), sacerdote, perseguitato dai Borboni e dal vescovo Filippo Mincione (che gli revoca la nomina a parroco per le sue idee liberali e lo deferisce alle autorità di polizia), dopo l’Unità mette in bocca a una vecchia nata prima del terremoto del 1783 la protesta contro il fiscalismo dei nuovi governanti:

Curcata dintr’a l’uoru
vint’anni arrietu stava,
li duppi li cilava
pe’ tutta ’sta città.
E mo’ ’ntra la miseria
mi viju arrumbulata:
oh chi fami arraggiata,
oh chi pezzenteri! […]
Vindivi casci, sieggi,
cammisi cu’ rizzuoli,
u pagu tassi e ruoli
ancora ’u riestu ’nc’è […]
E tassi a li majali,
a ciucci ed a vaccini,
a machini ’e mulini,
tunnari e vucciarì.
E tassi a la Provincia,
Comuni cu l’Erariu,
e tassi ’o tafanariu […]
E tassi a lu rosoliu,
a rapi e pistanachi,
aringhi cu sarachi,
a zzùccaru e cafè […]
Cu tuttu lu ruvaci
la hjocca mi spignaru,
lu spitu, lu mortaru
cu d’autri fissar! […]
a manu de satturi,
mariuoli, e scuscenziati,
oh chimmu su’ squartati
e fatti baccalà! […]
Vinneru scazi e nudi,
e mo’ sunnu ruccuni,
galiuoti brigantuni,
muli de li zulù […]
Mandami, o Giuorgi santu […]
mandami ’n seportura […]
Sinnò mi ficcu a mmienzu
’sti carti di la tassa
e cuomu ’na carcassa
mi sbampu, santudìa […]

Affiora il motivo antipiemontese mentre il componimento Gli ignudi è contro i parlamentari affaristi e trafficanti:

Varvi di zzimmari,
galiuoti tristi,
hjuri de làzzari,
de camurristi […]
quantu mentìstivu
de tassi e pisi,
o lupi pampini,
facci de ’mpisi […]
Li facci ténenu
e corna tuosti,
chi si ’na scàrrica
supra ’nei appuosti
de pajhi e pùrvari
bene ’ncugnati,
arrieri tornanu
chijhi pajhati;
su’ de materia
tantu ’ndurita
chi non li percia
la dinamita.

Nei paesi si perpetua la divisione delle classi e la rivoluzione unitaria ha lasciato le cose come prima sicché (I rimiti)

Suli mo’ scialanu
li tavernari,
rimiti giuvani,
scieri, notari,
pista-corteccia,
mastri de scola
e quattru chjirichi
cu sponza e stola […]
Li gienti sudanu
fandu majisi
è puonnu spendere
unu tornisi,
ed ijhi attrìppanu
’ntra li tavierni,
jocanu a pijjanu
belli picierni.
Pe’ la gran prescia,
ciertu, che hannu
li chjiesi scupanu
tri vuoti l’annu.
Mandri de pulici
’ntra li mundizzi,
su’, senza chjacchjeri,
quantu marvizzi.
E quandu azzìccanu
na muzzicata,
miejju ricivere
’na pistolata.

La sete di guadagno dei preti di Siderno è stigmatizzata anche da Giorno Trichilo (1847-1933) nato a Siderno Superiore, bovaro, massaro e poeta dialettale analfabeta del quale sono state pubblicate le Poesie scelte (1984) a cura di Salvatore Albanese e Rocco Ritorto. Trichilo rappresenta, per l’arco della sua vita, un nuovo documento artistico e sociale della Calabria postunitaria, dell’età liberale e di quella del fascismo. Il poeta fu per i Savoia, per la guerra di Libia, sempre antiaustriaco. Ma più profonda di quella ufficiale fu l’ideologia che in lui si venne maturando a contatto con il mondo del lavoro e con la sofferenza, con l’emigrazione, con i sopraffattori locali (sindaci, commercianti, preti), con la religione popolare. La matrice della poesia dialettale di Trichilo è la cultura popolare che poteva avere un bovaro degli anni immediatamente postunitari di un paese collinare quale Siderno Superiore posto in una valle tra i passi di Ropolà, del Mercante e di Pianello, al tempo del neo-insediamento di Locri cantato da un altro dialettale che è Cola Napoli.

Le stratificazioni feudali e religiose (bizantine, postridentine) avevano alimentato nella vallata cupi sentimenti di assolutezza, di fatalità, di devozione, di ostinazione; gli accenti del poeta sono carichi di psicologia collettiva vigorosa e fatalista come indica spesso l’avverbio destinatamente. I santi ricordati appaiono come i sodali protettori della vita infelice dell’uomo ma la sfortuna può giungere al punto da fare infedeli anche i santi i quali «sunnu santi e fannu tradimenti». Il poeta è incarcerato perché ha rubato per fame dato che il governo pareva avere mandato la seguente circolare: «cu nd’avi mangia; e cu no, guarda u suli».

La propaganda bellicista ha presa sul bovaro calabrese che crede nella forza considerata con gli occhi popolari di una chanson de geste: gli Italiani hanno corazzate, sono padroni del Regno, la mano di Dio li aiuta e «la roba torna a cu’ nd’avi ragiuni»; gli Italiani hanno armi «speciali» e gli arabi combattono «cu li tizzuni», le città italiane sono coperte di palloni «chi volanu pe’ l’aria senza l’ali | e vannu a paru a paru chi linduni».

I Reali d’Italia diventano i fatati difensori dell’onore per il quale faranno spargere sangue e dopo la morte saliranno al cielo mandando splendori:

Ddiu mu vi dassa ’n’aternu campari,
quantu campau Noè, cent’anni ancora,
sempi tranquilli, cunsulati e sani,
sempi nt’e gigli e nt’e campi di hjuri;
e quandu cessa lu vostru campari,
’mu jiti ’ncelu mandandu sprenduri.

Il canto finisce epicamente: «Pe’ quantu sangunusa fu a battaglia, | viva lu nostru Rre, viva l’Italia!».

La visione è nazional-popolare in relazione all’ideologia risorgimentale. Le vicende diventano epiche anche nei componimenti religiosi in cui la cultura biblica si innesta sulla psicologia calabrese amante del grandioso, del sovrumano, del miracoloso come inveramento di profezie, di scritture. Biblico è, perciò, il linguaggio contro i preti sopraffattori e dimentichi della fraternità; il poeta vorrebbe loro strappare la lingua o

nei attaccarla a li cannarini
nu grossu sassu e subissati a mari
o puramenti mu li scorciu vivi […]
Doppu scorciati li vurrìa arrustiri
cu focu lentu megghjiu cunsumari;
e non cuntentu di chisti castiji,
supa ’na cruci li vorrìa ’nchjovari […]

Accenti più originali di protesta troviamo in Antonio Martino, Bruno Pelaggi e Vincenzo Ammirà. Il Martino (1818-1884), nato a Galatro, fu sacerdote, perseguitato e incarcerato dal governo borbonico per il suo liberalismo. Ma anche la monarchia dei Savoia suscitò la sua opposizione in quanto egli vedeva nel nuovo regno la perpetuazione dei vecchi mali. Di lui si ha un Paternoster dei liberali Calabresi in cui il poeta si rivolge al re affermando che da un male si è caduti in uno peggiore («Ca di la furca passammu a lu palu | sed libera nos a malu»). Nel 1874 compose La preghiera del calabrese al Padre Eterno contro i piemontesi. Il componimento interpreta una diffusa opinione popolare secondo la quale i piemontesi e Vittorio Emanuele II erano le cause dei mali presenti, del rincaro della vita, della corruzione circolante in Calabria dopo la venuta dei subalpini: «Diciassett’anni sugnu chi ciangiumu; | lu pani cu li gràlimi ammogghiamu». Il poeta enumera le prepotenze dei piemontesi discesi in Calabria da conquistatori, abolendo la religione, profanando conventi e monasteri. Dietro Martino erano le paure di un mondo contadino chiuso nell’immobilità e nei suoi miti misoneistici, erano anche i sentimenti popolari contro il fiscalismo, la burocrazia del nuovo regno. Il poeta fin dal 1866 fa sue le voci popolari contro i politici uniti in una sorta di camorra, i prefetti, i commissari regi, i magistrati, gli avvocati, i ricevitori, i sottoposti che, però, nella burocrazia hanno un potere che esercitano contro il popolo; sindaci, segretari, salariati, consiglieri, esattori ecc. sono accumunati nelle ruberie, la loro penna è «lanza di langinu», le tasse sono moltiplicate: «Si parla di finestri, ciucci e cani, | daziu di furnu, di pili e di lani».

Martino che vive in un territorio ad economia patriarcale (la Piana di Rosarno) vede sconvolte le forme domestiche, artigianali di economia, il piccolo assistenzialismo sorretto dalla Chiesa che adesso è privata dei suoi latifondi e delle grandi rendite; la sua protesta misoneistica corrispondeva oggettivamente alla repulsa per i modi antipopolari in cui l’unità del Mezzogiorno si era attuata e alla coscienza che il popolo aveva del miglioramento che sarebbe dovuto avvenire; perciò egli invoca una palingenesi che porti il regno di Saturno, il sonno di generazioni di contadini che avevano creduto e credevano in un rinnovamento religioso che il sovrano potente avrebbe dovuto operare e non aveva attuato. La concezione astorica aveva una sua razione oggettiva in quel mondo rurale che era stato sempre soggetto ad arbitri e ad ingiustizie e aveva sognato rinnovamenti assoluti sulla base della Bibbia, dei testi religiosi, di una tradizione millenaristica plurisecolare. Perciò i piemontesi si identificano con l’antireligione:

Li sacerdoti chiamano imposturi;
li statui trunchi d’aburi pittati;
a la Madonna fannu tant’ingiuri;
li santi pe briganti su trattati;
non vonnu festi né predicaturi […]
Lu furmini, lu tronu, ntra ssu pugnu
su farmi vostri di l’eternitati,
lu caddu di giugnettu, agustu e giugnu,
la nivi di dicembri dominati […]
Giustizia voli pemmu li puniti:
l’onuri vostru mu li scuncassati;
e si riguardu a vui li cumpatiti,
l’ingiuri a la Madonna vindicati […]
nui tutti ntra nu zàccanu cogghiti
e vui, durci pasturi, ndi guidati […]

Il Padreterno di Martino è biblico, simbolo di potenza e di giustizia, il Dio della vendetta il quale è tenuto, per il proprio «onuri», a vendicare il malfatto. Espressioni bibliche indicanti castighi imposti ai piemontesi, il ricordo del profeta Geremia ci riconducono a un sentimento religioso popolare in cui troviamo perpetuati motivi dell’antico Testamento [caps?] i quali indicano quanto sotterraneo e profondo è stato il contributo della religione alla formazione psicologica calabrese.

La Calabria del popolo si esprime nei versi dialettali e le rime di Martino hanno avuto circolazione vasta e clandestina soprattutto fino a quando potevano essere lette con intenzione di ledere o deridere la maestà. La Calabria di Martino è nervosa, vociante; i versi sono collegati con la fisionomia culturale delle popolazioni del territorio della Piana, esprimono una coscienza nazional-popolare che ha i suoi limiti ma che espone concrete aspirazioni di giustizia, proposte di autonomie locali che nascono da secoli di centralismo oppressore, di divisione delle terre demaniali. La parenesi della Calabria ai sovrani appartiene al discorso gridato, ribellistico, al registro ritmato con clausole forti e scandite come è nel tono di invettiva enumerativa, ripetitiva del popolano della Piana (contro i governanti malfattori, contro i piccoli reguli locali: «uh, lampu mu li mina e mu li cogghi»; contro il sistema che consente alleanze di liberali con feudatari, rapide ascese di approfittatori che il sovrano premia e li «fa làzzari e maurizi, collara di Nunziata»).

Martino ha individuato i legami che uniscono vecchie e nuove classi dirigenti, le reciproche coperture, l’assorbimento da parte loro dei sedicenti liberali che per motivi di interesse hanno tradito i princìpi. Soprattutto esprime le millenarie aspirazioni alla giustizia, a un rigoroso e semplice costume di vita come reazione all’ingresso violento e spesso devastante del capitalismo nelle campagne.

Il poeta scalpellino Bruno Pelaggi (1837-1912) detto Mastru Brunu di Serra S. Bruno, protesta contro la mancanza di lavoro, la trascuratezza del governo nei riguardi della Calabria, il Risorgimento non realizzato negli adempimenti dello Stato verso il Mezzogiorno e la Calabria in particolare. I suoi versi hanno avuto circolazione orale fino a poco tempo fa; i testi a stampa, che derivano dai versi dettati alla figlia e trascritti su quaderni, ci consentono di leggere le delusioni risorgimentali di Mastro Bruno, capo di una maestranza della pietra il quale esercitava anche una attività tutoria, pedagogica, tecnica, etica sugli allievi del lavoro della pietra; le maestranze serresi vivevano socialmente in modo comunale finché, con l’economia dell’Italia unita, non vennero gettate a terra dalla concorrenza, dalle tasse e dall’aumento dei prezzi. Mastro Bruno assiste al fenomeno economico della dissoluzione degli artigiani e nei suoi versi porta la protesta degli impoveriti artigiani che diventano miseri tra i miseri braccianti e i senza lavoro. Da qui la protesta rude e vigorosa contro gli approfittatori paesani, locali, preti e usurai, che detengono la ricchezza mobiliare e immobiliare e contro chi, in alto, non avrebbe dovuto consentire gli sfruttamenti: sovrano e divinità. Ma sovrano e divinità avevano una loro sacralità che per l’assolutezza non poteva non essere oggetto di fede e speranza per l’umile scalpellino il quale si rivolge al potere-giustizia che si dimostra ingiusto. Il calabrese, dirà Alvaro,

tiene al sommo del suo carattere il senso del diritto e del torto […] Guardate i suoi campioni: Gioacchino da Fiore, Francesco da Paola, Tommaso Campanella; non trovate che torri di giustizia e castelli di utopia […] il calabrese s’innamora come pochi delle grandi idee e delle idee universali […] Per lui chi comanda ha diritto di comandare e il comando è una funzione indiscutibile […] il potere non è per lui altro che sostanzialmente giusto, e le ingiustizie che ne possono derivare dipendono da chi amministra questo potere. Poiché ha un senso primitivo della giustizia, per cui nei vecchi tempi si eresse a brigante giustiziere, egli diffida degli esecutori del potere, mentre colloca il potere nella dimensione più alta e inattaccabile;

i grandi impersonano «la missione dell’uomo nel viaggio verso la giustizia, l’ordine, la gerarchia, e l’universo considerato come una sola famiglia» per la «inconscia vocazione verso le cose alte e nobili». Le distanze dei luoghi tra essi erano insuperabili e ciò, scrive Alvaro, spiega il carattere dei calabresi «primitivo e raffinato, patriarcale e avventuroso, suscettibile di ogni perfezionamento, di ogni slancio verso l’inconoscibile e il cielo, come spiega le feroci passioni e insieme il discettare più filosofico e cavilloso, e la loro antica tradizione monacale». Mastro Bruno ebbe aspetti di questa psicologia nei confronti dell’autorità. Egli si rivolge liberamente a re Umberto protestando e borbottando insieme; il re è padre ma padre dimentico e canzonatore sicché deve essere richiamato in tutti i toni:

Taliani cu la cuda
ndi carculasti a nui,
ma tu sì duru cchiui
di ’ncu macignu!
Mo chi cazzu mi mpignu
mu pagu la fundiatia,
si la casa mia pari ’nu spitali? […]
Basta… simu Taliani!
– gridamma lu Sissanta –
e mo’ avogghia mu canta
la cicala!
La fami cu’ la pala
si pigghia e cu’ la zzappa
cu è giuvini si la scappa
a Novajorca […]
Ma tu ti ndi strafutti
li deputati cchiui:
duvi ncappamma nui,
povara genti!

