La poesia dialettale del Novecento si svolge verso la lirica, pur senza abbandonare il genere narrativo-faceto e la tendenza sociale. Nella lirica si avverte anche il tema del ricordo della patria lontana da parte dei poeti calabresi che vivono in America. Antonio Chiappetta di Cosenza (1876-1942) è autore di Jugale, un poemetto in sestine in cui il protagonista, un personaggio apparentemente sciocco e credulone, però, ha una semplicità tanto sconfinata da giustificare le varie bizzarrie. Giacinto Bendicenti di Serrapedace (1879-1947) in due diversi momenti della vita ha cantato con senso umoristico e con dolore sincero proprie vicende. Agostino Pernice di Cosenza, cieco di guerra, in Musa, cumpagna mia (1921) e in Juri di vientu (1930) ha cantato la propria infelice condizione. Il figlio di Ciardullo, Ciccio De Marco, in Mio caro patre (1964) crea un personaggio nuovo, Rosarbino, un soldato che nelle lettere al padre, pur richiamandosi ai tratti fondamentali di Jugale, tenta una valutazione del mondo dal suo angolo visuale, contrapponendo il mondo della campagna a quello della città, la vita patriarcale a quella moderna. Ma Rosarbino sa giudicare con un metro di saggezza contadina le varie situazioni. Il dialetto calabrese adoperato da De Marco, pur mantenendo il modulo sintattico vernacolare, risente dell’influenza della lingua italiana, del tono medio parlato dei giorni nostri. Settimio Mazzarone (il cui pseudonimo è P. Sema) di Fiumefreddo Bruzio in Cosiceddi (1923), Gliommariddi (1937), Quatricieddi (1937) è poeta colto e molto regolare nello schema metrico. Vincenzo Franco di Monteleone in Rose e spine (1889) ha descritto in sonetti le cinque piaghe del popolo (miseria, giuoco e ubriachezza, avvocati, fondiaria, America) ispirandosi a un sentimento di giustizia sociale. Giovanni Patari di Catanzaro (1866-1948), noto con lo pseudonimo di Alfio Bruzio, ha raccolto in Tirripitirri (1926) quasi trecento sonetti di notevole freschezza.
Patari era professore al «Galluppi» e dal 1902 al 1905 scrisse quasi interamente da solo «’U Monacheddhu», un settimanale in vernacolo catanzarese. Più tardi raccolse il suo tributo al giornalismo satirico e umoristico nel volume ricordato che comprende componimenti sarcastici, patetici, ritratti, testi di breve respiro artistico, un ritaglio del costume e della vita della società provinciale. Postumo è stato pubblicato un secondo volume di 203 sonetti in vernacolo (A lanterna magica, 1950). La fama di Patari è stata esagerata dagli elogisti del buon tempo antico (era il tempo di una consolidata tradizione trasformistica) e di una Catanzaro felice e mitica per il suo «corso», per gli uomini di valore che uscivano dal famoso «Galluppi». In parte questo mito è stato creato da Umberto Bosco le cui «pagine calabresi» sono ricordi e memorie, trasfigurazioni della realtà trascorsa.
Giovanni De Nava (1873-1941) di Reggio è poeta di intenti sociali ma ha anche accenti di poesia amorosa (Fogghi caduti, 1892; Sentiti genti, 1894; Passu cantandu, 1898). Sono da ricordare anche i Sonetti garibaldini (1912), la raccolta Canzuni vecchi e canzuni novi (1931). La personalità artistica di De Nava è forte e ricca, nel suo mondo poetico i motivi di amore sono importanti e se si incontrano motivi espressi alla maniera digiacomiana altri sono individuali ed espressione della società reggina. Nei primi versi prevale la compassione populistica verso le figure dei vinti, deboli, ammalati, emarginati (la donna tisica, madre e figlia povere e sventurate, la donna abbandonata dall’emigrante, dall’amante, la serva insidiata dal padrone) finché si giunge ai componimenti della malavita, del 1894, in cui i personaggi sono intagliati nel loro riquadro caratteristico con un linguaggio pertinente, quello dei malandrini, dell’onorata società, della picciotteria. Si ha una precisa immagine della desolata periferia cittadina di Reggio nel linguaggio «muttettusu, malandrinu»:
Si jaza, scjogghi, stringi la curria,
si ’mbivi sana n’ ’a buttigghja i vinu,
chhiapp’ ’a catarr’ ’e mani e cantulìa:
Su… d’ ’aparanza, sugnu camurrista,
e sugno ’u cchiù baienti malandrinu,
äundi u peri me’ faci n’ ’a pista,
a terra trema, trem’ ’a terra anzinu.
Figlie traviate, mamme in pena sono descritte con eccessiva compassione, con modi manieristici, i componimenti si arricciano in volute barocche, in concettismi e arzigogoli pseudo-concettuali per dare rilievo alle situazioni che riescono deformate dai diminutivi. Si insiste sulla vita amara del luppinaro «povarieddu e sfurtunatu», sui «basteseddi marichieddi» (poverini), sulla monaca sventurata in quanto monaca, sulla facile derivazione dalla poesia popolare:
sutt’ ’o juppuni i sita carmusina
’u pettu si muviva c’ ’a ’nnacata
tantu chi ’nn’appattava n’ ’arrigina,
‘e scjanchi larghj e beddi di n’ ‘a fata
com’ ’i stringiva ’a fadda ancumarina!
Saranno ancora i sonetti di scenadi malavita a innalzare l’arte: un capo mafia che oltraggia il subordinato con linguaggio preciso perché pur essendo lu nnamuratu (l’uomo che sfrutta la donna) non fa rispettare la donna dagli altri per cui è un pezzu ri schifiu, porta invano il revolver, è un vigliacco dell’ultimo grado ed è degno di essere sospeso dalle funzioni «pi tri luni, e pi tutta la stiddata» (per sei mesi); il picciotto galante è così descritto:
Cu’ maccaturi a ’nnocca strapindenti,
cu’ cappedduzzu ’a storta, ’a malandrina,
c’ ’a parti i sgarru, comu qualimenti
è picciotteddu fattu ’nta marina.
Il picciotto della malavita reggina è il sottoposto al camorrista e si deve guadagnare l’onore, deve essere sempre pronto alla lita (murriano); in Nnamurati la donna finisce morta all’ospedale, il picciotto fedele alla malavita (l’arburu) confinato in un’isola, lui che si vantava:
All’àrburu mi tegno d’ogni ura,
all’àrburu scjurutu i primavera,
su sempri Liu, e sta casanza crura
è ’u megghju scjuri pi la me’ carrera.
De Nava passa da un tema serio e concreto ai vagheggiamenti fiabeschi e pseudo-popolari:
Dicìanu i vecchi chi ‘nt’ ‘o nostru mari
‘nc’esti un palazzu di brillanti veri;
solu ‘nt ‘a ddu palazzu ponnu stari
i fati e li sireni currinteri.
Bisogna arrivare ai sonetti garibaldini del 1910 per ritrovare il De Nava migliore che fa proclamare al sindaco di S. Lorenzo, prima dello sbarco di Garibaldi, decaduti i Borboni:
Sona ’u tamburu e ’a vuci grida forti:
«Genti, vi faci ’u sindacu sapiri,
chi oggi pi lu Barbuni è ghjomu i morti» […]
Scappa Barbuni sempri d’ogni latu,
libiri i vaddi su, libiri i munti,
avanza Caribardi ed è aspittatu
d’animi amici supra a li strapunti […]
L’ideologia laica di De Nava è precisata in altri libri (Tra ombre e luci, 1902, bozzetti sociali; All’ombra del Vaticano, 1903, romanzo anticlericale; Il sangue di S. Gennaro, 1903, il miracolo svelato; Delinquenza e misticismo, 1903) che non sono stati valutati opportunamente dalla critica. Anche se incidentalmente ricordiamo Favole umane (s.d.), un libretto di narrazioni in cui la morale naturale è l’antitesi dei timori religiosi e delle paure tramandate (vediamo personaggi che hanno paura di Dio e fanno il male, altri che non hanno tale timore e fanno il bene); la morale sociale è incentrata sulla proprietà e sul matrimonio nonché sulla Legge in cui si riflette l’ideologia di chi è padrone. L’amore libero da costrizione è elemento importante per De Nava il quale fu in relazione con Grazia Deledda giovane; l’amore nacque per corrispondenza, dalla giovinezza e dalle comuni aspirazioni letterarie; ma «ci sono le nostre famiglie, le madri nostre», lo zio prete Sebastiano Cambosu al quale il De Nava pare troppo giovane; Giovanni propone a Grazia la fuga ma Grazia risponde che non fuggirà mai dalla «piccola, umile ma adorata casa paterna» per «un’avventura così arrischiata ed anche volgare, che susciterebbe uno scandalo enorme». Non molto dopo Giovanni si recò per lavoro a Nuoro dove viveva la Deledda ma non si curò di cercarla (e di conoscerla).