Non avendo ottenuto risposta dal re Mastro Bruno si rivolge al Padreterno per dirgli che occorre un immediato giudizio universale per sterminare i ladri e coloro che approfittano della miseria. Anche in questi versi il tono è biblico-popolano:

Si Tu vuoi mu mbumbardi
non vuoi l’artiglieria…
Ma dici: – «Chistu sia!» –
ed è tuttu fattu […]
cchiù ca simu futtuti
essari non putiemu
fussarmenu m’aviemu
pani asciuttu.
Li priviti hannu tuttu…
e china è la dispenza.
Li ricchi vannu a menza
e nui ’nu cazzu!

Alla massima potenza celeste chiede un funerale

di Papa, cardinali,
arrè ed imperaturi:
tutti sti supiriuri
cchiù putenti.
E poi a tutti l’aggenti
cchiù ricchi ed avaruni
vrùscianci li cugghiuni
e li dinari […]
Jio chi ti dicu cchiui?
a nui ndi scuorticaru:
li previti, l’avara
e lu guviernu.
Ti ndi mandi allu mpiernu,
ndi fai st’atru piaciri
nd’arrusti cuomu agghiri
alla gravigghia!

Nel Canto disperato Mastro Bruno espone al padreterno i motivi per cui i re d’Italia non gli hanno risposto e la condizione di ingiustizia che c’è in Italia; il discorso è protesta, rimprovero, augurio di apocalisse che distrugga i sopraffattori e crei una vita migliore con uomini migliori. Deterioramento dell’umanità per opera degli avari, offesa ai poveri da parte dei ricchi, annullamento della fratellanza sono denunziati dallo scalpellino:

Lu mutivu pi cui non rispundiru
fu sulu ca circai lavuru e pani […]
La fratillanza ndi la riduciru
mu ndi sbranamu cuomu tanti cani:
cca cu’ s’acciappa l’uossu e si lu spruppa
e cu mora di fami e si strafutta […]

Se il Padreterno sovrapponesse i mari sulle terre

si ndi jirìenu ’n fumu li dinari
di l’avara c’affuca dispiratu:
chi non nei spiacia tantu di la vita
pi quantu ca si pirda la munita […]

Il poeta individua la falsa religione degli italiani i quali frequentano la chiesa e il prete per avere l’assoluzione: «Puoi d’arrietu si vota e lu saluta; | eccu sarvata l’anima futtuta!».

Nella sanguigna poesia di protesta di Bruno c’è una agonistica ribellione contro la divinità non provvidente e condannante, metafora dell’ingiustizia sociale e umana:

Fai pi mu ndi dannamu di ghiestimi
e sparti puoi lu mpiernu ndi pripari?…
Duoppu patimu tantu puoi nd’arrusti
e T’avanti ca fai li cuosi giusti?

Il «mastru» abituato a considerare la durezza della materia da lavorare, dopo avere indicato la materia sporca, acida e spinosa di cui sono fatti gli avari, interroga la divinità intorno alla materia con cui sono stati fatti gli operai destinati a lottare con gli avari:

Quali materia forti nci dunasti
pi mu cumbatta cu tutti li vienti?
Addutta cu l’avari e l’egoisti
ch’hannu di la turtura li strumenti;
lavura e pi sti boja, suda e stenta
e mancu si pò gurdari di pulenta! […]
a cu’ dunasti tuttu ed a cu’ nenti.
Lu mundu è miegghiu nuovu mu lu fai
ca chistu è truppu fattu malamenti […]
e mina ’na fiffhiàta a chistu fattu […]

Nel cosentino Vittorio De Marco (in arte Crautu Cervinu) (18591922), padre di Michele (il noto Ciardullo) e Pietro De Marco esprimono la delusione storica postrisorgimentale. Quando Vittorio nacque il padre

Vittorio Manuele me chiamau,
lu fice ppe l’amure chi purtava
a stu gappu cuvernu, e lla sgarrava.
La sgarrarli cu illu tutti quanri
e liu grancia fullune lu pigliaru […]

Pietro De Marco fin dal 1870 esprimeva la stessa delusione:

Ma jemme mmanu a galioti brutti,
chi nne spurparu l’ossa arrasusia,
passamme de lu cancaru alla pesta,
e nne cunzamme propriu ppe lla festa.
O Carrubardu mio, echi nne serviu,
tutta la gapparia, tuttu l’ardure […]

Salvatore Scervini (1847-1925), perito agronomo, fu conoscitore della cultura contadina fonte delle sue poesie in dialetto. Lo Scervini, acrese, fu molto versatile e coltivò studi disparati nonché le scienze esatte. Fu contemporaneo dei maggiori intellettuali acresi, di Vincenzo Julia che fece proprie le idee democratiche della Sinistra e il programma socialista del 1882 fondato sui propositi di giustizia sociale e che venne firmato da Raffaele Falcone che aveva perduto un fratello a Sapri.

Scervini scrisse due commedie in versi (L’avucatu Rapisarsa e I diavuli supra a terra e San Franciscu), le Favule di Jugale, un volume di versi uscito postumo (Suspiri e risate), un vocabolario calabrese-italiano, tradusse in dialetto la Divina Commedia, L’Apocalisse, le Satire di Orazio, il Cantico dei cantici. Nella raccolta di versi esprime affetti interiori e motivi sociali. Ecco la prosopopea fiera del calabrese del tempo:

De Cristu abbandunatu,
de li Borboni sutta li staffili,
de prie viti ’ngannatu,
sacrificatu e monaci crudili,
de judici frarabutti,
mustru la frunta coraggiusa a tutti […]
Iu nun tegnu gulìu
de rrobba o donna d’autri o de parienti:
si pussiedu nu panu
mi lu spartu ccu tutti, e sia nu canu […]
L’onestà mi piaci;
de tradimientu nun fazzu pensieru […]
Sugnu feroci all’odio ed all’amuru;
iu de nullu mi curu!
Iu fazzu nu ribiellu
nun tiegnu ngruppa si sugnu ’nquetatu;
ca tiru lu curtiellu
e, si a chill’attu nun muoru ammazzatu,
cchiù nun mi curu de madonni e santi,
mori chi viju davanti!
Lu coru mia è nu scuogliu
chi fa frunta alla maru tiempestusu […]
S’amu na giuvanella
nisciunu nfaccia la divi guardari […]
Iu nun l’ammazzu, ma lu scurciu, u fràngiu:
nvivienzia mi lu mangiu! […]
La minnitta m’è dduci;
iu nun perdùgnu mai lu miu nimicu […]

La prosopopea è così eccessiva da parere una caricatura per le immagini iperboliche. Il carcerato a vita impreca contro la terra ingrata

(Spàccati, ohi terrangrata, nulla via
resta dunqua a n’affrittu carceratu?
[…] Oh cunsigliu de Ddiu, sì duru tantu,
chi nun t’ammolla sufferenza o chiantu?)

ed ha solo la speranza di morire e cercare pace fra le stelle:

Pulita l’arma mia cchiù dde na perna [perla]
cumu palumma ppe ll’aria vulari
e supra, supra, vattiennu li scilli,
circari lu ripuosu intra li stilli!

Il brigante per vendetta si presenta così:

Intra li sìrbii scuri è Ila mia tana […]
Passu de vuoschi a vuoschi prestamenti,
sugnu lu spirtu ’e tutti li campagni! […]
Arrassu, arrassu, nnè santi nnè Ddiu
a minnitta mi caccianu e du piettu;
figna ch’i cuorbi de lu cuorpu miu
ppe lli perrupi nun fanu banchiettu.

Non mancano componimenti faceti, dialoghi tra il nullatenente e il burocrate (che parla in italiano) il quale esige la tassa di successione dei beni (cioè una tangente su un bene inesistente); c’è una supplica al papa di una badessa la quale chiede «puru a nnua fimmini la missa» per potere confessare «na mandra de santi zitelli» che sono costrette a confessarsi con pretacci curiosi e pruriginosi. Interessante e un componimento in ottave sugli angeli innamorati, tema derivante dalla poesia inglese e tedesca, divenuto popolare sulla base romantica della donna onnipotente (Iddio stesso grida: «Donna, chhi ssì? | […] Tu ecu nnu guardu, e nnu risu d’amaru | fai cielu e terra senza coru jiri»); gli angeli si innamorano di una adolescente (il personaggio femminile paduliano), Iddio «fa nnu portusu ncielu, guarda e vidi | l’angiuli de na donna ’ncatinati» e manda tempeste di grandine tuoni contro le creature che «si su scordati de lu paravisu» per guardare «chillu biellu visu» di donna (l’Orco di Padula è lo specimen del motivo). La cultura di Scervini era composita in senso popolare: egli conosce i classici, li traduce, grandiosità, terribilità, magnificenza vivono in lui su uno sfondo di giustizia, la religione è religione di giustizia. La traduzione della Divina Commedia rappresenta l’avvicinamento di un grande poeta a un pubblico non colto in un particolare momento, quello dello sviluppo della borghesia e dell’anabasi del dialetto in contrapposizione all’italianizzazione della cultura.

L’opera di Dante appare allo Scervini una perentoria affermazione di umanità vigorosa, di lotta per la giustizia. Il pittoresco, l’iperbolico adoperati da Scervini nella traduzione servono per fare risaltare l’elemento popolarmente universale dell’opera, al popolo al quale si rivolge il traduttore vuole suscitare sbalordimento e meraviglia nell’esaltare la verità e la drammaticità: «Capusutta cadìu: chiù non ascetti» si dice di Cavalcanti, «vucca fetusa, scancarata e storta» è Minosse, «fozi puttana» è definita Semiramide, «l’amuri nni purtatti alla tunnara» dice Francesca che aggiunge: «Jettai lu libai, e ci nni diezi cientu» (baci); Dante «cadivi nterra cum n’ammazzatu». Il testo è fedele, non ci sono travisamenti di senso né scorciatoie per schivare i passi difficili sicché la traduzione ha una ineccepibile onestà divulgativa, una pedagogia sorretta da un impegno civile che allontana il mostruoso e il disumano. La traduzione è un serbatoio del bel dialetto cosentino della seconda metà del secolo scorso, arguto, civile, che rispecchia una società di costumanza rara; tale serbatoio è più prezioso di quello di un vocabolario perché il traduttore lo estrae dall’uso parlato, lo modella dalle radici della colta Acri post-risorgimentale ma anche dell’Acri popolare e laica; il forte laicismo di Scervini si nota anche nei suoi racconti di Jugale.

Nel 1979 Giuseppe Abbruzzo ha curato l’edizione di ’Umunnu di Scervini; sono versi dialettali in cui è accentuato il contenuto sociale del dominio del padrone in tutti i campi in cui questi esercita il potere:

Ma sempri chini serbi ’nu patrùnu,
vacanti halu sportùnu! […]
Pua s’affràncica tuttu lu patrùnu,
mustrannu lu librùnu! […]
Nun si mangia chillu chi serbi patrùnu,
né pipi, né milùnu! […]
S’ìnchinu li suffitti d’ ’i patrùni,
’i turrieri, dijùni! […]
cà Diu nun ha criatu
pùorci ppe’ chillu chi serbi patrùni,
ma Tàglia e li cardùni! […]
Ppe’ li signuri carna e maccarrùni:
l’àutri stànu dijùni! […]
Tutti chilli chi sièrbinu patrùni,
vànu all’arrozzulùni!

Sono versi del 1884 e precedono di molto quelli famosi del Creazzo (del 1927) Lu zappaturi fondati sul contrasto di classe fra padrone e contadino e risonanti delle stesse rime cupe: «Ma si lu mangia lu me patrùni… | Io pani nigru… | ca su cafuni!». Anche nel componimento ’U guadanu (Il bifolco) c’è la chiara presa di coscienza della condizione materiale del contadino:

Nun ha pani chi lu fa […]
Pisu li gregni e ventulìu la paglia;
ma lu guadagnu ccu’ lu vientu squaglia […]
E vaju pasciennu ppe’ sparu e ppe’ ’mparu
comu ’na varchicella intra lu maru […]
Tiegnu ppe’ liettu la terra e lu jèlu
e ppe’ cuverti li nuvi e lu cielu […]
Ma, ppe’ Cristu, ’ncuna vota
fazzu all’àutri lacrimari:
la furtuna gira e rota,
versu ’e mia si po’ votari!
Tannu ti circu, oh sciorta malandrina,
sangu, ppe’ chillu Diu, sangu a lavina!!!

La cultura dialettale locale di Scervini rispondeva alle effettive disponibilità delle risorse; erano quelle ricordate dal poeta che aveva acquistato consapevolezza delle forze sociali e fisiche esistenti. Egli traduce Dante per distribuire utilmente – così spera – una maggiore conoscenza di fatti e di vita morale allorché ci si accorge, nel confronto delle forze regionali (confronto che Croce chiama – come se egli non vivesse a Napoli! – «grande conversazione») confluite nella vita della nazione, della condizione umiliata e retrograda in cui si trovava la Calabria. Altri calabresi si erano provati a tradurre Dante: Luigi Galiucci di Aprigliano aveva tradotto (1847) due canti dell’Inferno, sei canti dell’Inferno tradusse Vincenzo Gallo di Rogliano, tutto il Paradiso tradusse (1874) Francesco Li Marzi di Marzi, il primo canto dell’Inferno tradusse (1881) il cosentino Francesco Toscani, il canto venticinque dell’Inferno tradusse (1894) Paolo Scaglione, nel nostro secolo una traduzione dell’intero poema è stata compiuta (ma non è mai stata pubblicata) da Giuseppe Blasi di Beliamone (1881-1954) nel dialetto di Laureana di Borrello. La traduzione di Scervini (compiuta tra il 1889 e il 1893, pubblicata da Franco Scervini con presentazione di A. Piromalli nel 1988) è quella che maggiormente riflette gli ideali di verità morale e popolare del suo autore.


2. Vincenzo Ammirà

Personaggio popolare fu nella Monteleone della prima e della seconda metà dell’Ottocento Vincenzo Ammirà (1821-1898), appartenente a quella generazione di patrioti (ecclesiastici come Vincenzo Padula, Antonio Martino o popolani, artigiani) che sperarono e lottarono per una patria unita e più giusta e patirono scacchi e delusioni.

A Monteleone fu alla scuola di Raffaele Buccarelli, liberale, alla quale furono anche Francesco Fiorentino, Ottavio Ortona, Diomede Marvasi, Francesco Protetti. Fu anche una scuola di patriottismo. La cultura monteleonese era, però, sotto la cappa di un classicismo che, se trasfondeva qualche motivo illuministico e plutarchiano, soggiaceva al principio della pretta imitazione delle forme e della loro perpetuazione in modo statico. Quel classicismo servile aduggiò i versi in lingua italiana di Ammirà il quale si espresse originalmente quando scrisse in dialetto sia per l’attitudine a cogliere il grottesco e l’iperbole sia per la capacità di rappresentazione sciolta e organica che supera il semplice raccontare o esporre di altri mediocri dialettali.

La Ceceide sarebbe nata per l’invito rivolto ad Ammirà dal suo antico amico Saverio Costanzo a celebrare l’anniversario della morte di Cecia e la prima parte del poemetto polimetro venne scritta nel corpo di guardia dei «nazionali» la notte del 4 marzo 1848. Il poemetto ebbe immediatamente vasta popolarità ma i benpensanti monteleonesi si adoperarono per gettare sull’autore una cattiva luce morale.

Nel 1854 l’Ammirà fu incarcerato perché durante una perquisizione domestica venne trovato in possesso di una copia del Decamerone di Boccaccio e di un manoscritto della Ceceide («scritto di canzone contraria al buon costume»): fu condannato a due mesi di esilio correzionale, alla perdita del libro e del manoscritto, alla multa di venti ducati «a pro’ del Real Tesoro» e alle spese di giudizio. In appello, a Catanzaro, la pena gli fu ridotta alla multa e alla condanna alle nuove spese di giudizio.

Dopo essere stato arrestato per la Ceceide Ammirà fu arrestato ancora nel 1858 per sospetti politici. Dopo l’unità fu scartato nel concorso per una cattedra nel ginnasio liceo di Monteleone a causa del processo subito dai Borbonici. Così il rivoluzionario del 1848, colui che nel 1860 aveva seguito Garibaldi a Soveria Mannelli, veniva dipinto dagli stessi liberali come uomo corrotto e corruttore: rimase fuori di ogni sorta di professione e di attività viva e militante, insegnò privatamente e dal 1866 al 1868 lavorò quale commesso nel Dazio. Nei versi Un commesso del dazio consumo egli rappresentò la propria triste condizione di uomo deluso:

ed il caduto giorno ripenso,
qual la fatica, quale il compenso,
ed esclamando la pipa allumo:
oh maledetto dazio consumo!

Ammirà era nato l’anno in cui venne giustiziato il suo conterraneo Michele Morelli, la sua giovinezza si era svolta tra studi umanistici (centro di classicismo era Monteleone), speranze di libertà e di giustizia sociale.

Vincenzo Ammirà fu visto soprattutto come «l’anima dei crocchi e delle brigate riderecce monteleonesi» e come autore di versi lubrichi ed Eugenio Scalfari lo descrisse quasi come una macchietta. In realtà egli si servì del verso per satireggiare diversi concittadini e questa sua tendenza gli procurò inimicizie e lotte personali.

Giuseppe Falcone ricorda una farsa di Ammirà rimasta inedita perché colpiva dei concittadini «con fine satira» e li sferzava a sangue «per talune loro debolezze niente lodevoli». Del resto il poeta consumò la sua vita in strettezze perché era di carattere indipendente e incapace di adulare. Quando pubblicò in lingua le Poesie giovanili (Monteleone 1861) (dedicate a Francesco Pasquale Cordopatri «che in tempi durissimi sotto principe abbominato a fronte alta propugnò la sublime causa del risorgimento e indipendenza della Patria») annotò per il lettore che aveva scritto quei versi (in cui si nota lo sforzo e la convenzionalità)

per dimostrare che gli anni della nuova età mia non volsero unicamente fra il laido vernacolo, per come osò tante volte profferire qualch’essere maligno e invidioso, il quale su d’un passato nero ed infamato si riposa, e d’un presente senza pudore, e senza colore tuttavolta si pasce.

Ammirà scrisse anche dei versi licenziosi che sono artisticamente trascurabili ma la sua personalità è quella di un uomo e di un artista civilmente impegnato, pronto a contrapporsi alle storture sociali e morali, ad esprimersi liberamente. La Ceceide è una creazione originale che rappresenta una sua scelta di contenuto, di ideazione e di espressione, antitetica alla celebrazione della «donna di virtù» di letteraria memoria.

La fama e la fortuna di Ammirà hanno avuto basi soprattutto sulla divulgazione della Ceceide (che pare anche De Sanctis conoscesse), da pochissimi letta nella sua interezza, da molti citata e ricordata per due o tre punti grotteschi o espressionistici, da molti altri che non la conoscevano travisata e travestita. Nicola Misasi scrisse (1895) che se l’operetta «è il capolavoro che dovrà dar fama immortale all’autore defunto, era destinato a far morire di fame l’autore vivente» e ricordava che per la Ceceide Ammirà non ebbe la cattedra a Monteleone, che l’opera era stata scomunicata dal vescovo. Per il Misasi l’opera «nella sua oscenissima genialità risente troppo della classica e insieme della romantica letteratura» in quanto poesia letteraria (addirittura aristocratica, nella sua plebea oscenità, «nei metri, nelle reminiscenze, nel gusto, nell’organismo, insomma nella fattura») e non popolare. Nella seconda parte del Vocabolario del dialetto calabrese (1897) Luigi Accattatis, che deplora le poesie lubriche di Ammirà, vede la Ceceide come un capolavoro. Durante il periodo del fascismo venne formato un comitato a Vibo Valentia per tributare onoranze ad Ammirà e per apporre una lapide sulla casa dove era nato il poeta; la proposta di una pubblica commemorazione, però, cadde per l’opposizione di coloro che ancora riprovavano lo scrittore «pornografico». Bruno Giordano in quell’occasione scrisse («Il Mattino», 18 maggio 1929) che l’Ammirà aveva valore per le sue liriche e non per le occasionali poesie pornografiche. Anche il Galati (che considerò «lubrico poema», «lavoro osceno» la Ceceide) nella sua monografia su Ammirà (Firenze 1930) intese rivalutare il poeta dialettale, al di fuori dell’oscenità, anteponendolo, di gran lunga, al verseggiatore in lingua.

La Ceceide è un poemetto in tre parti, in dialetto monteleonese, che Ammirà scrisse quando aveva ventisette anni, nel 1848. Il poemetto è stato abbastanza divulgato tra i popolani e tra le persone colte: il Settembrini lo apprezzò come lavoro artistico, il Galati che scriveva intorno al 1926 (ma si era occupato di Ammirà fin dal 1912) ricorda di averlo ascoltato recitare da un contadino al quale il poeta aveva promesso di dargli il suo mantello se lo avesse recitato senza sbagli di memoria. La divulgazione avveniva per copie manoscritte e l’opera è rimasta fino al 1975 inedita forse per la fama di lubrica che l’ha sempre accompagnata, fin da quando Ammirà fu accusato di avere scritto «cose contro il buon costume».

Se nella poesia in lingua Ammirà ha la mutria della serietà letteraria in quanto cerca di innalzarsi al livello aulico della tradizione letteraria classicheggiante, nel personaggio di Cecia il poeta versa il tono espressionistico che è una nota della sua maniera dialettale. Il contenuto del poemetto è così sintetizzato, molto sommariamente da Eugenio Scalfari:

Cecia era un’etera venuta di Tropea in Monteleone. Quivi le donne, appartengano al popolo o alla signoria, sono assai belle, e di là era venuta lei che era bellissima ed era vissuta amando e facendosi amare pei suoi vezzi finché le veneri del corpo si son mantenute vive; da vecchia fu paraninfa d’amore, e moribonda fece, come dice il poeta, il suo testamento, nel quale lasciò, presente un notaio, a questo e a quello, compreso lo stesso notaio e il gran filosofo Galluppi, suo concittadino ed amatore, secondo lei, le varie parti del suo corpo, producendo, con le sue equivoche largizioni, il più schietto sorriso, misto di voluttà e di oscenità.

In realtà nel poemetto non si dice che Cecia lasci al notaio o a Galluppi parti del suo corpo. Pasquale Galluppi, anch’egli di Tropea, era morto nel 1846, due anni prima che Ammirà scrivesse il suo componimento nel quale è raffigurato come un innamorato e frequentatore assiduo (insieme con «la sua filosofia») di Cecia. Il territorio delle imprese di Cecia è quello compreso fra Tropea e Monteleone ma la cortigiana è conosciuta in tutta la Calabria e anche in Sicilia, come si dice nei versi per l’anniversario della morte.

Cecia è una superba Venere pandemia di campagne, villaggi, paesi, cittadine, una istituzione libertaria antitetica alla donna «di virtù» («loda di Dio vera», donna-angelo, beatrice nel nome della Vergine), alla donna platonica, a quella dell’isottismo cortigiano dell’umanesimo e della tradizione aulica e poi borghese dell’angelo della famiglia e del focolare. Ma Cecia, con la sua esuberanza e generosità sensuale, con la sua fantasia coitale e la sua massima testamentaria («lu futtari perdeu non n’è peccatu») rappresenta l’antitesi del misogino anatema dei Padri medievali («Si Christum queris, vultum fuge mulieris»), «Qui sapiens vult fieri, non credat mulieri», «Dum femina plorat decipere laborat») e dei loro continuatori contro la donna vista come sentina di vizio, «imago diabuli» (ancora Enea Silvio Piccolomini la descriveva «juventutis epilatrix, virorum, senum mors, patrimoniorun devoratrix, honoris pernicies, pabulum diaboli, janua mortis, inferni supplementum»). All’estetismo della tomba maestosa nel Tempio malatestiano in funzione celebrativa dell’isottismo e della donna del signore, al trionfo della fama di virtù castellana o cortigiana o della verginità il poeta dialettale calabrese contrappone il trionfo della fama della «buttana guerra» miriadica di Cecia, ineguagliabile, perfino agonistica nella ricerca di impareggiabilità, di primato: il trionfo della fama di Cecia è parodisticamente istituzionalizzato con i premi assegnati a Cecia viva (medaglie, patenti di valore) e che fanno della donna una specie di idolo e quelli collocati sulla sua tomba dai maestri scalpellini («labbra di fissi, capocchi tagghiati» ecc.). L’arte di Cecia e gli strumenti dell’arte entrano nella originale concezione di testamento-morte di Cecia-anniversario, la stessa effigie della donna diventa strumento di esaltazione erotica: non più peccato, non più condannato, il coito è una funzione naturale, ludico-fisiologico-fantastica. Nella sua parenesi coitale generale Cecia perdona e assolve anche coloro che la frodarono o non poterono ricompensarla; dopo la donazione delle parti del corpo eroticamente desiderabili il perdono segna il passaggio come nei canoni di un’operetta di edificazione alla morte, ai funerali solenni, alla celebrazione, ai festeggiamenti con inviti di molte persone.

La seconda parte è come un lungo coro che, inglobando i motivi locali liturgico-popolari, commenta il dolore generale. In questa parte c’è anche l’appello alla immaginazione come modo di intervento sugli elementi oggettivi, smascherando le contraddizioni e proiettandole in una luce di ironia contestativa. C’è l’assorbimento della tradizione: donne che si strappano i vestiti e si graffiano le guance, trecento prefiche di Pizzo chiamate per il concerto rituale del dolore, allestimento di un tusellu come quello che si usa per i santi, la meretrice coronata di fiori e di foglie, rivestita di oro, con le guance dipinte, il corpo di lei che viene apparecchiato come per l’imbalsamazione, per durare incorrotto nel tempo, il baldacchino coperto di damaschi e sul quale scendono veli, circondato da luci di candele, l’esaltazione della morta e delle sue imprese erotiche, la sua ineguagliabilità. L’elemento tradizionale a un certo punto (dopo che è stata cantata la fama della meretrice amata anche dal barone e filosofo Pasquale Galluppi e la gloria meretricia è assimilata a quella verginale) è oltrepassato dall’immaginazione che serve a contraddire provocatoriamente i canoni del buon senso comune e piccolo-borghese: ormai Cecia scompare dagli occhi di tutti, si leva verso l’alto, con la vulva fumigante, su una nuvola di membri virili, con un’ascensione che non troviamo in alcuna letteratura europea e che è la parodia delle edificanti ascensioni dello stilnovismo e delle iconografie popolari. Alla sparizione-ascensione di Cecia succede il miracoloso apparecchiamento di una tavolata con centinaia di persone intorno e un grande rumore festoso come in una fiera e che improvvisamente si acqueta. Cecia ritorna, tutti piangono di gioia, la baciano, l’abbracciano, cantano e suonano fino alla scomparsa finale della meretrice la quale post mortem parla per canzonare, con una ineguagliabile metafora ludico-oscena che non ha riscontro in altri esempi di letteratura giocosa o parodistica.

Come per un richiamo ancestrale Cecia è esaltata ancora, nell’anniversario, come simbolo di liberazione singola e collettiva nella terza parte. Eros naturale è antitabù, liberazione dal soffocamento di credenze restrittive. Con l’esaltazione si rimuovono divieti stratificati, l’archetipo mistico e idealistico della donna intangibile è rimosso da Cecia morta che motteggia e canzona. Qui tutti piangono la «buttana» e la «arroffiana», paesani, forestieri, laici, religiosi. Uniti nel dolore rendono pubblica confessione erotica ringraziando la meretrice-iniziatrice, maestra, salvatrice, la quale ha consentito a ciascuno modi particolari di espressioni erotiche e di rimozioni, tecniche erotiche spregiudicate.

L’ambiente in cui visse Ammirà è così caratterizzato dal Galati nella sua monografia sul poeta (pp. 52-53):

La vita del poeta si svolge in un ambiente montelionese, dove la cornice cittadina ha più spiccato rilievo dall’afflusso dei prossimi villici, e specialmente, nelle domeniche di mercato, dalle fiorenti giovani contadine; ma già nella cittadina stessa il popolo vive la sua vita, che tende a imitar quella borghese, e tuttavia, per buona fortuna, conserva la sua spontaneità rumorosa, goffa e insieme gentile, a cui, se ben guardiamo, sente d’appartenere anche l’Ammirà.