Pietro Milone (1867-1933) di Palmi in Picei e zanelli (1922) si ispira al genere narrativo-burlesco. Milone era autodidatta dotato di profondo senso critico, impareggiabile nell’innalzare fatti di cronaca a livello artistico, unico nei dialoghi in cui l’uomo colto parla in lingua e l’incolto in dialetto, abilissimo nel caratterizzare i personali con una punta di teatralità e di smisurata che rientra nelle qualità di grande artigianato del quale il vero poeta non può essere privo. Si vedano, in una satira, le conseguenze dell’ipotetico impatto di una cometa con la terra: i semanaroti che costruiscono una baracca di creta dura per far rimbalzare il bolide, i debitori che non pagano gli usurai, i santi che fanno miracoli; il poeta nel marasma interviene illuministicamente:
Scusati: na Madonna
tantu meraculusa,
cridu ca s’avarrìa
teniri sempri chiusa.’Mbeci tutti ssi santi,
senza nuddhu rispettu,
la portanu girandu
comu nu mariolettu!
I santi sono quelli che fingono unzione e santità. Altrove Milone prende in giro i seminaroti per gli eccessivi festeggiamenti per la visita del vescovo:
Vescovo, entusiasta
grande dimostrazione
ha benedetto in giubilo
il popolo carpone
[…]
vedrà il bel cimitero
nostro monumentale,
la fabbrica grastami,
congreghe ed Ospedale
(la lingua italiana usata dai figghj ‘i Barlaamo indica che si tratta di un proclama); satireggia (siamo nel 1902) giolittiani e zanardelliani i quali fingono di gridare contro i borbonici e in favore della libertà mentre
s’era pe chissi,
uh, facci di gaddhina,
mentìvanu addanovu […]
la furca e ‘a collettina!
satireggia ancora i seminaroti dediti a feste religiose con passionalità che fa piangere li petri de la via! (San giovanni
sudatu comu ‘n verru
[…] facendu sempri mossi
c’ ‘a testa, cu li mani,
parìa nesciutu pacciu,
parìa, mancu li cani
[…] Menu mali ca m’ézaru,
com’era dd’ha i Trovatu,
carti suspiri ‘i monica
chi mai ‘nd’avia provatu!;
parla con S. Pietro per avere in paradiso un posto che gli viene assegnato:
Anzi, di motu-propriu,
caru amatu Meluni,
d’ora ti nominai […]
sutta guarda portunt!
Però cu pattu e locu
mi cangi vita, sai!
Fai sempri opari boni […]
No jestimari mai!
Se no non isperare
mai di vedere lo celo
Ca mandu puru a tia
nt’o scuru, ‘o caddu, ‘o jelu;
svela l’ipocrisia di coloro che sostengono la continuazione della prima guerra mondiale per motivi di guadagno o dei retori che rimangono a casa
Io debbo con la stampa
mentre altri fa le spese
sollevare lo spirito […]
pubblico del paese
[…] Ora chisti su chiddhi
chi, dinnu, trovaggiaru,
per la più grande Italia […]
mentri si la mangiami
[…] O giornate di maggio, cara dolce stagione,
di speranze e d’italica rigenerazione!
Pietro Milone è stato fortemente trascurato dalla critica la quale non ha neanche considerato gli esperimenti linguistici miloniani che hanno arricchito la poesia dialettale di ammodernamenti mediante consapevoli intarsi in funzione ironica: sono intarsi letterari soprattutto danteschi biblici, evangelici, del linguaggio politico e giornalistico, intarsi che trasportano volontariamente lapsus, errori, travisamenti per dare una carica critica al discorso. Milone è l’unico poeta calabrese (sia in dialetto che in lingua) il quale esplicita la tecnica gozzamana della poesia prosastica citando Gozzano «stu giuvani pueta e malata di con, | si lagna di la vita, canta sempri gli amori») e imitandone i metri, intarsiando i propri innumerevoli autori della letteratura italiana in un dialogo culturale che è documento e poesia artistica in La cumperenza di li cumperenzi. Milone era libraio e legatore, nella sua libreria – detta la Zanichelli di Palmi, omologa di quella carducciana di Bologna – si riunivano la sera tutti gli uomini colti e professionisti di Palmi per lunghe conversazioni; nel poemetto ricordato (1925) Milone rievoca le conferenze sentite nei più diversi campi, la rievocazione è motivo per sperimentare il linguaggio dialettale arricchendolo di apporti diversi. Un esempio unico nella letteratura del Novecento calabrese: purtroppo non conosciuto e non valutato nel suo valore letterario.
Francesco Saverio Riccio nato nel 1890 a Girifalco, emigrò giovanissimo in America come artigiano, nel 1926 coi tipi del giornale «La Follìa» di New York pubblicò il primo libro di poesie dialettali, nel 1928 fondò il settimanale «Il colono», nel 1933 istituì una scuola per l’insegnamento gratuito della lingua italiana ai figli degli emigrati. La poesia può migliorare gli uomini lottando contro il vizio e i tiranni, il poeta è sempre dalla parte dei poveri con le proprie enunciazioni morali sulla natura umana, sul sacrificio del lavoro:
Ma la natura ne’ si cangia mai […]
ne’ cangia de la vipera lu denta […]
ed io pensava ca la razza umana
de sangu e mu’ s’abivara lu pana!
Tutti credono che in America vivano solo i ricchi: «Io viju imbecia tanta gente povara | chi tanta no’ nda vitti ’nvita mia». Il mondo progredisce ma «fina chi dura lu “mangia mangia” | dura la fama… dura la guerra!». Da queste citazioni si può notare il carattere moraleggiante dei versi di Riccio il quale tende più allo scherzo bonario che all’incisività.
A Crucoli nacque (ma visse a Crotone) Emanuele Di Bartolo (1901-1978), pediatra, il quale rappresentò in vari volumi in dialetto il mondo paesano delle figure di un tempo (fabbro, calzolaio, lampionaio) in ritratti umoristici, in scene patetiche notevoli per la maestria tecnica, per l’abilità descrittiva del poeta. Si vedano questi versi in cui descrive una tempesta al cui centro è una quercia:
’A cerza si torciva, si chjcava
mo’ ccu nu vrazzu, mo’ ccu n’atru vrazzu
e ’ru ventu, ostinatu, ’a zzinzuliava
comu nu canu zzinzulìa nu strazzu.
In altro componimento si domanda dove vanno i pensieri e i desideri quando ci addormentiamo: «Ddruv’è chi va ’ra negghia fitta e griggia | d’a smania, d’a ncertizza e d’a pagura?»
La tecnica di Di Bartolo è descrittiva e prevale sulla profondità.