Concordiamo con questa ultima affermazione ma spogliandola di quel tanto di folklorico (la spontaneità rumorosa, goffa e gentile) e precisandola nel senso che Ammirà interpreta il mondo della campagna (non in quanto dalla campagna si reca in città), mondo popolare, collocandosi dentro di esso, non sentendosi diverso e perciò non avvertendo come osceno il linguaggio che è naturale. È la persona borghese che parla di oscenità.

Pur con tale precisazione (per la quale si intendono i diversi livelli di condanna, più o meno violenta, dell’opera: magistratura e polizia borbonica, vescovo, persone borghesi, scuola, burocrazia della scuola e persone pseudoliberali) le ambiguità e le contraddizioni del poemetto rimangono: Cecia, tanto esaltata, non è contro i gruppi sociali che hanno prodotto la sua degradazione; l’esaltazione del poeta rischia di confondersi con la matrice borghese dello sfruttamento della donna. Ma anche per questo, converrà richiamarsi alla reputazione che una meretrice poteva avere in un mondo arcaico-contadino, ai riflessi di tale considerazione-accettazione che passavano nella sfera borghese: alla luce di questa considerazione si smorza in Cecia ogni avversione contro le persone nobili e i magnati, le radici sociali dell’emarginazione di Cecia. Ma lo stesso sistema patriarcale negava – col posto che assegnava alla donna – la natura stessa della sensibilità femminile. Cecia con la sua personalità sensuale e con il suo modo di agire acquista un ruolo e può dettare legge; iperbolizzate sono le qualità della donna dopo la morte (beja, cara, amata, cosazza, ammirabili, celabri, mastra, gra Signora, bandera, virgini, ecc.: una vera e propria litania) da folle di donne e di uomini che costituiscono una caratteristica dell’opera: la fedeltà delle aree sociali rurali al rituale.

La seconda parte dell’operetta è la più vivace per quel muoversi di persone (vijufìmmani, oh spaventu! | chi si sciuppanu li pinni; cu ti cu ti; vi tricentu Pizzitani; nc’è nc’esti; Rosa poi veni poi; Sugnu tanti chi no sacciu /jeu né nuju mu li cuntu | […] cchiii ndi veni, cchiù ndi spunta?; Previti no restaru a Piiscopìu; finca Vabbati; Vaggenti tutta quanta vaci a lava; cchiù di setticentu /fimmani; Cui dicia e cui… ecc.) che si graffiano il viso, che accendono candele, che cantano le lodi e celebrano le arti della meretrice, che suonano il tamburo, che la baciano, l’abbracciano, che gettano incenso nel fuoco, che seguono le altre persone pulendosi il naso o la bava, una folla di miseri, esaltata, meravigliata, adirata, in questa sagra popolana in cui riconosce Cecia come sua espressione, come facente parte del suo spessore umano, come un valore una campionessa di libertà che Cecia ha saputo adoperare come ha voluto, pur nella sua degradazione. Ammirà intese la posizione centrale, il valore della posizione che la popolana Cecia ha conquistato col suo mestiere, il solo sbocco possibile in un mondo chiuso, ottuso, che con misure grottesco-iperboliche si esalta nella meretrice.

Per noi il poemetto non può restare relegato nell’ambito del genere letterario dialettale dell’osceno, in un milieu deterministico, neanche nella coscienza di un gusto giocoso comune e tradizionale, neanche nella semplice parodia letteraria intesa come divertente esercitazione. Respingiamo inoltre l’ipotesi di ritenere generico ciò che nel poemetto è individuale, di considerare lezione scolastica quella che è tecnica originale nonché, respingiamo, l’accusa di grossolanità, di oscenità, rivolta alla tecnica e alle immagini realistiche e il sequestro del lavoro di Ammirà in una zona di non poesia in cui la dicotomia dell’estetica dei crociani (ma il sequestro potrebbe essere compiuto anche da una pseudo-metodologia di una pseudo-sinistra puramente ideologizzante) potrebbe isolarlo e desolarlo. Il poemetto è, nelle sue strutture espressive, manifestazione di un tipo di cultura popolare che, per via dell’eros, consapevolmente si pone al di là della cultura aulica, ne stritola i presupposti ideologico-culturali, ne deride le finte dolciure idealistiche e convenzionali, afferma i propri valori umani e naturali. La ribellione erotica è il parallelo dell’impossibile rivolta sociale, diventa mezzo di liberazione dalle sovrastrutture letterarie del sistema tradizionale.

Perciò non parleremmo di genere letterario realistico-borghese, borghese popolare, di collegamenti di Cecia con Becchina di Angiolieri, con le cortigiane del Cinquecento, con la Santazza di Belli ecc., di riflessi letterari, di semipopolarità, quanto di espressione autentica di un mondo popolano e contadino della Calabria centrale, di un mondo rurale piccolo-paesano e pagano-cristiano che, rimuovendo stratificazioni di carattere sociale e culturale sovraimposte, si libera e si riconosce in un panismo sessuale terragno e carnale, forza vitale della natura, elemento essenziale di una esistenza non dotata di alcun privilegio ma anzi costretta e compressa: Cecia è anche grande metafora naturistica pansessuale, pangineceale, desiderio e rimpianto, richiamo potente e non osceno, perciò della natura umana. Cecia che sale al cielo e ne ridiscende è anche metafora di Gea e Urania, naturalisticamente intese, senza alcun velo di intellettualismo neoclassico. Con la Ceceide Vincenzo Ammirà si collegava al naturalismo magnogreco, a quella fusiV che il mondo contadino coglieva con istinto e con immediatezza nel compatto solco della propria sostanza, al di là delle sovrastrutture mistiche salvifiche e beatificanti.

Ammirà non si poteva rendere conto della scoperta né i lettori delle «beate rive» riuscivano a leggere senza falso pudore il poemetto che rimase relegato negli anfratti della memoria di qualche intellettuale borghese per qualche espressione icastica (e ricco ne è il lavoro) o falsamente ardita (perché interpretata solo allusivamente o in significato parziale): nessuno, infatti, prima del 1975, ha osato pubblicare questo gioiello d’arte così magmaticamente fuso con il chiuso mondo rurale della Calabria della metà del secolo scorso.

La reimmersione nel mondo della natura pagana non avviene con recuperi neoellenistici, barocchi o arcadici. La grazia è assente in questo mondo rurale: il solo riso esistente è il feroce cugghiuniari di Cecia post mortem a cui segue la sorda affermazione di strafottenza.

La metafora pangineceale quanto più assoluta quale è tanto più rende ragione di un mondo elementare di necessità e di impulsi, immobile, privo di conforti e speranze. Il poemetto esprime anche la desolata mancanza di comunicazione del mondo paesano e rurale, la riduzione all’isolamento a cui era stato costretto dal potere. Pure in questa condizione della quale partecipava il poeta l’opera è un grido di coraggio che sale da una profonda pietraia, da una parrera.

In una regione governata dai Borboni in modo autoritario e con un dirigismo culturale repressivo e sessuofobico (la regione da cui, quasi cinquant’anni prima, la reazione aveva spinto verso la capitale l’armata sanfedista al canto di «A lu suonu de li violini, | sempre morte a’ Giacobini!») la Ceceide scoppia nella fantasia di Ammirà nel 1848, l’anno delle rivoluzioni e delle speranze. Il desiderio di liberazione dai metodi repressivi della tirannide e dagli interdetti religiosi o di altra natura si esprime anche con l’eros ludico come lotta contro i tabù per riconquistare un equilibrio tra istinto e ragione. L’esaltazione di Cecia avviene attraverso un meccanismo di compensazione: sublimata, Cecia diventa un simbolo e la stessa scenografia che rovescia il significato del rituale religioso della beatificazione della virtù e della santità è un mezzo di identificazione con il simbolo liberatorio. Il sistema borbonico, con la censura morale che permetteva anche interventi di ordine politico, impediva la libertà di creazione e volgeva gli istinti, come diversi, dagli elementi che costituivano la piramide gerarchica, in direzione dei propri fini e dei propri programmi.

In ultima analisi i valori della violenza borbonica erano la salvaguardia del potere, dei privilegi, dei profitti; i mezzi di mantenimento del potere erano, nel campo della morale e dell’arte, la censura e gli arbitrari interventi con l’illusione di risolvere i problemi. La suggestione degli esempi rivoluzionari esercitata su un largo numero di persone giunge nel 1848 ad Ammirà il quale con la Ceceide si confronta contro la regressione nel campo erotico, richiede – ed è un fatto culturale – la sconfitta dei tabù e delle ipocrisie dei rapporti sessuali, mette in opera uno strumento critico e polemico. La sua opera era un atto di crescita culturale, contro la capacità di corruzione e di ipocrisia del sistema borbonico e dei gruppi egemonici periferici di quel sistema. Con maggiore consapevolezza nel 1861 Ammirà, nella citata dedica delle poesie in lingua, coglierà il legame tra indipendenza politica e libertà morale, tra servitù e ipocrisia. La Ceceide rappresentava, anche se forse inconsapevolmente, nel 1848, un’esortazione alla libertà e alla crescita umana; più consapevolmente nella sua chiarezza espressiva, ricca di sottintesi, tuttavia, e di sfumature, era un’opera democratica e che rappresentava una novità come avviamento al realismo: un frutto storicamente maturo del realismo romantico e insieme una eccezionale primizia dell’avviamento al concreto del secondo Ottocento.

Nel 1979 due inediti di Ammirà, da noi pubblicati, Ngagghia e Rivigliade, confermavano il carattere popolare e l’espressionismo popolaresco del poeta monteleonese. Il primo componimento è una faràgula che ha come elemento di base la beffa al marito sciocco compiuta dalla moglie Polisena; nella novella in versi Ammirà naturalizza l’eros e illumina le ambizioni di ceti emergenti e ceti decadenti, l’appoggio di mezzanerie e stregonerie di cui essi hanno bisogno, la beffa come conseguenza del matrimonio senza amore. Il secondo componimento, in versi, ha come protagonista Riviglia, compagna di Cecia, assurta nell’Olimpo delle benefattrici-beate nel trionfo della sessualità. La morte di Riviglia è accompagnata da fenomeni della natura (oscuramento del cielo, lampi, tuoni, nebbia), immenso è il pianto, la scenografia impudica (schiere di prostitute fra membri virili ascendono al cielo tra suoni e saluti meretrici) della nuvola immensa che ascende al cielo è la parodia della metafisica e dei platonismi; anche questo poemetto è radicato nell’ideologia naturalistica di un universo contadino che trova il suo compenso nel vitalismo sessuale perennemente vivo come le stagioni e le produzioni della terra.


3. Vincenzo Julia, fondatore della «letteratura calabrese»

Vincenzo Julia nacque ad Acri il 19 febbraio 1838 da Antonio e da M. Giuseppa Balsàno, sorella di Ferdinando (nato a Roggiano Gravina e ucciso a Cosenza nel 1869). I suoi genitori morirono nel 1870. Fu educato prima dal padre, nel 1848-49 fu allievo nell’Istituto Molinari di Acri, nel 1850 e ’51 studiò a Roggiano sotto la guida dello zio Ferdinando, nel 1852 e ’53 terminò gli studi di lettere nel seminario di S. Marco Argentano sotto la guida dello stesso zio. Nel 1851 compì gli studi nel seminario di Bisignano e gli fu maestro il latinista canonico acrese Francesco Saverio Benvenuto. Ritornato ad Acri, nel 1855-57 studiò diritto, nel novembre del 1857 continuò a Cosenza gli studi giuridici (che interruppe nel 1860) alla scuola di Luigi Focaracci. Dopo avere esercitato in Acri per tre anni l’avvocatura si diede all’insegnamento (1862-72) di lettere, filosofia, diritto, agli studi storico-letterari e alla poesia. Nel 1864 sposò Gabriella Fusari che morirà nel 1872 lasciandolo vedovo con quattro figli. Ad Acri morì il 4 maggio 1894.

Julia si venne formando dopo la delusione del ’48, nel decennio di preparazione durante il quale in Calabria si ridesta la speranza dell’unità nazionale. La sua attività letteraria in Acri fu quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura calabrese) e venne componendo anche i «versi montanari». Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità. Siamo negli anni in cui le regioni confluite nel nuovo Regno si confrontano tra di esse, mettono in rilievo la propria identità caratteristica come elemento della vita nazionale ma siamo anche negli anni in cui la tensione regionale deve essere misurata in relazione alla compagine statale. Lo Stato era stato creato dal punto di vista politico, economico, amministrativo, culturale tra molti compromessi con le vecchie classi dirigenti sicché le contraddizioni e le ingiustizie esplodevano soprattutto nelle regioni meridionali mentre nuove idee entravano dall’Europa. Il romanticismo si estingueva in mille manierismi, il positivismo scientifico era il nuovo sistema della società borghese, rivolto ad affermare i valori della scienza sempre progrediente, della tecnica, del socialismo che si districa dalle utopie. Dal sistema economico connesso con il positivismo la Calabria, regione prevalentemente rurale, si sente emarginata poiché forze conservatrici vecchie e nuove ne limitano lo sviluppo, ritardano la soluzione del problema della terra, non impiantano industrie, sviluppano il loro clientelismo politico che condanna le forze produttive all’inazione o alla soggezione: le rappresentanze politiche forniscono gli ascari al governo centrale. La cultura più avanzata guarda con simpatia agli ideali generati dal positivismo, quelli socialisti, repubblicani; l’individualismo caratteristico della regione isolata e di tradizioni utopistiche e messianiche rende vivi gli ideali anarchici. Eppure il disagio degli intellettuali (non solo di quelli periferici) era vivo perché durante gli anni della maturità di Julia si affaccia una generazione che ha ormai alle spalle il Risorgimento, vive la delusione storica del post-risorgimento, avverte la complessità della questione sociale (che in Calabria era soprattutto quella delle plebi rurali o artigiane poiché nella regione mancavano le grandi industrie che creavano il proletariato urbano), vede affacciarsi sulla scena sociale la donna che non è più la maliarda del romanticismo ma la persona la quale comincia a non accettare il ruolo assegnatole nella famiglia e nella società e chiede l’emancipazione. L’avvento delle macchine accresce il disagio degli intellettuali (soprattutto dei poeti) che temono la disumanizzazione della vita.

La generazione di Julia è stretta fra il tardo romanticismo e il verismo. Julia fu un poligrafo che nei vari generi letterari volle esprimere l’empito naturale del sentimento, la riflessione della ragione, preso da un’idea centrale: fare conoscere la cultura calabrese considerando la regione matrice di alcuni princìpi moderni fondamentali che costituivano un elemento (quello naturalistico) dell’idealismo hegeliano. Vide la necessità (d’accordo col De Sanctis) del realismo e del verismo ma ebbe sempre paura del materialismo e rimase lontano dal mondo moderno che spesso identificò col materialismo. Fu uno spiritualista di origine giobertiana (superò in parte tale origine), patriota laico e assertore del socialismo e combattè per l’emancipazione delle plebi (alle quali assegnò nobiltà populistiche). Non entrò nel sistema positivistico e cercò una unità ideale della propria cultura che rendeva la nazione partecipe dei beni e delle eredità della ragione calabrese. In quest’opera si avvicinano a lui De Sanctis, Padula e Francesco Fiorentino; ma è Julia l’iniziatore della storia della letteratura calabrese, impegno degli studiosi della nuova Italia.

Una parte della produzione di Julia è rivolta alla cultura di Acri e della provincia di Cosenza, ai calabresi illustri: la resistenza opposta da Acri nel 1462 all’assedio degli Aragonesi in cui eccelse Nicolò Clancioffo, pagine sul medico Marco Aurelio Severino di Tarsia, su Sertorio Quattromani, Tommaso Campanella, Gravina, F.S. Salfi, Vico e i letterati calabresi, Biagio Miraglia, Vincenzo Gallo, Battista Falcone, Francesco Fiorentino, Felice Tocco, Vincenzo Padula ecc. sono contributi a una storia della letteratura calabrese che non esisteva ancora e che, sulla scia delle idealità romantiche e della raggiunta Unità, veniva immaginata come contributo alla cultura nazionale di cui le regioni erano figlie. Gli studiosi positivisti nati, come Giosuè Carducci, nell’età del romanticismo si ripiegavano sugli studi regionali intorno agli ex-ducati o Stati per estrarre dagli archivi e dalle biblioteche i tesori sconosciuti che, dopo l’Unità, potevano venire alla luce a illustrare la patria comune e i suoi diversi organi. Julia non viveva a Napoli ma nella sua, pur ricca, minuscola biblioteca di Acri. Echi del grande dibattito culturale dell’età di Carducci e Verga gli giungono attraverso libri e giornali, qualche incontro con letterati, ma egli può partecipare perifericamente a quel dibattito. Nel 1882 era stato chiamato a insegnare letteratura italiana al Liceo «Telesio» di Cosenza ma la cura dei figli, dopo la morte della moglie, gli impedì di accettare la nomina.

Con questi limiti di ambiente e di studi Julia concorse validamente alla costituzione di una letteratura calabrese con studi di maggiore rilievo come l’Elogio di Pietro Giannone (1871) di Bisignano che egli vede come il creatore della novella poetica in Calabria esaminandone il poemetto Gli Incogniti (in cui sono esaminate la società calabrese che si emancipa dal feudalesimo e la protesta del popolo), la novella Lauretta («il dramma dell’amore che si conclude col sepolcro»). Quando morì lo zio Ferdinando Balsàno Julia gli dedicò un Discorso (1871) in cui vede il suo maestro come collaterale del metodo critico iniziato da De Sanctis. Del Balsàno il nipote pubblicherà nel 1879 uno studio inedito sulle dottrine filosofiche e civili di Gravina preceduto da un lavoro proprio sulla vita e le opere del giureconsulto calabrese (del quale scriverà ancora nel 1885 in occasione dell’inaugurazione in Roggiano di un busto marmoreo opera di Giuseppe Scerbo).

Nel 1892 appare uno studio di Julia su Vincenzo Monti poeta civile e laicale in cui è sottolineato il carattere antimistico e civile del romagnolo continuatore di Parini e Alfieri. Notevole è anche il saggio su Vincenzo Selvaggi (1888) in cui Julia collega la poesia calabrese da Galeazzo di Tarsia ai romantici soffermandosi anche sul dramma inedito Il barone di Vallescura. Inedito rimase il saggio su Vincenzo Padula (che apparirà nel 1981), personaggio del quale Julia ha esaminato nel 1893 la poesia lirica all’Accademia Cosentina (la lettura cosentina è stata premessa alle Poesie di Padula edite a Napoli nel 1893).

Francesco Fiorentino fu amico di Julia il quale scrisse più volte del filosofo di Sambiase la cui opera postuma Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento pubblicò sul «Telesio» di Cosenza diretto dallo stesso Julia e da Domenico Bianchi nel 1886-87. Regaldi e la Calabria, De Sanctis in Calabria (sulla dimora del critico nel 1849-50 a Cervicati e a Cosenza), Nicola Fabrizi, Battista Falcone sono temi di cultura calabrese (ma anche non calabrese). Altri temi notevoli furono quelli sulla letteratura civile come le pagine di Mazzini critico di Dante, di Foscolo, di Goethe, Hugo, Guerrazzi; ad essi bisogna aggiungere gli scritti su Alessandro Poerio, Cesare Correnti, Carlo Tedaldi Fores. In tali scritti si nota la sintonia di Julia con l’anima del Risorgimento, la sua religiosità laica, la consapevolezza che la filosofia calabrese è l’indispensabile viatico per una strada che porta alla filosofia moderna dell’Europa.

Il ritratto che Julia offre di sé vuole essere quello del bruzio rude e selvaggio, del poeta civile e patriottico e si richiama al maestro Balsàno e ai modelli Berchet, Giusti, Leopardi letti «in giorni di delirio e di entusiasmo». Altro poeta (più stinto perché tardo romantico) è il Prati delle romanze; molto importante, invece, è la conoscenza personale dell’acrese Giovanni Battista Falcone che sarebbe morto nella spedizione di Sapri e che Julia paragona ai martiri del 1799 e agli eroi di Plutarco. Il Falcone gli fa leggere Gioberti, Guerrazzi, Niccolini e lo rafforza «nell’odio contro gli oppressori ed i tiranni d’Italia». Dopo l’Unità d’Italia Julia si allontana dal «misticismo giobertiano» e si dedica agli studi critici (di filosofia, di storia, di letteratura) e alla poesia civile. La poesia è da lui sentita come «fede nel trionfo della democrazia e nella piena resurrezione del popolo», come prosecuzione di quella di Parini, Foscolo, Carducci e Cavallotti.

Nel 1884 Julia nel discorso Acri e la Società Operaia della Indipendenza lamenta le speranze deluse della popolazione di Acri dopo l’Unità: le plebi «spregiate e diseredate» devono emigrare in America, il popolo minuto «reggesi con gli scarsi avanzi dell’agricoltura, della pastorizia, e dei primi mestieri meccanici, mancandoci le mill’arti trasformatrici, che chiedono ogni dì maggior numero di braccia, ed i bisogni del lusso e del vivere agiato, che mettono in giro il danaro». La citazione, opportuna, è da Padula del 1874 e serve per giustificare la fondazione dell’Associazione Operaia sorta per agitare la questione demaniale sollevata nel ’48 da Vincenzo Sprovieri in un «lucido intervallo», da quello stesso Sprovieri (senatore, già sindaco deputato) che adesso cerca di sopprimere la Società Operaia perché si occupa del problema sociale di un popolo che «curvo sui solchi, bagnati di servo sudore, guarda cupo e feroce i prepotenti, li esecra, li maledice, e li condanna col suo verdetto inappellabile». Chi non comprende l’evoluzione democratica dei tempi correnti «è un fossile del passato, e non è degno dell’Avvenire».

La storicizzazione è elemento fondamentale per Julia che per questo motivo ci appare come il primo fondatore dello studio della letteratura calabrese in quanto in età di rinnovamento nazionale collegò la poesia sorta in Calabria con la società. Anche trattando di Vincenzo Selvaggi lo studioso è in polemica con la vecchia cultura perché senza polemica e superamento di precedenti punti di vista non c’è avanzamento negli studi e nelle idee. Selvaggi opera quando la Calabria rinasce a nuova vita e sorge il genere della novella, «epopea assottigliata, dove predomina l’uomo moderno, libero nella sua individualità e con la piena coscienza dei suoi diritti», nei primi due «ventenni» del secolo scorso la Calabria, in un momento in cui la fantasia era ancora «giovane e robusta», la novella rappresentò «la nuova coscienza calabrese»: l’anacoreta di Selvaggi, «reliquia del passato, vive tra i defunti […] sul nero sgabello della sua stanza solitaria posa un teschio bianco e logoro per gli anni, testimone di un lugubre dramma»; in altro personaggio, la donna amante non riamata, «la donna calabrese si rivela finalmente in tutta la sua selvaggia energia».

In Della poesia popolare (1868) Julia trentenne esprime, poco dopo l’Unità, la sua concezione romantica intorno al popolo che è l’«enigma eterno della Storia», perché il popolo

compie le rivoluzioni più solenni della civiltà […] i primi germi della Scienza sono creazioni delle plebi; il Feudalesimo e l’Impero caddero in frantumi sotto la mano della Democrazia; e la Francese Rivoluzione […] è monumento imperituro della popolare energia […] Fontana perenne di vita, il popolo ispira i più vasti sistemi di Filosofia; il Bramino dell’India, ed il Sapiente della Grecia, Pitagora e Socrate, interrogano le popolari tradizioni, e le convertono nelle più alte speculazioni […] Il popolo è l’eterno poeta […] sarebbe sacrilegio escludere dal convito delle lettere una poesia selvaggia sì, ma nobile; rozza, ma espressiva; disordinata, ma profonda.

Julia vedeva due mondi combattere l’uno contro l’altro in quel momento storico: «il mondo superstite del Medio Evo, ed il giovine mondo della libertà, l’uno che consacra la tirannia, l’altro che bandisce la emancipazione; l’uno che incatena la ragione a piè dell’altare, l’altro che reclama i diritti della ragione». Era l’alba del socialismo e Julia vede tutte le antitesi storiche fra il vecchio e il nuovo quando lo sviluppo creava, insieme con gli strumenti di libertà, quelli del nuovo asservimento ed era chiaramente schierato con il progresso sociale e civile. Vedeva la necessità di combattere altre battaglie e invitava a ritornare alle fonti popolari ricche di fede, di entusiasmo, di gagliarde virtù.

Il limite di Julia era il populismo romantico, l’accettazione entusiastica del concetto del popolo depositario di virtù ingenue e primitive da cui derivava il suo gusto per la «procellosa ballata del montanaro». Nell’entusiasmo di Julia era assente l’idea della consapevolezza critica che il popolo doveva conquistare con elementi più moderni di fronte agli strumenti potenti mistificatori che la civiltà delle macchine e dell’industria proprio in quegli anni propagava in Europa e in Italia. Il problema degli strumenti tecnici dell’artista e dei modi peculiari non affiora alla musa montanara dello scrittore acrese.

L’8 febbraio 1885 Julia leggeva all’Accademia Cosentina un discorso su Francesco Fiorentino scomparso prematuramente nell’anno precedente. Egli ripercorre la formazione di Fiorentino che in giovinezza studiò Galluppi e poi si volse verso Gioberti diventando «idealista platonico ed ortodosso». «E chi potea, pria del sessanta, resistere al fascino del Gioberti?» si domanda Julia che era passato attraverso la stessa passione giobertiana dato che «i vecchi eroi della Rinascenza» (Telesio, Campanella, Bruno) non erano conosciuti criticamente nella regione. Dopo avere studiato Gioberti, il Fiorentino si diede allo studio del pensiero germanico diffuso nell’Italia meridionale dal ’40 al’60 e si volse verso il Rinascimento studiando Giordano Bruno, la filosofia greca. Julia accolse pienamente la linea desanctisiana del progresso speculativo naturalistico rinascimentale («la Scolastica è assottigliata; la cavalleria ed il feudalesimo se ne vanno; la Teocrazia perde il suo prestigio […] succedono i freschi colori del Tiziano e del Correggio; nasce lo Stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna»), rivaluta Pomponazzi, esalta in Telesio il suscitatore della «coscienza laicale ed umana». Accoglie soprattutto la rivalutazione del pensiero filosofico meridionale dell’età rinascimentale compiuta da Bertrando Spaventa che, esule a Torino, aveva pubblicato tra il 1854 e il ’56 i saggi su Bruno e Campanella, immessi nella «circolazione del pensiero europeo» contro il nazionalismo dei cattolici e dei giobertiani (ostili all’influenza della nuova filosofia tedesca sul pensiero nazionale). Lo Spaventa nel 1872, insieme con Fiorentino, V. Imbriani, A.C. De Meis e altri aveva fondato il «Giornale napoletano di filosofia e lettere».

Julia, che ricerca il contributo della Calabria alla storia della cultura (ad essa, scrive nel discorso cosentino, «consacrai tutto me stesso, e per la quale non cesserò di combattere» con «amore indomabile alla mia terra nativa, alle mie care montagne») storicizza il cuore di quella cultura nel Rinascimento: la Calabria, «universale in filosofia, iniziò con Telesio lo studio della natura […] creò col Serra la scienza economica: con Galeazzo uscì dal cerchio della poesia provinciale […] precorse con Campanella Descartes; e con Gravina anticipò Vico e Montesquieu, e creò la nuova critica italiana». L’acrese ricorda prima il canonico Scaglione, presidente dell’Accademia Cosentina e autore nel 1843 di uno studio su Telesio in cui il filosofo calabrese è visto come l’iniziatore dei tempi moderni.

Fiorentino osserva che Telesio modificò l’assoluto della forma aristotelica e vi sostituì la natura che si spiega secondo i propri princìpi e che Campanella come sensista e teorico della cognizione anticipò Cartesio. Julia conclude il suo discorso con una esaltazione del pensiero di Fiorentino il quale, «lieto che la speculazione filosofica si stacchi dalle scienze naturali», fa armonizzare tutta la filosofia naturalistica rinascimentale meridionale con lo Spirito che è quello dell’hegelismo secondo Bertrando Spaventa. L’originalità di Fiorentino (che fu accurato storico della filosofia) è eccessivamente esaltata da Julia innamorato di quella idealistica «unità dello Spirito» in cui gli hegeliani avevano fatto confluire i residui metafisici platonici di Campanella, l’infinito generante di Bruno (che Fiorentino aveva messo in relazione con Spinoza), il puro conoscere come ente possibile di Rosmini (preannunciato da Galluppi). Il naturalismo per Julia non può da solo «conciliare l’universale col particolare» e in Bertrando Spaventa e Tommaso Campanella (1888) indica con lo Spaventa nelle «geniali divinazioni» di Bruno e Campanella i precorrimenti delle hegeliane conquiste dello Spirito «che tutto rinnova e trasforma».

Quantunque creda nell’a priori e nella metafisica (non quella di Anseimo di Aosta e di Bonaventura ma la mente di Bruno, lo spirito di Vico, di Gioberti) Spaventa «è il vero filosofo dei tempi moderni» perché, secondo Julia, vede in Campanella il principio della soggettività come base della filosofia post-medievale e l’intuizione immediata e sensibile (che proveniva da Telesio) come forma della certezza. Quantunque Fiorentino fosse convinto, nel Saggio storico sulla filosofia greca (1864), che la dialettica hegeliana fosse modellata su quella platonica, Julia vede in Fiorentino il rivalutatore della filosofia calabrese, colui che accetta gli ardimenti della cultura del Rinascimento. Perché? Perché Julia era sostanzialmente idealista hegeliano con fortissimi legami platonici (Julia: «a quell’opera immortale (la dialettica platonica) bisognerà ricorrere ogni volta che si vorranno scandagliare davvero le origini dell’umano pensiero»). Pur con questi limiti patriottici Julia studiò profondamente la filosofia calabrese e quella italiana dell’Ottocento da posizione nettamente idealistica.