Michele Pane nacque ad Adami di Decollatura I’11 marzo 1876 durante gli anni dell’emigrazione succeduti a quelli del brigantaggio. La madre era sorella di Francesco Fiorentino. L’ambiente del Riventino e dei villaggi pedemontani segnò alcuni caratteri distintivi dell’uomo quali la fierezza, la dignità, la sensibilità umana e la solidarietà verso i poveri e gli emarginati. Giuseppe Casalinuovo indicò – ma forse senza averlo personalmente conosciuto – alcuni tratti della personalità dell’uomo: «anche nella figura massiccia e nel viso largo ed aperto ha i segni vivi della nostra razza, è restato in tutto calabre-
se: il vecchio calabrese, ribelle ai soprusi, nemico delle tirannìe, insofferente delle prepotenze, tetragono a tutte le avversità». Pane seguì gli studi a Nicastro e a Monteleone in quei ginnasi ricchi di cultura umanistica e a Monteleone dovette sentire parlare di Vincenzo Ammirà la cui Ceceide e altri versi venivano tramandati oralmente come espressione del naturalismo popolare. Interruppe gli studi per il servizio militare quando ormai aveva assorbito la consapevolezza della lotta che in tutti i paesi della Calabria si svolgeva tra il vecchio e il nuovo, tra i possidentes e i proletari, tra finzione e verità. Nel 1898, mentre era militare a Foggia, scrisse e pubblicò L’uòminu russu, una satira contro un conterraneo millantatore e falso garibaldino Leopoldo Perri, strettamente legato ai falsi unitari. Per questo scritto fu processato a Lucerà e, difeso da Gaspare Colosimo, fu assolto. La cultura di Pane si cominciava a dispiegare nei suoi lineamenti: il primo stampo della cultura fu risorgimentale e garibaldino, un elemento nazional-popolare per il quale l’Unità d’Italia voleva essere non solo libertà ma anche giustizia sociale, libertà dalle oppressioni interne dei baroni e dei loro rappresentanti. Come le classi popolari Pane si trovo tra i delusi del Risorgimento e partecipò alla protesta contro la restaurazione politica che manteneva vecchi padroni e vecchie catene.
Il padre di Pane e lo zio Saverio avevano combattuto per l’Unità ed erano stati rinchiusi nelle carceri di Crotone; poi erano venuti gli «sciacalli» (che avevano «insozzato la camicia rossa»), la «trista genìa qui dei succhioni» profanatrice del lavoro «dell’arcangelo biondo di Caprera». Ancora nel 1949 il legame con Garibaldi rappresentante dell’Italia povera ed emigrante era vivo in Pane che pubblicava a New York Garibaldina. Rapsodia in dialetto calabro. L’eroe nel poemetto solleva Caprera dalla desolazione in cui l’avevano gettata i Susini, i Collins, i Ferracciuoli, la coltiva, la riveste di alberi, compie opere utili. Garibaldi appare come un patriarca «’ncammisa russa, tisu cumu ’nu gallu […] | russu e ardente sempre, cumu ’nu pipariellu», circondato dai fedeli e dai figli, dai calabresi Achille Fazzari e Manuele Papaleo, rievocatore arguto e distaccato delle imprese di guerra, degli avversari politici e dei generali, maestro illuminista di operosità politecnica. Il poemetto di Pane, documentatissimo, frutto di minuziose letture, presenta un Garibaldi uomo del popolo, maestro anche di vita e di storia a coloro che lo avevano perseguitato.
Altre direzioni della cultura di Pane furono l’elegos di Carducci cantore della decadenza della natura primigenia, il riflusso pascoliano verso il mondo della Romagna e dell’infanzia, la poesia sociale di Victor Hugo, il mondo dialettale calabrese di Donnu Pantu, Conìa, Ammirà, Butera.
Nel 1901 Pane ritorna in Italia, sposa Concettina Bilotti di Sambiase e riparte per Brooklyn. Nel 1906 il suo mondo poetico è già chiaramente delineato in Viole e ortiche nelle sue componenti nostalgiche e satiriche (purtroppo i critici non prenderanno mai in esame la personalità integrale del poeta, non si cureranno delle idee di Pane che considereranno solamente lirico pascoliano, «Pascoli della Calabria», «usignolo del Ri ventino»: tutte divagazioni pseudo-critiche e devianti). Negli Stati Uniti Pane svolse varie attività: importatore e venditore di vino di Sambiase, insegnante di lingua italiana in una chiesa parrocchiale, impiegato della banca Tarabella, rappresentante notarile ecc. Di letteratura si occupava collaborando a Follie diretto da Riccardo Cordiferro (di cui tradusse in dialetto calabrese dei versi italiani), al Progresso italo-americano, al Corriere del Connecticut scrivendo versi occasionali, pubblicando Accuordi, Sorrisi, Peccati e, per qualche anno, una rivista, «Il lupo», simbolo di libertà di vita e di idee. Nel 1924 lasciò definitivamente Brooklin per Omaha (Nebraska) e, poi, per Chicago.
Poeta in lingua e in dialetto, la sua lingua dialettale è anche un tramite conservativo di modi popolari dell’Ottocento. Fino a circa il 1930 Pane e conosciuto come poeta per i collegamenti che mantiene con il territorio in cui era nato e per gli almanacchi regionali calabresi che erano divulgati nelle scuole e che limitavano la sua fisionomia al nostalgismo e al ricordo della terra natale. Nel 1930 però un’antologia dell’opera poetica (Musa silvestre, Catanzaro, Mauro) a cura di Gabriele Rocca, arricchita di componimenti inediti, segna il successo in Calabria. Nel 1938 il poeta ritornò in Calabria per circa un anno in occasione delle nozze della figlia Libertà con Oronzo De Pascalis. La morte avvenne a Chicago il 18 aprile 1953.
Non si può dire che al di là degli estimatori (fra i quali Rosarino e Luigi Costanzo, Aldo Accattatis, Giuseppe Casalinuovo, Vincenzo Gerace, Agostino Pernice, Nicola Giunta, Giulio A. Berardelli, Vittorio Butera) e del successo presso un pubblico limitato la poesia di Pane abbia avuto ampia fortuna. La critica sistematrice ed ordinatrice della personalità, della lingua, è mancata e il poeta è parzialmente conosciuto, per idilli e nostalgie. Ci pare che sia un debito della cultura calabrese pubblicare le note, gli articoli scritti da Pane negli Stati Uniti, oltrepassare gli elementi familiari, nostalgici della sua produzione e delineare la personalità e le idee di un poeta che ha le sue radici nella protesta della Calabria di fine Ottocento e poi si volge, con respiro lirico più ampio, al ricordo del mondo primigenio della sua terra.
Una delle cause della mancata sistemazione critica della personalità di Pane è stata la scarsissima attenzione che gli studiosi hanno dedicato alla formazione dell’uomo e del poeta: l’attenzione si è riversata unicamente sul poeta lirico di pochi componimenti che sono stati esaminati, ripetitivamente, per la musicalità e per l’adesione alla formula di Pane «poeta della nostalgia». Ma tali «letture» denotano i limiti di una interpretazione antologica, impressionistica mentre quei componimenti erano l’esito di una elaborazione intellettuale-sentimentale quasi sempre trascurata dai «lettori» di gusto crociano. Veniva fuori, così, l’immagine di un poeta dominato dal «cuore» (Giunta), figlio della razza calabrese, legato all’innocenza, al paese, al casalingo, al focolare, un pittore, un musico, un nostalgico che, addirittura, «non ha geografia né tempo» (Pietro De Seta). Lo si calabresizzava e, nello stesso tempo, lo si destoricizzava facendone un assoluto fuori del tempo e dello spazio. Ma mentre si compiva l’opera di calabresizzazione non ci si avvedeva che si riportava il poeta ai moduli di una calabresità convenzionale e irreale, a un estetismo della regione e dei sentimenti regionali.
Altro motivo della mancata definizione critica del poeta fu l’ancoramento al modello dell’elogismo di origine settecentesca: Pane simbolo di perfezione morale, familiare, artistica, poeta intangibile e supremo, massimo poeta dialettale novecentesco della regione. L’elogio trito e facile si univa all’avversione verso la critica scientifica che sarebbe incapace di comprendere la «spinta emotiva» di Pane: la vera lettura si ha quando, leggendo Tùmbari, «non siamo più padroni di noi e dei nostri sentimenti» (Gaetano Susanna); chi critica senza immedesimarsi nell’opera obbedisce «al gusto sadico di demolire» (Ugo Campisani): in sostanza solo la critica esteticamente simpatetica con i «brani lirici» e col gusto rural-paesano di Pane può valutare – e in modo solamente positivo –, al di fuori di ogni processo intellettuale, la poesia di Pane.
Erano tali elementi gli ultimi residui di un crocianesimo sottoprovinciale che ha allignato tra i facitori di versi incapaci di giudicare culturalmente, nel quadro della storia culturale, un prodotto artistico senza considerarlo un transvalore, destoricizzandolo. La storicizzazione era, invece, il metodo per collocare Pane nel suo tempo.