Il distacco di Julia dal misticismo giobertiano avviene tardi (1873) ed è in relazione con la necessità, da gran tempo dichiarata da De Sanctis, per la nazione, di passare dall’idealismo romantico e dai sogni alla concretezza e all’agire positivo e concreto. Era ormai, il tempo della conversione di Julia, l’età del positivismo e del verismo che Julia accetta scrive lui stesso «come una salutare reazione al misticismo platonico ed alle vaporosità medievali» prediligendo non quello che lui chiamava canto del lupanare ma la poesia civile per lottare contro ingiustizie e prepotenze, per alleviare i dolori delle plebi. Il Julia di questi anni è contro la degenerazione della società borghese, la sua corruzione, il fariseismo civile e religioso.

Per correggere la decadenza Julia propone la frequentazione della poesia civile e realistica, dei poeti-cittadini come Foscolo, Carducci, Cavallotti e gli esempi della tradizione storica nazionale. Nel presentare i propri versi rivendica il carattere rude e selvaggio ma non municipale della sua poesia, ne difende il «colorito locale» che si richiama al romanticismo delle leggende e delle ballate popolari, la derivazione dalle fedi personali e dai classici «cittadini magnanimi», dall’anti-arcadia, dal temperamento che si è nutrito di «erbe aromatiche e di midolle di lione». Nella premessa a Sonetti e liriche del 1884 (i primi Sonetti erano stati pubblicati nel 1879) Julia propone la propria poetica civile-risorgimentale avversa ai degradanti miti della carne, della borsa, della banca amati dalla grassa borghesia.

La generazione di Vincenzo Julia non era quella dei primi romantici che erano nati nell’età dell’illuminismo in crisi né quella di Padula, di De Sanctis vissuti durante il romanticismo e le fiammate del Risorgimento; era quella di Carducci che aveva visto la fine del romanticismo, la sua decomposizione, l’Unità d’Italia e aveva vissuto la delusione storica. La delusione di Julia era più radicale, la delusione di un Mezzogiorno d’Italia che si trovava a lottare contro l’alleanza dei galantuomini ex borbonici e dei savoiardi uniti insieme, contro il trasformismo e la corruzione, contro l’avvilimento che gli unitari interessati avevano inflitto agli abitanti delle regioni meridionali.

Nei Sonetti e liriche i temi juliani si determinano nell’idillismo, nel patriottismo (espresso in toni proto-carducciani), nel richiamo all’ethos calabrese e alla fiera tradizione regionale. L’idillismo è quello della poesia amorosa post-romantica che congloba, come in Padula, richiami popolari o colti quattrocenteschi miranti a idealizzare la donna: «Candido è il vel, di fiori profumato; | garofano è la sua bocca odorosa; | del sen le cade un nastro ricamato».

Si tratta anche di rimembranze leopardiane di immagini femminili vagheggianti nello scenario delle montagne «limpide e turchine», di «chiuse valli» e di torrenti. La poesia popolare calabrese soccorre con le immagini tradizionali: «Era la bocca sua come il granato», «Nera pupilla, colmo petto e bianco», «E fragola montana la sua bocca». Immagini popolari e colte si alternano. Ora il modello è Foscolo («Irato a’ patri numi»), ora è Padula («Agile porta e baldanzoso il fianco», «Ne’ tuoi fianchi la vita ancor si spezza»). Altri componimenti cantano gli affetti familiari ma solitamente i versi hanno un tono medio e una koiné linguistica comune al tardo leopardismo e al carduccianesimo. Non ci sono cesure o sfagli espressivi.

Dove la personalità di Julia si presenta più originale è nei versi patriottici nei quali il poeta esprime, in tempi di decadenza e di delusione politica, il suo sdegno antitirannico e si richiama alla tradizione eroica di Masaniello o dei martiri napoletani del 1799. Il garibaldinismo è una delle componenti di questa poesia e Julia attende da Garibaldi la liberazione di Roma ostacolata dai francesi:

Se il despota di Francia irato freme
che tu, popolo, ascendi in Campidoglio
Iddio protegge un popolo, che geme
Iddio percuote dei tiranni il soglio […]
Noi, vendicata la decenne offesa,
a Bonifacio intimerem la guerra,
e rinnovata del Signor la Chiesa
sorgerà nuovo cielo e nuova terra.

Dopo l’Unità d’Italia il patriottismo di Julia è anche sentimento di democrazia, di giustizia e di eguaglianza. Visitando la Biblioteca dell’Accademia Cosentina il poeta vede adirati i busti degli eroi del pensiero («Santi Numi di Brezia») e Telesio gli indica il misero stato sociale della nazione: «le ritorte | de la patria non vedi, e conculcate | le scarne plebi, e infranto il nostro altare?».

In un sonetto al Busento il poeta ritiene più utile la deprecazione dei mali civili che il canto delle glorie «di un popol forte» che giace «incatenato»; in altro sonetto su Firenze ricorda il passato risorgimentale e che anche dopo la fine di Ferruccio «alla città di Dante | stende l’ala l’Impero, e il Vaticano | mira a’ suoi piedi Italia agonizzante».

La poetica di Julia (sulla scia di Carducci e Pascoli) è incentrata su due tempi: la giovinezza felice tra «valloni solitari, erme pendici, romiti boschi, e rapidi torrenti» e gli affanni della maturità che coprono «di lutto il giovanil sorriso». La personalità si innalza sulle contrarietà e il poeta proclama: «Soffro, combatto, e il mio verso non tace!», «Fiero, ribelle, a le viltadi avverso», «del pianto delle plebi io l’ho cosparso | […] sui codardi oppressori io l’ho scagliato». Quel verso, «montanar fremente» «è sangue del mio core, | non è grido di retore impotente, | è ruggito di libero cantore!». Tale cantore rompe «le querele antiche | col fiero verso del cantor del Giorno» e nei componimenti per il sesto centenario dei Vespri siciliani Julia esalta il popolo titano che si solleva dalla tomba contro i tiranni:

È sacro un popol di catene affranto,
che gigante si leva in suo furore,
che su lo scettro dei tiranni infranto
Bruto proclamerà vendicatore.

Anche se «l’altare al trono ha fornicato» il popolo siciliano riesce a vincere e il poeta esorta i contemporanei a non seguire la corruzione dei banchieri: «Rammenta i Vespri, ed il valor degli avi, | lascia l’orge di un secolo banchiere | l’arco non tende il braccio degli ignavi».

Il presente è veduto con un contrasto stecchettiano:

Dentro i tuguri affumicata e nuda
muore la plebe senza capezzale,
mentre folleggia per dorate sale
Paride e Messalina seminuda.

La Musa in veste di baccante «glorifica il bordello ed il delitto»: Julia si riferisce alla poesia grassa della borghesia gaudente (quella contro la quale Carducci scriveva le Prose del Ça ira): «Dai nuovi Farisei stuprato è il Dritto; | rugge l’itala plebe invendicata, | agonizza a Caprera il gran proscritto!».

Con questi versi del 1881 siamo pienamente nell’epoca in cui una parte della minoranza acculturata borghese celebra, dopo l’inizio del trasformismo, la conquista del potere economico (banche, industria, giornali) e politico. Anche nelle poesie politiche sono i due tempi indicati per quelle idilliche. Julia aveva sperato nell’Unità d’Italia e in Roma capitale («Palpita Italia dal Cenisio al mare, e suona un grido: la gran Lupa è morta!» «e cade a Bonifacio la corona!» aveva scritto il 22 settembre 1870). Qualche anno dopo, nel 1878, il poeta vedeva due Rome di cui una era «la fosca Babilonia | […] che pugna ancor col libero pensiero». Nel clima positivistico che vede il contrasto tra clericali e anticlericali Julia si richiama alla tradizione laica e civile della cultura italiana, alla resistenza che l’individuo può opporre con le proprie forze imitando i grandi modelli etici e poetici: «Bevo l’ira di Dante, e del suo verso, | ove fuma la folgore del Nume | amari dardi attingo, ai vili avverso!».

Il poeta si schiera nettamente con il socialismo che per lui coincide con il suo stampo etico nemico delle ipocrisie, lo stampo della tradizione civile che ha sempre dovuto combattere aspramente contro coloro che tramavano perché dominassero inganni e tirannide.

All’Italia del tradimento si oppone la verità del sentimento e del cuore:

Insultar la miseria; e l’agonia
gabellar degli oppressi, e spremer sangue
glorificar la grassa borghesia;
negare il pane a un popolo gemente,
strappar le zolle a un popolo che langue,
peccato è questo, e non un bacio ardente!…

Ethos del classicismo, fervore nazional-popolare coincidevano con l’esaltazione dei valori del popolo, con l’antitirannide, con la libertà e con la fede in una migliore umanità futura. La storia della regione, veduta nella dialettica servitù-libertà, lo fa sperare nella perpetuazione degli uomini che conquistano con la lotta la libertà: «E cresce un popolo disdegnoso e fiero, | e dove la poesia libera e forte | spezzerà de gli oppressi le ritorte».

La lotta è ormai tra borghesia edonista e popolo sottosviluppato:

Da’ tiranni gli eroi son combattuti,
cadon vittime spesso i generosi;
muore la plebe su la paglia, inulta,
la grassa borghesia a le plebi insulta.

È un momento della lotta e «l’Italia sarà concorde e forte, | se sprezzi l’oro e sprezzi ancor la morte!».

Il malor civile rode il poeta chino su Tirteo e Dante e che dopo avere esaltato Acri (1883) «culla di forti impavidi ed ardenti» si accorge che i contemporanei sono diversi dai padri: «Morta è dei padri la viril genìa; | t’arresta! e stendi, artefice elegante, | vel di tristezza su la patria mia!».

Eppure né il socialismo né lo sdegno hanno fornito a Julia un linguaggio poetico nuovo. Il poeta era un borghese illuminato, innamorato della genuinità del popolo verso il quale sentiva di regredire col sentimento ma restava ancorato al linguaggio pulito e decoroso della tradizione classica. Nei suoi versi non c’è rinnovamento formale né sentore di ciò che avveniva nella poesia europea. Una spia dell’ancoraggio classico è l’incapacità di portare con il linguaggio classico il nuovo nella sua poesia. Nei versi a Tudy Giorgetti (1879) il treno è «il dragone nero e ansante che procelloso vien», variazione delle metafore classiche intorno ai ritrovati moderni. Julia non aveva alcuno strumento tecnico ed espressivo perché non possedeva il reale; riconosceva la necessità del verismo ma rifiutava il mondo presente che era ricco di contraddizioni. Egli amava il mondo rurale, l’idillio nei boschi – l’insopprimibile idillio del tardo romanticismo borghese – rifluiva nel mito di un popolo primitivo, sano, portatore di valori, aderente alla struttura economica sottoconsumistica che era un modello sociologico arretrato. Era anche un modo di contenere le plebi quell’attribuzione di valori sterilizzati e indorati e passava attraverso la buona fede morale di un amico del popolo alieno dall’usare le condizioni oggettive del popolo per fini rivoluzionari sociali.

Con tale ideologia il poeta non può chiamare il treno col nome reale perché egli deve metaforizzare il reale secondo i moduli classicistici e il treno non è visto come un simbolo di progresso. La metafora juliana è una forma di nobilitazione linguistica che rivela la non adesione di Julia alla civiltà delle macchine e i limiti della sua ideologia socialista e progressista. Non era il solo, il Padula era come lui. Ancora una volta si facevano sentire i limiti dell’accademia classicistica, i legami con la scuola familiare di trent’anni prima. Per quell’educazione subita senza notevole evoluzione il codice espressivo era rimasto inveterato. Nello stesso tempo Carrer, Prati, Mercantini, Nievo metaforeggiavano sull’«igneo carro», sul «serpe immane», sul «ferreo cocchio», sull’«ignito vapor», sul «fiammante mostro» e bisogna arrivare a Emilio Praga, scapigliato e pittore del vero, a Pompeo Bettini che si rivolgeva alle masse per trovare il nome reale di quella macchina moderna che agevolava il camminare umano e per lasciarsi alle spalle i residui del pavido mito classicistico che anche i tardo romantici coltivavano nel loro decomposto linguaggio. Limiti del progressismo ideologico e limiti di innovazione verbale coincidevano in Julia che parlava sempre di plebi oppresse e di valori astratti ad esse inerenti.

Vincenzo Julia fu molto amico di Vincenzo Padula negli ultimi otto anni di vita che questi, da ammalato, trascorse ad Acri. Dopo la morte di Padula cominciò a scrivere sull’amico una Monografia della quale una parte, sul poeta lirico, fu letta all’Accademia Cosentina il 26 novembre 1893; dell’opera, rimasta incompiuta e inedita (è stata pubblicata nel 1981), sono stati scritti i capitoli sulla vita, sull’oratore, sul prosatore, letterato e critico ma mancano quelli sull’Orco, sul traduttore dell’Apocalisse.

Julia ha sincera e profonda ammirazione per la personalità e l’arte di Padula il quale, quando la regione era chiusa «da una muraglia di bronzo al movimento intellettivo italiano», rappresentò l’aurora della poesia calabrese oltrepassando il vecchio romanticismo. Julia dà giustamente rilievo all’influenza che sul giovinetto ebbero prima Metastasio e Monti, poi Pindemonte. La novella calabrese in versi è chiamata «epica» da Julia e rappresenta un portato spontaneo dell’ingegno indigeno nella sua piena efflorescenza, indipendente dalle altre novelle romantiche contemporanee. Padula è lontano dalle vaghe visioni mistiche, nella Sambucina fa sentire le note naturalistiche rinascimentali, nel Valentino i contrasti del mondo moderno fluttuante e tempestoso, scettico e beffardo (a proposito del poemetto Julia assicura che Padula al tempo della composizione non aveva letto Byron).

L’Orco fu ben conosciuto da Julia che sul «Telesio» ne pubblicò due canti e frammenti. Esatto è il collegamento con Milton e Moore, esatta l’indicazione della direzione realistica (frenata, però, dalle commistioni bizzarre letterarie stilnovistiche, quattrocentesche, ariostesche, popolareggianti) ma Julia tende a inquadrare Padula nel proprio sistema filosofico e di idee che muovendo da Telesio si incontra con la filosofia moderna e sbocca nell’idealismo dell’età romantica. Il critico dà rilievo anche alla poesia religiosa di Padula animata dal biblismo, da un feroce primitivismo nella canzone all’Addolorata, dalla satira civile nei componimenti religiosi di carattere antitemporale. Nelle pagine sulla poesia lirica di Padula (lette a Cosenza) il critico esalta il laicismo della filosofia calabrese:

Voi Cosentini […] avete spezzato i ceppi di Aristotele e della scolastica, iniziando il pensiero scientifico, come Padula […] ruppe i cancelli della vecchia scuola […] Gloria a Cosenza, che ritemprò con le sue scientifiche tradizioni l’ingegno del Padula […] gli diede quella coscienza moderna, ch’è l’espressione più alta della filosofia telesiana, e che un giorno rinnoverà il mondo.

Julia qui riprendeva l’esaltazione del pensiero laico pronunziata da De Sanctis a proposito di Machiavelli il 20 settembre del 1870 e ribadiva il carattere anti-teocratico del pensiero politico di Padula del quale ricorda anche l’Elogio dell’abate Genovesi, di quel Genovesi che aveva invitato la cultura ecclesiastica a diventare civile, a seguire ciò che è utile agli uomini e a considerarlo vero. Per quanto riguarda l’estetica Julia laico e naturalista non accoglie gli eccessi platonici e mistici di Padula.


Domenico Milelli vive nell’atmosfera della letteratura realistica tardo-romantica e assume le pose dello scapigliato onesto e vilipeso:

Noi contro tutti, tutti contro noi,
scarsa falange, ma falange eletta,
si muor di fame e si diventa eroi,
vivi siam roba inutile ed abbietta:
ma noi si vuol la morte e la ruina
dello stato e del re, tolgalo Iddio;
si mette Gesù Cristo alla berlina,
non si conosce più né tuo né mio.
E siam la gente che non ha più pane,
noi siam la gente che non ha più tetto;
ma fra tanta miseria ci rimane
qualche cosa e non poco: il core netto.

Sorta di «eroe della soffitta» il Milelli combatte contro il «mondo di perfidi e di sciocchi» che vuole adulterare la verità e la schiettezza: «Allegria ti chiede il mondo, | ridi, buffone, non fare il poeta». Ma l’importante problema, che sarà centrale nel Pirandello, del rapporto tra la vita e la forma, tra la vita e la finzione, è tema letterario e dialettantesco [refuso o no?] nel Milelli il quale lo riduce a ben mediocre misura, all’incapacità di determinare un qualsiasi modo di vivere, all’irrequietezza, all’incertezza, alla romanticizzazione esteriore:

Odia quest’arte, che ogni nostra vena
con orribile spasimo flagella;
che ha sorrisi ed incanti di sirena
e brutta è dentro quanto in volto è bella.

L’attività letteraria di Milelli, pur con delle punte antimonarchiche (ricordiamo il componimento del poeta contro la fucilazione del caporale Pietro Barsanti che aveva promosso un principio di rivolta in una caserma di Pavia nel 1870) e antistatali e l’esaltazione della cultura refrattaria è da ricondurre a una scapigliatura che non ha relazione con la società calabrese.

Il Milelli fu il poeta calabrese bohemien della seconda metà dell’Ottocento, spirito avventuroso ed errante, che andò ramingando di paese in paese, dominato da una irrequietezza incessante. Nacque a Catanzaro il 25 febbraio 1841 e in quel seminario e nel Collegio crotonese degli Scolopi fu educato agli studi classici; in Calabria assorbì quel romanticismo naturale che era negli ambienti e negli spiriti e che ha un certo peso nella sua opera, ma il Milelli non rimase in Calabria, riuscì a penetrare nei cenacoli letterari ed ebbe una certa importanza nel gruppo romantico di Prati e Aleardi, nel salotto della contessa Maffei, nel gruppo degli scapigliati milanesi e in quello carducciano. Però di là di ogni influenza che sul Milelli esercitarono uomini e idee egli rimase per sempre uno scapigliato e fu tale per una intima necessità del suo spirito, per una giovinezza continuata oltre gli anni della esuberanza e del tormento naturale; poesia volle dire per il Milelli intensità di vita irrequieta e avventurosa, indeterminata nel suo svolgimento, febbre, sofferenza e amore. La vita era nel tormento del dissidio tra l’ideale e il reale e il Milelli fu un romantico che accolse, assimilandoli, i toni discordi dall’ordine naturale sì da apparire, pur nel suo ondeggiare tra estetismo e realismo, come il rappresentare di una rivolta contro l’antico e il consueto. In effetti il Milelli portava in mezzo al dilettantismo estetizzante un suo dilettantismo non contenuto in una formula e che anzi si atteggiava come movimento di insofferenza e di libertà e nella pratica della vita fu costretto ad attuare quella sua scapigliatura in una forma di nomadismo che lo condusse a errare per le città d’Italia, da Milano a Napoli, a Firenze, Catanzaro, Roma, Avola, Bologna, Genova, Palermo (dove morì il 22 dicembre 1905) come conferenziere, dicitore dei versi propri, professore di letteratura, direttore di ginnasi per brevi periodi di tempo a causa della sua insofferenza di artista («non faceva lezione e litigava coi colleghi e col preside o si faceva imprestare denaro dagli alunni e dai bidelli» così un contemporaneo del poeta, G. Stiavelli), giornalista, custode di monumenti nazionali.

Liberatosi dal romanticismo del Grossi e da quello calabrese il Milelli di In Giovinezza (Italia-ma, Catanzaro, 1873) rivela, oltre l’influenza di Prati e Aleardi, una vena realistica che deriva dalla reazione a quella vana sentimentalità, reazione che era nell’aria e che il Guerrini, il Carducci, il Praga e il Tarchetti attuarono; ma il Milelli accoglieva anche gli echi di De Musset, Gautier, Baudelaire i quali più tardi avranno la funzione di contribuire a formare l’impasto realistico-beffardo del Canzoniere (Roma 1884) che appartiene al periodo in cui il Milelli entrava a far parte della redazione della Cronaca bizantina. Forse per necessità si prestò ad un trucco letterario preparato dal Sommaruga; infatti, dopo di aver risposto al sottosegretario del Ministero della Pubblica Istruzione, il quale gli chiedeva di esibire un titolo di studio per ottenere un’occupazione, che il titolo di studio l’aveva perduto «combattendo al Volturno, facendo alle schioppettate nella divisione di Bixio», pubblicò sotto lo pseudonimo di Il conte di Lara un libro di Rime (Roma 1884) in contrapposizione dei Versi (1883) della Contessa Lara (Èva Cattermole Mancini). Ma il motivo romanzesco autobiografico è declamato in modo convenzionale e anche nel Nuovo canzoniere (Cosenza 1888) e nel Libro di vespro (Cosenza 1894) si nota una ripetizione di motivi che nel Canzoniere avevano trovato una forma originale. Al Milelli mancò una vera personalità poetica, in lui si può trovare una grande facilità di assimilazione per cui i nomi che ricorrono leggendo le sue liriche sono i più diversi da Carducci a D’Annunzio, a Prati, a De Bosis, a Praga, a Boito, Marradi, Picciola, Panzacchi, Mazzoni, ecc. ed egli riuscì a riecheggiare gli spiriti poetici che verso la fine dell’Ottocento venivano dal Carducci, dalla Scapigliatura e dal D’Annunzio, ma, come in tanta parte di quella poesia, gli manca l’impegno morale di tendere alla vera arte. Il difetto è dovuto alla retorica, alla facilità del secolo, alla mancanza di escavazione; c’è in Milelli l’inquietitudine romantica di uno spirito nobile ma molti dei suoi versi sono scritti per esercitazione e spesso l’artista è andato alla ricerca del motivo poetico da rivestire di versi soffocando così la propria ispirazione.

Tuttavia la sua vita e l’arte hanno una coerenza che è il sigillo del Milelli combattente con Garibaldi dal Volturno a Digione, dal Tirolo a Monterotondo, dell’amico di Cavallotti, del cantore di Prometeo, del poeta povero senza pane e senza casa, dell’uomo che al Carducci il quale gli aveva mandato dieci lire accompagnate da un rimprovero per la vita girovaga restituì le dieci lire accompagnandole con questo acre sonetto:

Tu che hai venduta l’anima all’incanto
or godi e dormi come un buon borghese
eppure un giorno hai supplicato e pianto
per acciuffare un soldo a fin di mese:
tu che d’insulti e che d’ingiurie hai tanto
vituperato il tuo natal paese
onde di codardia nessuno il vanto
più codardo di te mai ti contese:
vile, or tu gridi a chi d’angoscia i suoi
ultimi giorni nutre e non s’affida
al tuo sistema di cangiar bandiera.
Tienti il tuo tozzo, serbalo pe’ tuoi,
perché all’ora dell’ultima disfida
ve ’l possiate mangiar tutti in galera.

In altri versi del Prometeo Milelli esalta i precursori della rinnovata umanità futura: «Noi l’avvenir! Ma l’anime nostre scordar non vi potranno mai, per tanto ordin di secoli, o lunga prova d’angosciosi guai. Noi l’avvenir! ma l’anime nostre si volgeran memori sempre a voi, forti, a voi valide di lottatori formidabil tempre!».

Vissuto durante l’epoca del romanticismo sentimentale che si consumava volgendosi verso il realismo e la satira dei lombardi Alfonso Azzinnari ebbe la caratteristica precocità del temperamento calabrese, carico di psicologia e di sentimento: «fu un precoce irrequieto e geniale, disse il Galati, e forse la malattia che lo divorò quando più anelava alla vita, conformò la duplice faccia della sua poesia: malinconica e sensuale, una satirica, l’altra, entrambe riflessi della sua angoscia».

Aveva persona lunga e sottile, e sembianze poco gradevoli. Abitualmente avea sul volto una tinta di austera malinconia che, con uno sguardo, fulmineo, dava alla sua figura una cert’aria di mistero, di fantasma… Portava nascosta sotto la sua veste talare (che indossava perché la sua famiglia volea destinarlo al sacerdozio, per cui ne era sempre tristo) una mezza sciabola, che ben aveva il cuore di saper maneggiare:

così ci viene descritto da Davide De Seta l’Azzinnari, singolare poeta nato ad Acri il 17 settembre 1847 e morto di tisi a soli diciannove anni il 20 febbraio 1866. Crebbe l’Azzinnari incompreso ed inquieto in un mondo avverso e rivelò spirito originale nei due aspetti della sua poesia, sentimentale e satirico. Non tutte le poesie di Azzinnari sono state pubblicate e quelle che possiamo leggere si trovano in una biografia critica di De Seta che avendo letto i manoscritti del poeta ne scelse le cose che gli parvero migliori e le venne commentando. La morte prematura non gli consentì di rivelare e di sviluppare quel mondo lirico di malinconia e di ribellione alla natura che noi vediamo sicuramente delineato nei saggi che ci rimangono e che ancora non potremmo chiamare originali per le tracce leopardiane e aleardiane che vi si notano. Di Leopardi e di Foscolo sembra calcare lo stampo pessimistico e dell’Aleardi degli sciolti di Monte Circello e delle Lettere a Maria la languida femminile tenerezza ma più che di imitazione si tratta di spiriti che erano nell’aria; l’Azzinnari portò nella poesia l’irrequietezza che gli veniva dalla natura e che il male fisico accresceva, il sentimento del proprio animo liberale, l’appassionato desiderio di quell’amore che si allontanava con la vita e cantò con fierezza Dio e la Patria.

Giovine e violentemente morì Vittorio Caravelli di Rogiano (18611893) il quale si occupò anche di critica letteraria scrivendo un saggio su Pirro Schettino e l’antimarinismo. Del poeta ricordiamo questi martelliani dedicati a Ruggero Bonghi:

L’ideale è la vita, l’avvenire, la gloria;
il soffio dei poemi, l’anima de la storia;
è speme a gl’infelici; è il sospiro del forte,
che nella pugna orrenda trova dolce la morte,
si chiami Decio o Cristo, il Gòlgota o Mentana,
brilli ne l’Evangelo, o folgori la insana
protervia del Papato ne lo sdegno di Arnaldo,
è come il sol fecondo, come le rupi saldo.

In giovane età morirono Prenestino Lo Schiavo di Radicena, Pietro Verzillo di Rende, Filippo Greco di Acri, Pier Vittorio Carlomagno di Verbicaro. Quest’ultimo (1862-1886) nato da famiglia di persone colte, laureatosi in giurisprudenza a Roma, in Sussurri esprime con educazione classica sentimenti tardo-romantici paradigmatici sia che canti l’amore sognato («Se questi versi un giorno leggerai tutta raccolta ne la tua stanzetta, forse cercando ne la mente andrai chi sia la giovinetta di cui favello e scrivo innamorato») che la morte imminente («una madre, che tra il pianto e il gaudio vi bagnerà di lacrime, vi coprirà di mille ardenti baci: e, forse, anche una vergine, che, stringendovi al seno, ansiosa e tenera, ci chiederà del giovine poeta!… Andate!… Io trepido v’affido al libero Favonio, vecchi ideali, candidi fantasmi»).

Filippo Greco è uno dei migliori poeti del secondo Ottocento calabrese per il suo accento virile anche quando è malinconico. Tutto in Greco è preciso, delimitato; in lui non troviamo le diffusioni tardo-romantiche della moda del tempo ma immagini poeticamente concrete:

Ero corda di liuto
e m’àn fatto ammutolire.
Ora stanco e disilluso
né mi vendico, né accuso,
no, piuttosto che punire,
io desidero dormire.
Io desidero obliare
ogni terra ed ogni gente,
appoggiarmi dolcemente
al tuo omero e sognare:
sopra laghi sonnolenti,
tra foreste senza venti,
a un tranquillo focolare,
oltremonte ed oltremare […]

Spirito assetato di assoluto, cantò la libertà e i legami che lo restringevano alla terra:

Libertà! Libertà! Sopra quei culmini
fate che io possa adagio respirare!
in questa putrid’aria
mi par di soffocare!
mi pesan queste mura
come una sepoltura!
Io grido a te, Signore, questo era il termine
d’ogni mio grande e nobile ideale?
Tutto quaggiù è sì piccolo,
piccolo è il bene e il male,
perfin l’amor, perfino
l’odio quaggiù è piccino!

Nella Signora nera il Greco rappresenta un uomo ricco e potente il quale è sul letto, morente, ma non rassegnato e si adatta a giocare una partita con la Morte, pur di sopravvivere.

Filippo Greco è l’ultima voce del romanticismo calabrese ed una delle più pure perché in lui il romanticismo non fu effusione sfrenata ma regolata da un gusto e da un senso artistico notevoli. Nacque ad Acri il 1° aprile 1862 ed ebbe come primo maestro il poeta e latinista acrese Alfonso Mango, studiò quindi nel Liceo di Cosenza e all’Università di Napoli dove si laureò in giurisprudenza nel 1891; morì di tisi il 25 novembre dello stesso anno.