La giovinezza di Pane si svolge negli anni della grande emigrazione calabrese transoceanica successiva al brigantaggio inteso come lotta di popolo contro la perpetuazione dell’assoggettamento dei contadini alle classi padronali. La devoluzione dei feudi aveva consegnato la terra ai galantuomini, col favore della dirigenza del nuovo Regno sicché i contadini calabresi, vinti nella lotta, emigrano mentre nella regione la resistenza contro i vincitori viene crescendo e si diffondono, dopo la piemontesizzazione, le idee anarchiche, repubblicane e socialiste. Michele Pane appartiene alla generazione legata al risorgimentalismo dei padri inteso quale speranza di pace e lavoro nel nuovo Regno: ma nel nuovo Regno la generazione di Pane sperimenta immediatamente la politica antimeridionalista e bellicista e solidarizza con la Calabria dei poveri arroccata nei desolati paesi montani vessati dalle autorità locali che sono la longa manus dei neoagrari e dei vecchi baroni. In questo contesto amministrativo-sociale (ma in primo luogo politico) Pane solidarizza con la vita dei poveri senza lavoro, abbandonati per necessità dai parenti emigrati, vecchi emarginati i quali servono chi li può neanche sfamare e ai quali la devota servitù alimenta come sopravvivenza una psicologia fatta di dolcezza, di aggregazione umana: i sentimenti teneri della difesa sono i futuri ricordi di Pane. In questo ambiente di poveri vivono i tùmbari, i pezzivecchiari, gli zampognari, i pecorai, gli artigiani, la folla di contadini, povere sono le ragazze dei sogni d’amore viventi in mezzo a povere cose: focolare, vita di vicolo, andate e venute dalla fonte, piccole feste, lavoro dei campi in una cornice di bellezza montana dominata dal Riventino acquifero e silvestre. I personaggi di Pane nascono da questa realtà dolorosa: Torà è una serva di tutti, i tamburinari lavorano in qualche occasione festiva, la fontana di Acquavona, del Giallu, di Surruscu sono le mete per attingere l’acqua, la zumbettana è lo strumento musicale dei pastori, lapriste e vurràjine sono i cibi degli indigenti. In tale ambiente il giovane Pane alimenta di «liberi orizzonti» – dove l’uomo non sia servo dell’uomo – la sua concezione della vita collegandosi con l’epos di Garibaldi che a Soveria Mannelli era stato seguito dai giovani calabresi e con la speranza di un socialismo umanitario redentore dal persistente feudalesimo. In questi ideali di libertà dai sopraffattori si rafforza la fierezza del giovane. Adami è
una forte rocca che non teme
i tiranni del mondo uniti insieme,
che sempre ha vinto i don Rodrigo infami.
Sovra il suo suolo nascono i ciclami
e de la libertà genuina il seme […]
Dalla parte opposta a quella dei poveri stanno, nel paese, gli sciacalli, i liccapiatti, i pisci grassi e anche il falso uòminu russu. Se non ci si intende su questo confronto si continuerà a vedere la poesia di Pane come quadro e come musica (e tali elementi non mancano: ma devono essere storicizzati e dialettizzati, vengono dopo e in conseguenza, non nascono per incanto; i tùmbari allora sono la festosa libertà consentita). L’uòminu russu (1898) fu scritto da Pane militare – era l’anno di Bava Beccaris – contro uno pseudo-garibaldino, vantatore, che avrebbe a dieci anni di età distrutto il brigantaggio, superato poi le imprese di Francesco Stocco e che adesso («vecchiu e sguallaratu», «cantina coscinùtu ed ha lla tussa») vorrebbe, lui, «capu-taburru e spia sutta Borbone», un monumento di marmo per meriti patriottici. Pane satireggia il reazionario borbonico, il girella che vorrebbe anche la cassa da morto tinta di rosso garibaldino: «Pittatu ’e russu vuogliu lu tavutu | de fore, e dd’intra ’e paparine chinu […]».
Il giovane di Adami si univa alla protesta politica e sociale che segnava l’anabasi della poesia dialettale calabrese con Antonio Martino, Bruno Pelaggi, Pasquale Creazzo, Pietro e Vittorio De Marco, Giuseppe Monaldo ecc. Per questo componimento Pane fu denunziato dai complici del girella (la «comitiva de Gasparune»), venne assolto e poté scrivere:
Crepàti, o liccapiatti!
Vinciv’io la primera
e, ppe dispìettu vuostru,
nun ce jivi ’n galera.
Vu’ eravu ’na mandra
’mbiata d’ ’u Barune […]
Tral’àutri ’randi jaschi
’nzippàti ’stu varrìle;
cangiàti sù lli tiempi,
abbasciu lu staffile […]
Cchi bella damingiana!
cchi biellu vumbulune! […]
cumu si cce ricrìja
mu vive Sua Ccillenza!
Pane si schiera contro la reazione baronale e può celebrare la vittoria dei «piscicìelli assai pìcciuli, ma arditi» contro i pescecani sicché «no cchiù lli pisci grassi | puotu fare i smargiassi».
Il poeta vuole lottare anche contro i nemici dei poveri, i prepotenti e gli usurai e in Trilogia (Nicastro 1901) il debotte che è in mano a Giosafatte Talarico e poi allo zio del poeta diventa strumento di lotta. Lo è stato contro prepotenti e Borboni:
jìa llu core forte a spaccare
de tutti quanti li preputienti,
ch’eranu e suni sempre serpienti.
De li gendarmi viju ’e fadelle
ppe le tue palle tutte grubate.
Ma i tiranni sono rinati con gli usurai che approfittano dell’impoverimento dovuto alla distruzione del tessuto economico patriarcale (anche in Martino, Pelaggi, Monaldo c’è lo stesso lamento) sicché «o mio debotte, li tui pallini | su’ ddistinati ppe lli strozzini» e le cartucce cariche di polvere avvelenata «è llà chi aspettanu fidili a tie | sempre nimici d’ ’e tirannie».
La Trilogia è importante anche perché in essa sono già gli incunaboli di un motivo ricorrente in Pane, quello della sua vita sventurata, carica di affanni, dispiaceri, pene alla quale sono di sollievo gli oggetti-affetti, gli oggetti quasi feticci (la tabacchiera, la chitarra a cui altri si aggiungeranno nella successiva produzione), impregnati di uso, tangimenti, atmosfere affettive e perciò consacrati al ricordo esclusivo:
Pur’illa ssi piruozzoli ha toccati
cchiù dde ’na vota ccu lla bella manu;
pecchissu io mo nun l’aju cchiù cangiati,
nzinca lla morte mia chissi cce stanu!
Pur’illa ssi piruozzoli ha toccati.
Anche parole-feticci, cariche di significati affettivi che vogliono essere intensi, troviamo in ‘A catarra: il diminutivo-affettivo catarrella, l’avverbio eternamente, l’oppressione tiempu trascursu che più non ritorna. Il tono è melodrammatico-sceneggiato (se il poeta fosse stato ucciso quando la finestra dell’amata si illuminava «dritta st’anima ’ncielu si ndejìa! […]») con accenti derivati dalle canzoni napoletane, le ripetizioni musicali mirano a creare l’incanto di verità che dal feticismo affettivo non può nascere. I critici estetici o quelli della «calabresità» simpatetica si sono soffermati quasi unicamente sugli oggetti dell’amore di Pane trascurando i sentimenti etico-politici che sono assai importanti. In Viole e ortiche (New York 1906) Pane raccoglie i versi in lingua e in dialetto con un preciso intento di poetica carducciana. La rima è uno strumento di espressione da cui, carduccianamente, possono nascere fiori per l’amore e saette per l’odio e Pane nella sua poesia ha pronte le saette:
’sta pinna cumu cardu
e cumu striglia rasca ogni zaguordu,
ogni vilune de cuscienzia luordu
chi vò passare ppe’ ’nu Carrubardu,
– mentre nun vale quantu fàuzu sordu –
ogni riccu ’gnurante ed ogni ’ngordu.
Rascandu dicu: vue chi de lordura
appestati, veniti a ’st’acqua chiara
ppe’ ve lavare, cà pue la jumara
’mbija lla surra e ’ngrassa lla chianura;
e tu, funtana de l’Addame cara,
chi cum’ ’u core mio sì netta, chiara,
lava le porcherie a Dicollatura.
Pane era dovuto andare via dalla Calabria anche per «le porcherie» di Decollatura, della vecchia Calabria trasformista che lo aveva processato:
chi, ccu’ facce cumu pella ’e rana,
dice ch’èdi ‘n’eroe, ’nu patriottune,
– quandu fo sulu spia d’ ’a guardia urbana –
’stu core nu’ llu soffre, o mia funtana.
La poesia non era musica o quadro ma ortica e frusta contro gli ipocriti, usurai, sfruttatori, crispini, traditori, ex borbonici, manutengoli, ladri del Comune, la cosiddetta banda «di Antonio Gasparone». Gli sciacalli comprende tutti costoro:
Chi sono? Quanti inneggiano?
a Crispi imputridito ed alla forca;
quanti han di Giuda l’anima
nefanda, ed hanno la coscienza sporca.
Chi sono? Quanti furono
un dì cagnotti del Borbone e spie
ed oggi han la pagnotta del Governo
e parlan d’eroismo per le vie […]
quando fur manutengoli
d’ogni peggiore specie di banditi,
quando s’appropriaron del Comune
le terre e il censo, i vili parassiti […]
La vecchia Calabria saltata sulla diligenza unitaria è aggredita da Pane il quale ricorda l’italianità del padre e dello zio Saverio, dei veri garibaldini, contro i lupi del Comune:
Quali i lor nomi? Sentonsi
ripetere pei borghi e per le valli
da tutti i bimbi in segno di ludubrio:
i «lupi del Comune! Gli sciacalli!».
Il poeta invita il patriota scomparso Pierantonio a levarsi contro la nuova genìa di tiranni e tirannelli locali:
Dica: O sciacalli immondi, giù le maschere!
il vostro giorno ormai già volge a sera;
non profanate il fiammeggiante labaro
dell’arcangelo biondo di Caprera!
L’impegno civile, politico, umanitario traspare fin dal primo componimento in cui le viole sono invitate a posarsi sui «miseri abituri», sui «bimbi de la plebe nascituri» a salutare «la lotta ed il lavoro». La scelta di classe è precisa in Brindisi:
Io bevo alla salute
di tutti i poverelli,
che vivon sotto il sole
e che non hanno pane;
di tutti gli orfanelli
che han le madri perdute,
e come le viole
crescon senza dimane.
Alla salute pure
della plebe sfruttata,
ramingante, rejetta,
che vive sulla terra;
noi la vedremo armata
presto di face e scure,
di terribil vendetta,
fare la santa guerra.
Alla salute ancora
dei compagni di lotta,
a cui pulsa nel core
lo stesso mio ideale;
per i borghesi annotta,
per noi splende l’aurora […]
Nello stesso tempo il poeta di origine carducciana, anch’egli corroso dal «malor civile», si ritaglia un suo posto lirico tra la delusione carducciana (degenerazione del primitivo, decadenza, abbandono della forte terra natia) e la delusione pascoliana (distacco dalla patria, nostalgia della casa dell’infanzia, accumulazioni di sventure, sentimento della morte e ricordo dei morti) offrendo un singolare spaccato letterario di quei riflessi. La madre è accomunata al dolore della partenza dalla Calabria: «E da quel giorno è stato un triste errare | in terre ignote fra straniera gente». La terra natia con»le fresche fonti ed i molin che crosciano | per le pendici all’ombra dei castani», con i ricordi epici del 1848 e del 1860 diventa un elemento primigenio di forza della natura e del sentimento, «dove l’amore e l’odio non han limiti» (Carducci: «ov’odio e amor mai non s’addorme»). Nel ricordo anche la Calabria ha il suo «Passator cortese» ed è Giosafatte Talarico «ch’era il re della Sila ed il terrore», «uomo forte, antico» al quale una fata concede il suo amore purché egli sia «sempre nimico | del ricco prepotente e dell’avaro» e «ajuti, ovunque, il debole, il mendico». In questo mondo primitivo l’olmo prossimo al sagrato (dal quale i giovani si erano mossi per andare presso Garibaldi a Soveria e dirgli: «Non vogliamo più despoti e ribaldi») è il libro delle memorie:
Non ci narrò che il basto e la cavezza,
per i nostri avi fur cose irrisorie
e mai ci si adattaro, e con fierezza
dei don Rodrigo sfidaron le borie?
Sotto l’olmo si parlava con l’amico «cuor gentil di poeta, e paladino | del Socialismo e tempra di rubello!».
Sotto l’olmo, infine, si commentava il latino di Ovidio («che non è quel del messale») e mentre i mietitori erano infocati dall’estate
il panciuto Epulon, sazio, a quest’ora
tranquillo dorme, e quella gente intanto
per chi sta in ozio ad impinguar lavora;
falciate, o mietitor, falciate… il canto
vostro saluti la novella aurora,
annunziatrice del gran giorno santo.
All’epos il primitivo si uniscono quello carducciano della storia e quello della cultura popolare. La Sila è simbolo delle virtù militari calabresi (i 150 di Vigliena che si oppongono ai sanfedisti, Agesilao Milano), di quelle culturali, (Parrasio, Telesio, Campanella, Fiorentino), di quelle democratiche; la Sila è stata rifugio di Giosafatte Talarico, dei compagni di lotta, di quelli che sperano nel «riscatto umano», degli antitiranni «che al servaggio giammai chinar le fronti»; il vento della Sila mormora:
L’ora di morte è già scoccata
per tutti quanti gl’idoli di creta […]
Gli abeti servono per faci […]
e i prepotenti metteremo in croce […]
a la tenzone
ché de l’autocrazia giunta è la fine!
Cadono infranti, in mucchi di rovine,
dei despoti gli scettri e le corone.
Il Riventino è il «titano» sul quale il poeta declama agli amici il «che m’importa di preti e di tiranni» di Carducci e il canto giunge nel suo significato libertario e umanitario «ai sofferenti di dolori atroci, | ai raminghi, ai rejetti ed ai mendici».
Antitirannide, sentimento della natura primitiva, della poesia e delle leggende popolari, della giovinezza che si allontana, del riscatto degli oppressi ci portano in quella zona di poesia che in Emilia e in Romagna ebbe Severino Ferrari tramite fra Carducci e Pascoli:
Una bella canzone rusticana
arriva a me da lunge dolcemente […]
Lassù sognammo noi come poeti
tanti castelli d’oro, or diroccati […]
Quel mondo si anima di ricordi e di personaggi: tùmbari, pezzi-vecchiari, zampognari, bagni nel vullu, fòcara per Natale vivono in quest’atmosfera culturale e sono caratterizzati nella liricità dalla nostalgia verso un mondo primitivo. Predomina nei componimenti in cui sono cantati tali motivi l’elemento ludico-mimico: tutto un paese gioca al rintrono dei tùmbari (i bambini che li accompagnano, le madri coi figli, anche i galli gareggiano), gli innamorati si abbracciano al suono della zumbettana, i ragazzi saltano, nuotano nel vullu che hanno costruito ’ntoppando l’acqua e progettano di vendicarsi contro chi lo ha sciollatu («l’hàmu ’e grubare, pardìo, ’u villicu»), rubano la legna per incatastarla sugli zucchi e bruciarla («Linguijandu saglìanu li vampìli | ’mbersu lu cìelu e parc’avìanu l’ali»), alla fontana si trovano «furracchie e quatrari ’nnamurati», al focolare si radunano vecchi, bambini e si raccontano rumanze. Luoghi e personaggi dell’aggregazione paesana, della solidarietà delle feste rivivono nostalgicamente anche per mezzo del richiamo delle voci dei venditori, dei motti di risposta, delle onomatopee (bràbita brùbiti, bràbita brù, pepole-pili, lliri, mpillirìri), dei gorghi del vullu, delle montagne che incombono con cavuni, del mulino la cui acqua scruscia cantando. Ma luoghi e personaggi non esistono al di fuori di quella condizione antropologica di povertà, di difesa, di necessità di aggregazione, di festosità autentica ricca di leggende che hanno le radici nella vita popolare. Quando il paese non è ludico, nelle sere d’inverno, il focolare è il luogo dove si radunano vecchi e bambini e si raccontano favole:
Quante rumanze de magare e fate,
de guerrieri e dde prìncipi sperduti,
de rigine chi l’Uorcu avìa cangiate
a tropp’ ’e rose, ad ageluzzi muti!
Quante storia d’amure ’mpassionate
successe ’ntra paisi scanusciuti,
quante belle fattue ’e Dragumanti,
quante longhe passate de briganti
ch’io nun sentìa lla sira attient’attientu,
scappandume le lacrime ogni tantu!