Il sentimento poetico non è sopraffatto nel Greco dalle combinazioni e dagli impasti culturali ma si rivela in una sua forma artistica che è la misura di un gusto ben educato. Insieme con Padula il Greco rappresenta la tendenza realistica del romanticismo meridionale: romantico il Greco fu per sensibilità naturale sulla quale si ripiegò maggiormente sapendosi condannato a morire giovine, per il gusto del lugubre e del macabro, per l’amore del racconto, della leggenda che hanno i caratteri della letteratura dell’epoca (Il guerriero moribondo, La Storia di Nilo, ecc.), argomenti cioè che si possono descrivere in versi e che offrono al poeta la possibilità di manifestare il suo amore per il mondo orientale.

Ma il romanticismo di Greco è temperato dalla misura che il poeta si sapeva imporre, le sue creazioni hanno un carattere di concretezza, la concezione e le immagini non sfumano nella nebbia, il fantasma poetico è cosa viva; Greco non ha dato certamente ciò che avrebbe potuto dare se fosse vissuto ancora perché la sua personalità avrebbe compiuto altra evoluzione e si sarebbe liberata da quei detriti letterari che incontriamo. Ma pur tra quei versi che ha lasciato (Liriche e poemetti a cura e con prefazione di Antonio Anile, Messina 1926) si avverte la voce di un poeta che canta la propria tristezza di morituro con un accoramento talvolta beffardo come aveva fatto lo Stecchetti, con uno scetticismo che gli derivava anche dall’Heine prediletto.

La poesia dialettale, animandosi anche di spiriti romantici e sociali, essendo utile per le espressioni popolari ha ampia diffusione e risonanza nell’Ottocento.

Ardente patriota fu Girolamo Arcovito di Reggio (1771-1847), autore di un inno per la Repubblica Napoletana, combattente contro i sanfedisti del cardinale Ruffo. Condannato e graziato, riprese la carriera di avvocato ma, ritornati i Francesi, fu nominato Commissario civile in varie località campane, poi giudice di tribunale ad Aquila, Monteleone e Cosenza. Deputato di Reggio nel 1820, caduta la Costituzione rientrò nella vita privata ma dal 1827 fu mandato in domicilio forzato a Salerno dal Chiarini, segretario dell’Intendenza reggina. Contro il Chiarini scrisse la Cucchiareddeide poema di sette canti in terza rima, di argomento satirico.

Abbiamo già incontrato Luigi Galiucci, divulgatore delle poesie di Domenico Piro e dei fratelli Donato. Anche suoi componimenti osceni furono divulgati ma pare che siano stati adunati, in appendice alla raccolta castrovillarese del 1896, da una iniziativa editoriale commerciale mentre il Gallucci nella raccolta pubblicamente accettata dei suoi versi (1883) escluse tale genere di componimenti.

Fra i poeti dialettali minori vanno ricordati Francesco Notti di Grimaldi, Nicola Vitari di Cosenza, Ilario Muscari Tomaioli di Stalettì, Costantino Jaccino di Celico, Rosario Borgia di Mileto, Filippo Eugenio Calvelli, Vincenzo Rovere di Polistena.

Tra i più importanti latinisti del secolo va ricordato l’abate Niccolò Perrone di Mormanno (1819-1888) che fu conosciuto dal Croce e del quale il critico ha tracciato un breve ritratto. Il Perrone, pur insegnando, almeno per un certo tempo, all’Università di Napoli, condusse vita grama e difficile, fu amico di ingegni liberi come il Tari e il Bovio, compose versi latini (il latino era per lui «verax libertatis et patrii amoris interpres et magister»). Descrisse il suo paese natio, che richiamò «Sypolis» per la riverenza che esisteva verso il maiale:

Hirsuti cives hirsutis rupibus haerent;

quaeque domus dominos, haec capit una sues.

Susque domi potior, coniux venit inde secunda;

virque, Cubans, medius inter utrumque iacet […]

Maggiore fama conseguì Diego Vitrioli di Reggio (1819-1898) che il Croce definì «il maggiore dei poeti latini di quel tempo, non solo del mezzogiorno ma d’Italia tutta […] strano personaggio, retrivo in politica, in letteratura e in ogni cosa, borbonico e clericale, antimoderno e antiromantico». Del Vitrioli parleremo più avanti a proposito dell’influenza del Pascoli sulla letteratura calabrese del Novecento.

Più che al superamento speculativo la mente di Francesco Fiorentino di Sambiase (1834) si volge al riordinamento storiografico. Ma se ciò è vero, inesatto risulta ciò che il Gentile, il Mondolfo e altri hanno scritto sulla sua presunta mentalità espositiva per mancanza di capacità speculativa. Il Galati (Interpretazione dell’opera di F. Fiorentino, Roma, 1938) ha dimostrato che il fondo permanente del suo pensiero è kantiano, con uno sviluppo idealistico dovuto all’influsso dello Spaventa, e che è erronea l’asserzione del Gentile che egli abbia piegato, negli ultimi anni, al positivismo. Il Fiorentino fu dal 1862 professore nell’Università di Bologna, nel 1871 in quella di Napoli e nel 1877 in quella di Pisa. A Napoli morì nel 1884.

Egli risentì delle influenze di Galluppi e di Cousin, poi di Gioberti soprattutto nella versione dei testi bonaventuriani, anselmiani, agostiniani. Ma la vastità di interessi lo spinse verso la storia della cultura nazionale con Il panteismo di G. Bruno (1861), verso un kantismo empirizzante e lontano da ogni inquadramento metafisico (Kant e il mondo moderno, 1865) poi verso l’hegelismo in Religione e filosofia (1867). In sostanza il Fiorentino, pur non avendo avuto un originale pensiero filosofico, ebbe il merito di essere un diligente esegeta e un ottimo storico della filosofia il quale ricostruì gli studi sul naturalismo rinascimentale con Il Pomponazzi (1868), Il Telesio (1872-74), Studi e ritratti della Rinascenza (1911, a cura della figlia Luisa). Molta divulgazione ha avuto anche il suo Manuale di storia della filosofia (1879-81).

Filosofo e storico fu Felice Tocco di Catanzaro (1845-1911) il quale studiò a Napoli (dove ebbe come maestri Bertrando Spaventa e Luigi Settembrini) e Bologna dove seguì i corsi di Fiorentino e si laureò con una tesi sulle varie interpretazioni dell’idea platonica e della categoria aristotelica. Dopo avere pubblicato le Lezioni di filosofia fu nominato (1871) dal Mamiani professore di antropologia all’Università di Roma ma da tali studi il Tocco si volse a quelli di filosofia insegnando a Pisa e a Firenze. Diede una nuova interpretazione e sistemazione della cronologia dei dialoghi platonici e contribuì al progresso degli studi su Giordano Bruno, inoltre fu tra i primi in Italia ad occuparsi del pensiero del Nietzsche. Tra le sue opere principali ricordiamo Ricerche platoniche (1876), L’eresia nel Medio Evo (1884), G. Bruno (1886), I fraticelli o poveri eremiti di Celestino (1895), Il processo dei Guglielmiti (1899), Studi francescani (1909), La questione della povertà nel secolo XIV (1910), in cui si può notare un prevalente interesse per i problemi religiosi e pauperistici del Medio Evo.

Alla cattedra di filosofia nell’Università di Bologna succedeva nel 1871 Francesco Acri di Catanzaro (1834-1913), filosofo a tendenza platonica ma con una sua originalità che contraddice alla opinione vulgata dal Gentile, che fosse un «mistico» come può vedersi dal suo Abbozzo di una teorica delle idee. L’Acri era stato educato dai padri liguorini, si era laureato in giurisprudenza ma aveva continuato gli studi di letteratura alla scuola di Liborio Menichini, discepolo del De Sanctis.

Insegnante di filosofia nel collegio degli Scolopi di Chieti, allievo in Germania alla scuola di Trendelenburg, professore a Modena, Palermo, all’Università di Bologna, visse fino alla morte in questa ultima città dove ebbe successore all’Università G.M. Ferrari di Soriano. Di Bologna fu consigliere comunale nel 1895, in quella città tenne discorsi sull’insegnamento religioso, sulla morte di Cavallotti (1898), fu amico di Carducci, di Pascoli, amatissimo dai discepoli. L’Acri, cristiano, portato verso il pensiero della morte, a cercare l’armonia nella vita e nel mondo sensibile ma considerando sempre la vita come un velo oltre il quale esisteva la verità, esercitò uno straordinario fascino per lo spirito della semplicità e della bontà, l’idealismo platonico, il sentimento cristiano della vita uniti in perfetta armonia. Eppure tali qualità e tale armonia non debbono indurre a pensare che l’Acri fosse un pensatore incerto: è ben vero che ebbe ingegno robusto, speculativo e dialettico, non di assimilatore e di ripetitore. Il centro della sua personalità, la sua spiritualità lo indussero a considerare la filosofia come una preparazione dell’esperienza religiosa e del cammino verso Dio e verso l’intelligenza della sua opera creatrice. Animato da tale convinzione polemizzò contro Fiorentino, contro lo Spaventa, l’idealismo hegeliano, il materialismo positivistico. Platone per Acri è il pagano profeta di Cristo, la certezza cristiana fa subordinare all’Acri la realtà al mistero, la filosofia al dogma. In Acri si compongono in unità le qualità del pensatore, dell’artista, dell’uomo le quali si trovano rispecchiate nelle opere Videmus in aenigmate (1907), Dialettica turbata (1911), Dialettica serena (1917), nei volgarizzamenti di dodici dialoghi di Platone che sono un capolavoro di stile semplice e di sapore trecentesco.

Storico alquanto favoloso è Nicola Leoni (1813-1892) di Morano, autore dell’opera Della Magna Grecia e delle tre Calabrie (1844-46) che ebbe una terza edizione nel 1884. Il difetto principale dell’opera del Leoni è, però, quello di aver tentato di scrivere una storia etnografica, politica, letteraria, gnomologica, numismatica, ecc.: sono tutti aggettivi che figurano nella prima edizione dell’opera la quale appare alquanto più snellita nella terza edizione, ma scarsa sempre di senso storico, quanto ricca di sentimentale amor patrio. Domenico Spanò-Bolani (1815-1890) scrisse una storia di Reggio fino al 1797, la continuò fino al 1860 Carlo Guarna-Logoteta. Nicola Falcone è autore della Biblioteca storica topografico delle Calabrie. Davide Andreotti di Cosenza (1823-1886) scrisse una Storia dei Cosentini (1869-1874) che ha scarso valore critico mentre Luigi Accattatis di Cosenza (1837-1916), garibaldino, professore, presidente dell’Accademia Cosentina, con Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie (18691877, 4 voll.) è, scrive il Galati, «fra i più importanti e benemeriti rivalutatori della cultura calabrese della seconda metà del secolo scorso». Nella sua opera «si notano le linee di un disegno di storia calabrese generale, vista a traverso i suoi uomini, disegno certamente fallito, ma ultimo tentativo coraggioso intrapreso intorno alla Calabria».

Al suo indirizzo storico appartiene G.B. Marzano, nato a Polistena nel 1842 ma monteleonese (a Monteleone morì nel 1902) di elezione, del quale Scritti (Monteleone, 1927) e il Dizionario etimologico del dialetto calabrese (Laureana di Borrello, 1928) furono pubblicati dal figlio Giuseppe.

Studioso di varia umanità e di lettere fu Eugenio Arnoni di Celico (1846) il quale scrisse versi, un romanzo, opere di illustrazione della Calabria e dei calabresi e si occupò anche di studi intorno alla lingua italiana, alle lettere inedite del Foscolo, al Petrarca, nelle varie località in cui peregrinò quale insegnante di ginnasio e liceo. Morì a Roma nel 1909.

Anche a Celico nacque Nicola Arnone (1850), storico e letterato, educatore e preside nei licei, a cui si devono studi sul Cavalcanti e l’edizione delle rime di Guido Cavalcanti.

Alla prima scuola di Francesco De Sanctis era stato allievo Diomede Marvasi di Cittanova (1827-1875) («Di Calabria – scrive il De Sanctis nella Giovinezza – vennero Giuseppe De Luca, Liborio Menichini, Francesco Corabi, i fratelli Mazza, Diomede Marvasi»). Gli Scritti di Marvasi furono pubblicati (1876) a Napoli con prefazione del De Sanctis che allo scolaro e amico aveva indirizzato da Zurigo delle bellissime lettere.

Desanctisiano, in certi limiti, fu anche Bonaventura Zumbini nato a Pietrafitta (1836) e morto a Bellavista presso Portici (1916). Si forma avendo dietro di sé l’hegelismo, apprende il rinnovamento desanctisiano, approda quindi al filologismo e alla ricerca di eguaglianze, differenze, fonti, imitazioni, reminiscenze.

Dopo avere insegnato a Cosenza lo Zumbini si trasferì a Napoli nel 1866 e qui pubblicò nello stesso anno il saggio Le lezioni di letteratura italiana del prof. Settembrini e la critica italiana. In questo saggio lo Zumbini correggeva le interpretazioni del Settembrini con osservazioni particolari, scientificamente verificate: alla costruzione storiografica del Settembrini generosamente ricca di affermazioni e motivi generali lo Zumbini opponeva la necessità dei riscontri, delle verifiche, distruggendo sostanzialmente il metodo della storiografia romantica. L’anno seguente il De Sanctis difenderà il Settembrini ma proporrà ai contemporanei un piano di lavoro minuto, preciso, di carattere essenzialmente monografico per potere preparare il materiale sicuro per una storia letteraria.

Nel 1878 lo Zumbini succede a Napoli all’Università alla cattedra di Settembrini, poi diventerà Rettore dell’Università, compirà frequenti viaggi in Francia, Inghilterra, Germania per avvicinarsi alle letterature straniere che veniva studiando in correlazione con la letteratura italiana negli Studi di letteratura comparata che appariranno postumi (1931) e che sono preceduti da saggi su Milton, Shakespeare, Klopstock e dagli Studi di letteratura straniera (1893). Alla letteratura italiana si riferiscono i Saggi critici (1876), Studi sul Petrarca (1878), Sulle Poesie di V. Monti (1886), Studi di letteratura italiana (1894), Studi sul Leopardi (1904). Per De Sanctis lo Zumbini aveva la capacità della vasta sintesi, per il Croce e i crociani non va oltre l’accostamento di pensiero e poesia e oltre l’erudizione comparatistica.

Il Croce criticò severamente l’incertezza metodologica dello Zumbini ora desanctisiano ora positivista e vide nello studioso un ricercatore di fonti, di relazioni, di attinenze, con risultati non originali. In parte ciò è vero ma lo Zumbini si venne formando in una età di passaggio dall’idealismo romantico a quell’età del secondo Ottocento che il Gozzano definirà «sonnolenta»: lo Zumbini non ebbe la genialità di De Sanctis ma fu uno studioso onesto, ricco di interessi, un anello certamente importante del mutamento metodologico nella critica letteraria del secondo Ottocento.