In tali tradizioni orali antichissime si perpetuava la psicologia collettiva e individuale soprattutto nei paesi montani della Calabria, si rafforzavano i sentimenti di giustizia e di umanità; l’ambiente tramandava la filosofia popolare che vede le contraddizioni della vita, gli esiti infelici per la lunga abitudine alla subalternità e alle sventure
(la vita è ’nu misteru,
l’amure è ’nu disperu,
la fama è ’nu dittèru,
lu mundu nun è sinceru),
le disgrazie che colpivano il paese col fuoco e il terremoto, la disgregazione suprema della morte:
’na casa s’è vrusciata […]
cédenu ’e case pare […]
ch’èdi mortu stanotte
ccu’ llu male d’ ’e vrotte […]
In questa dimensione antropologica del paese si possono leggere i componimenti di Pane, nella ricreazione di una personalità forte e risentita – altro che «l’usignolo del Riventino»! – che su quel paese feudale e oppresso di dominati si ripiega con la nostalgia del ricordo («Mo’ su finute chille pazzie», «Mo’ luntanu de tie», «mo’ su morti») di un tempo, delle persone, dei fatti e delle cose e identificando con quel tempo la felicità secondo le forme tecniche di Carducci e Pascoli e della letteratura popolare.
Pane è uno dei principali poeti erotici dialettali calabresi. Tutti i critici – nessuno escluso – intesi a vedere il Pane come il poeta della famiglia, del focolare si sono rifiutati di esaminare la poesia erotica o hanno cercato di ricondurla, come ha fatto il Costanzo, nei limiti dell’eros consentito dei patti socio-letterari della convenienza. Così a proposito di Peccati (New York 1916) hanno parlato di «giovanile e inquieta esuberanza» e hanno tentato di dire che il poeta rifuggiva dalla volgarità (che sarebbe insita nell’eros). Le cose non stanno affatto in questi termini. I lettori che dimidiano Pane salvando il lirico e condannando tutti gli altri aspetti non rendono un servizio al poeta il quale ebbe una personalità complessa che si collega anche al filone erotico-ludico popolare della poesia dialettale calabrese, alla tradizione che da Donnu Pantu giunge ad Ammirà. In sostanza i critici hanno censurato tale filone artistico di Pane che è difforme dal preordinato cliché di un poeta tutto casa, famiglia, figli e focolare. Pane, invece, fu cantore della libertà e della trasgressione erotica, l’eros naturalistico fu per lui modo di conoscenza della realtà, elemento di verità. Fin dai primi versi Pane si rivolge ai critici-censori armati di «fùorfìci buonu affilati» per confessare come veniali i propri peccati d’amore: alla sua vita «le fìmmine», «lle gunnelle» hanno dato le ore migliori, per le donne è rimasto come «ramingu cane livrìeri» e se in gioventù esse furono una smania, per lui ormai maturo sono una delizia («puru me tàntanu a 40 anni […] | ca ppe’ puntillu, cuntra i malanni, | tìegnu ’nu baculu de li cchjù tùosti»). La prima donna di questo poemetto erotico è Anna, chiamata con vari appellativi per le sue virtù, dalla quale supplica
nu schicciulune ’e latte d’ ’a tua minna! […]
rifrisca tu l’arsura, ch’aju ’n canna!
Tu, chi d’ ’a vita mia sì lla culonna,
Anna, cantarne tu la ninna-nanna;
fallu ppe’ carità, dùname nnenna,
ca ccu’ llu latte tue lu ’ngegnu ’mpinna!
Per Pane la donna è linfa vitale e le radici dell’eros sono rural-paesane, nel ludico che fa parte della cultura popolare. La donna è calore di vita, il suo rapporto essenziale è con la vita stessa e se l’uomo muore «Anna, sant’Anna, Madonna, Culonna, | lu campaniellu tue, chi ti lu ’ntinna?».
La metafora sessuale è sempre ludica e popolare. Anche in Cuntrattu la donna, una vedova, simboleggia la vita rigogliosa:
Jetta
vampe de l’uocchi, pieju de ’na gatta […]
ppe’ lli tratti e llu trùottu null’appatta […]
Hadi ’na capillera nìura e fitta
e cchi pumette belle e cchi pagnotte!
Il marito è morto per l’eccessivo uso e la metafora sessuale del mulino e del macinare è centrale:
Lu maritu, ppe’ jire a Serrastritta
troppu allu spissu, le morìudi spattu;
le lassàu ’nu mulinu e mo’ ’st’affritta
l’ha chjusu, ca nun c’è ’n’uominu adattu
mu la ’ntrimòja […]
dùname lu mulinu a mie ’n’affittu […]
e ogni notte ’nu tùmminu de vittu
t’accìertu curmu: vadi lu cuntrattu? […]
e àji voglia ’e viscùotti, s’hai pitittu!
Alla donna che sta alla finestra ad attendere il poeta ricorda che breve è il tempo della giovinezza e l’attesa fa finire tra le beghine:
doppu siccata, nullu cchiù t’arrasta! […]
e’ogni cosa lu tìempu strugge e guasta […]
Quand’una è frisca, ’mbillutata e pista
cce ha dde pensare, no doppu chi ’ntosta;
dìccilu a mma tua, sinnò alla lista
te mìntenu d’ ’e scoccia-paternosta […]
Per la donna si affronta ogni ostacolo, sia la sfida del rivale («’Na sula mossa e lle scavu la fossa | a ssu fissa, chi fàdi lu smargiàssu») che la madre della donna la quale pretende per la figlia un miglior partito: «Dduve te cridi c’ ’a sajìme spande, | a mala pena li càuli te cundi!».
Ma se la donna è una «maistrella d’arroganza» perché si ritiene ricca il poeta, il quale sa che la superbia è figlia di ignoranza, gira alla larga: «Cc’è differenza tra farina e granza […] | c’è chi aspetta d’ ’u cielu ’na piatanza | e chine, cum’e mie, ’nde fadi senza».
In Lu sona-sona le metafore sessuali sono evidenti nell’invito a Filomena a raggiungere in fretta l’acceso amatore:
Lestu, spalanca ssu tue vignanu
e, chianu-chjanu, cala la scala
– vieni ’n cammisa –;
si scoppa pàtritta, succede mala […]
Lu Catacusciu sinnò se chjatra,
lu sona-sona sinnò s’appizza! […]
eccu, io l’affierru ccu’ la mancina
cumu tinaglia, de ’na ’ncinaglia!
Oi Filumena, quantu sì bona…
oi cumu t’haju disiderata!
Tuni me sani!… (’ntona e rintrona
lu sona-sona, ’ntra la nottata).
Il ritmo è concorde con la situazione sessual-carnale mentre in qualche altro componimento il poeta rappresenta la donna dispettosa e bella («uocchj-pizzuta cumu spiti») che critica la figura e la personalità dell’innamorato:
E ccu llu vicinatu me chjetati
ca sugnu curtu e ca nu’ me voliti:
ch’àju la cera de li cundannati
ed haiu l’uocchj de li ribambiti […]
In altre situazioni la donna è «de melissa | ’nu gileppu», «’na galissa». La calabrisella è «tènnara e purpusa, | sucusa e addurusa», cammina dondolandosi:
Se zizìja e camina lesta,
’mpunta de piedi
cumu ’n’abballarla.
Davanti è giusta, chjna;
ma dei nùoffi e d’arrìedi
è pulitra stallina!
La bassa statura non impedisce al poeta di giungere a una certa altezza della donna-stendardo:
Su’ curtu e dde la zizza
s’ed ’àuta – assai liccardu;
pìcciulu gattu-pardu
ma jùngiu alle cannizza.
Se Calavrisella fila il poeta la vorrebbe tra le sue braccia e
l’àstula, ecu’ sputazza;
ficchéra allu pertusu
strittu, Calavrisella!
Se tesse vorrebbe che gli facesse «lla navetta | ’na sula vota inchjre!». Se lava «allu cavune»
lu sue nazzichijare
– stricandu lu sapune –
me fa cumu stallune
forte forte sbuffare.
Tandu vorrà lla sorte
pemmu ccudd’illa stricu
chista mia nìura pella;
pùlice, allu villìcu
io de Calavrisella,
e ddoppu pue la morte!
Questa Calavrisella di Pane non è quella del falso popolare dei cartelloni turistici ma è la donna ricca di istinto, forza della natura la quale usa gli attributi erotici come elementi connaturati all’ambiente. In Forebandìta il poeta presenta una donna-bandera «diritta cumu canna» con «la capinera castagna-brunzita» e «la vucca rossa cumu ’na ferita», «spaccunissa» nel vestire, «maestusa ppe’ llu caminare!» la quale una sera fugge con lui: «’n’accumpagnau dei cani lu ba-bau, | la luna e lu chjù-chjù de lu scrupìu!». Durante la fuga il poeta maneggia la sua preda «(la manijài, le muzzicai lu nasu | e lu cùollu ccu’ raggia de mannise!)» la quale protesta gustosamente contro i furori eccessivi:
a ’sta mia carne, ch’è gentile e fina,
cussi ti cce fai la milingiana;
mùzzichi cumu musca cavallina
pari ’nu lupu, nesciutu d’ ’a tana!
Gli innamorati trascorrono la notte in un burrone facendo «le cose ccjù gustuse de ’stu mundu» le quali sono quelle che si fanno di contrabbando e che valgono più della fama di poeta: «Oh, le vasate allu sue cùollu tundu | vàlenu ’a fama chi vaju circandu!».
L’amore per Pane è quello che implica il rischio, la sfida, la trasgressione: per amore delle donne il poeta è rimasto «cumu ramingu cane levrieri», «l’amure édi ’nu ’breu chi ’ncanta all’asta», per amore l’innamorato sfida genitori e pretendenti dell’amata, provoca la donna superba e la pentita (che andrà all’inferno), la donna degna d’amore è preferita a «Dante, Ariostu, don Petrarca e Tassu!», la donna «stendardu de battaglia» è esaltata per gli attributi sessuali:
ma d’illa culinuda
mi ’nde restàu llu scilu […]
quantu ’nde fa llu pilu! […]
La vuogliu scapillare,
le scippu la gunnella e ddoppu… mi la pappu! […]
cci l’appricài alla pella;
– O rifriscu, o ristùoru! –
La maggiore felicità non è quella del papa o del re ma quella erotica che si gode di contrabbando: «ppe’ mie viàtu è sulu chi ’na ciòpa | – forebandu – se munge cumu crapa!».
La trasgressione erotica con l’innamorata avviene nei boschi («l’aria frisca frisca | movìa lle frasche e a mie dava ’na ’mbasca») tra le grida notturne dei pecorai che allontanano i lupi mentre la donna invita all’amore:
’Ngàttate, ’gatta
mmienzu le vrazza mie, supra ’stu piettu
cumu ’nu piccirillu quand’allatta».
Oh, fórra muortu supra lu sue piettu! […]
Ne dìsseru lla ninna nonna i grilli
e ll’acque chi scindìanu ’ntra li valli;
ma chi dormìa? Cantàru pur li galli
e nue abbrazzati; collàru li stilli
e nue – li spalli rutti – e dàlli e dàlli
’nchjovàti llàdi, cumu dui puntilli!
Un elemento continuo in Pane è quello contro i letterati che criticano (i «ra-crìtici»: molti dei suoi futuri censori, riduttori dei suoi versi a musica!) l’eros e si chiudono nella «gròlia» delle «scartoffie». Se egli avesse lasciato da parte le donne «a ’st’ura fòrradi ’nu […] liccacàtu, | ’ncenzatu ’e tutti ccu’ llu ’ncenzìeri».
Né il poeta s’ingannava sulla censura che i letterati avrebbero fatto di questi versi ritenuti licenziosi e che, invece, continuano la tradizione della letteratura calabrese erotica ludico-mimica. Anche in Lu Calavrise ’ngrisatu (New York 1916) Pane riprende quella tradizione quando espone il significato delle parole apprese in America:
fessa la facce, oi tà, cce cridi tu? […]
Cecacu
e Pisciacchilli, Cazzacchilli e Pìritu,
e l’O’ mà-fadi, ccù llu… Misciccà! […]
pilu è llu catu
e culu lu carvune […]
L’Americani ’un su’ gelusi e perfidi
– cum’è nue Calavrisi – su’ cazzuni:
si avanti ad illi le manìj ’a guàif
– eh’è lla mugliere – te dìcenu: hurré!
Pane non diede di sé l’immagine edulcorata che i critici crociani (si veda anche la lettura parziale, dimidiata, della Rina Di Bella, affidata alla superficialità etica ed estetica) gli hanno assegnata ed alla quale hanno fatto coro gli elogiatori incapaci di percorrere criticamente la poetica, le idee, la personalità del poeta. Pane andò in America perché fu politicamente perseguitato e non trovò lavoro nella sua terra, continuò a lottare per i suoi ideali ed espresse la sua nostalgia per i luoghi di origine. Di tale nostalgia, invece, alcuni critici hanno colto il carattere di contrapposizione al mondo degli affari americano.
In Sorrisi (New York 1914), che comprende componimenti scritti per i figli, Pane pone come epigrafe i versi di Parini sulla libertà interiore, sulla lotta contro le ricchezze, le frodi e la viltà:
Me non nato a percotere
le dure illustri porte
nudo accorrà, ma libero,
il regno de la morte.
No, ricchezza né onore
con frode o con viltà
il secol venditore
mercar non mi vedrà.
La vita rustica. Il poeta riprende quei motivi rivolgendosi al figlio che in onore «d’ ’u ’rande Prufeta e saputu | modellu ’e Giustizia e Virtù» aveva chiamato Salvatore Victor Hugo:
Chi ’mpòrtadi a me de li nobili,
dei ricchi, dei mali e saccienti?
Se sa: vriscignuoli e serpìenti
ca dintra lu mundu cce su’!
Il poeta non sarebbe andato in America se non avesse avuto bisogno «(e si bisuogno ’un’àverra | nu sterra mai pàtritta ccà!)» ma «la Patria | ’nu struozzu de pane ’un l’ha datu».
Pane insegna al figlio che la società è divisa in classi e che «li tanti sbafanti arroganti» hanno «fracca, i brillanti, li ’nguanti», che «i puorci ccà fannu i galanti | e giurano i fàuzi»; ma egli ha continuato a lottare quanto più la sorte era avversa e continuerà:
e nudu, ma lìberu spìrìtu
– ’nu jurnu – me coglie la morte;
ma lindu de màcule e fraudi,
mai saziu de libertà.
Per la Di Bella (esaltatrice del «mare di gioia idilliaca» di Pane) nell’espressione di questi sentimenti «è come un neo». Allo stesso figlio (non casualmente una figlia è chiamata Libertà) Pane, in altro componimento, raccomanda: «che possa tu crescere libero | e grande di mente e di cuore»: tenendo presente anche questa componente illuministica (insieme con quella classica, sociale, popolare) la personalità di Pane appare quella di un poeta colto, integralmente calato nel suo tempo, di passaggio dal vecchio al nuovo, con le sue reazioni contro il persistente feudalesimo dei galantuomini in Calabria e contro il consumismo industriale e l’affarismo americano: con tali presupposti e con l’adesione ai sentimenti primigenii della natura dei luoghi in cui è nato, al binomio di virtù e ragione si può meglio intendere il carattere lirico della nostalgia verso un mondo che era l’antitesi della violenza economica calabrese e americana ma del quale il poeta promosse sempre il riscatto umano e sociale.
La poesia popolare riscoperta in Italia nell’età del positivismo offrì a Pane i modi espressivi della schiettezza e della naturalezza. Il punto di partenza era la ripresa di motivi popolari come radici locali della cultura nazionale e spesso quelle radici vennero ritrovate in Toscana e nell’Italia meridionale in relazione agli studi sull’origine della lingua italiana. Pane fu tutt’altro che estraneo a questo movimento di riscoperta che, anzi, si trovò in coincidenza con il suo amore del primitivo e dell’energico, delle tradizioni calabresi come pars magna del patrimonio della regione. Il poeta conobbe, oltre Carducci e Pascoli, i poeti carducciani, i Nuovi goliardi che cantarono gli affetti familiari, l’amore, la fine della giovinezza e che costituirono il passaggio – avendo alle spalle il gusto carducciano della poesia antica – verso la lirica moderna di Pascoli. Lo attrasse la poesia delle forme chiuse, quella delle ballate e dei rispetti tre-quattrocenteschi con la facilità delle rime ripetute, delle rime interne, con i paragoni lievitati verso il sognante, con gli interrogativi migranti verso il vago. Le riprese musicali alleggerivano le strofe sciogliendo la potenza affettiva con le ripetizioni e stemperando la passione e l’ardore in tenerezza cantata, ingentilendo i contrasti nel passaggio dalla realtà verso il sogno: tale tecnica di orchestrazione si prestava mirabilmente a rappresentare la ricchezza mimetico-ludica di Pane il quale deve, sempre, accompagnare con gesti e movimenti le tendenze dell’animo, fare alzare o abbassare il tono della musica a seconda del grado e della convenienza (e della tradizione letteraria) del sentimento. Se leggiamo di ’A serenata (di Viole e ortiche) la prima sestina che ha inizio con Risbìgliate d’ ’u sùonnu, o dormigliusa l’insistenza è fonico-ripetitiva per fare svegliare l’innamorata ma perché il risveglio non sia grave seguono le parole carezzevoli della poesia popolare: «Facciuzza janca cumu la vambàce, | tuni chi sì dde l’uocchi mie ’la luce […]».
La tendenza è quella di cullare musicalmente il verbo perché sorga l’atmosfera di una tenerezza che esprima, però, passione. Infatti un elemento psicologico di fondo in Pane è il sentimento di passione che deve essere espressa quanto più mimeticamente è possibile: secondo i modi, cioè, della canzone napoletana che rispondeva alla forza naturale (e alla sua iperbole) e alla sostanza scenico-melodrammatica che si smorzano nella musica. E la canzone-passione, diffusissima tra gli emigrati in America
(Vaju allu sciò e puru alla Grandopera
certe sire ppe’ séntere a Carusu […]
ch’à ’na vuce tonante cchiù dde l’organi
e jire ’mparadisu a tutti fa
in Lu Calavrise ’ngrisatu) il genere che condensa gli stampi psicologici dell’invito a svegliarsi (in Di Giacomo svegliarsi è vita, amore, miracolo, partecipazione), ad affacciarsi (Pane: «si nun t’affacci tuni, io nun ce viju»); in essa è il suggello avverbiale dell’assoluto: «eternamente!». La serenata napoletana ha lo stampo psicologico (come Carducci e Pascoli avevano quello letterario) del paradiso perduto, delle speranze cadute con la partenza dell’amata. Al canto sceneggiato (che soddisfaceva la necessità mimica) si devono aggiungere gli elementi passionali e psicologico-figurativi del tango attinti da Pane in America (e fra i calabresi di America): tango-perdizione, tango-spettacolo, tango-transfert del sentimento non goduto e, perciò, assolutizzante le potenze affettive calabresi che mirano sempre a un aldilà sentimentale di partecipazione, di alto riconoscimento dell’io («d’ogni festa d’abballu su’ lu chiòchiaru, | pperché lu tangu abbai lu ’mpiriolè» in Lu Calavrise ’ngrisatu).
La trasfigurazione artistica dalle potenze affettive verso l’ineffabile e il musicale è documentata dalle traduzioni in calabrese di Serenata di Carducci, ’A tessitrice, Lavandare e Luntana di Pascoli, Ritratta di Marradi, ’U core mio di Stecchetti, ’U tilaru di Padula e A rigina de i vuoschi di Riccardo Cordiferro direttore di La follia di New York. Le traduzioni di Pane sono delle scelte di gusto popolare, uno scavo nella psicologia del leggendario, del sogno come i dialettali Canti di intonazione popolare. In essi la saggezza della cultura popolare è liricizzata e passa con i suoi contenuti di fatalismo, di infelicità, di progetti che svaniscono in un istante, nella poesia di Pane la quale si arricchisce della tematica etica e sentimentale di un popolo nei cui canti si riflettono soprattutto le sventure:
Tuttu lu bene mio l’ieppi alla fassa
quand’era criatura e ’un capiscìa […]
Tutte le cose a mmie cuntrarie vannu:
l’acqua l’asciuca e llu sule m’affunde […]
Curmai ’na donna d’amuruse cure
e n’àutru ’nd’ha llu core ed io lu fele! […]
Quandu nun sai lu core de la gente,
cchi ti cce minti arraggiunare a fare? […]
Fràtimma, si lu puorcu nun t’ammazzi,
nun fai né suppressate né sazizze […]
Senza l’apporto psicologico del sentimento appassionato, della trasfigurazione delle potenze affettive e la mediazione della cultura popolare fatta di eros, di saggezza, di motivi di infelicità la poesia di Pane non avrebbe raggiunto quegli accordi lirici che si sollevano da un mondo primitivo e paesano sentito nell’esilio come perduto e irrevocabile. Questo lirismo nasce dopo le amare esperienze calabresi giovanili e quelle americane della maturità. Le esperienze calabresi avevano dato luogo alle «ortiche», quelle americane sono il punto di arrivo di una coscienza morale che non accetta l’inautenticità dei rapporti umani. Pane lirico è l’emigrante-zingaro che nell’alienazione americana trova un punto fermo nella Calabria del paese e della montagna (non in quella degli sciacalli già ripudiata), una Calabria che coincide con l’infanzia e la prima giovinezza:
Miègliu gliri ’ntra cupe de castagne
o appriessu de li puorci ccu’ lle vrogne
ca stare alla cità ’ntra le magagne,
li cumbiegni, le tigne e lle vrigogne!
Nell’America il poeta non raggiunge il benessere e in una lettera da Chicago del 29 agosto 1930 a Giovanni Tucci scriveva: «[…] con tutti i 54 anni che ho sul groppone, lavoro come e più di un giovine». Aggiungeva che non comprendeva l’inglese («Ho sempre avuto un’avversione per la lingua inglese (questa è stata la mia gran rovina)») in un mondo in cui tutto è affari e in cui anche i giornali, «anche quelli che si stampano nel nostro “idioma gentile” non curano altro che il business!». Importanti sono le notizie sulla grande crisi economica del 1929:
[…] quest’America è sotto l’incubo d’una tremenda crisi finanziaria. Vi sono milioni di persone a spasso; né vi è speranza alcuna che le cose si rimettano per ora nello stesso normale, poiché l’inverno è vicino. Centinaia di banche son fallite e ne falliscono alla giornata; migliaia di fattorie son chiuse, impiegati ed operai licenziati in massa, fortunato chi non ha perduto il posto, anche se ha avuto ridotta la paga a metà, come nel mio caso! E permettimi lo sfogo: s’io viveva stentatamente con la paga intera, potrò continuare percependo la metà di essa? Sono scoraggiato! Fortunatamente, ho l’aiuto di mio figlio, il quale sta facendo da tre anni sacrifizi eroici!
Con tali esperienze l’adesione di Pane alle proprie radici – verità e naturalezza – si ritrova in Accuordi e suspiri arricchita di liricizzan-
te nostalgia verso la piccola patria povera ma ricca di umanità e di solidarietà. Il poeta, passato attraverso la tecnica della canzone napoletana, dei modi popolari, di cadenze ripetitive orchestra melodicamente i suoi componimenti secondo accordi più moderni – anzi contemporanei – mediante i quali si avvicina al Di Giacomo, al tono psicologico di chi ama l’amore come condizione di felicità. L’ispirazione è sempre quella del paese, dei ricordi richiamati come oasi nella «notte nìura» che fa da sfondo. Tuttavia la contrapposizione è troppo simmetrica e i modi popolareggianti troppo iterati perché non si cada nel ripetitivo del «tiempu chi fu», dell’anima vicina anche se la persona è lontana, dell’ingentilimento poetico della donna ricordata secondo modi della tradizione letteraria. Il poeta compone di continuo l’immagine di sé esule per necessità, costretto all’abbandono della madre, della terra natia, del focolare, oppresso da sventure e votato all’infelicità e alla nostalgia:
Forra cuntentu si ’na sula lacrima
te sberrassi ogni tantu ’ntra lu linu,
pensand’a mie chi sugnu ’ntra la Mèrica
– ’na terra chi de màngani nun sa! – […]
Ca si sugnu luntanu, ’ntra la Mèrica,
sempre vicin’a tie ’st’arma mia sta! (’A manganatrice)
È una condizione che porta a esiti lirici e introduce nella poesia dialettale calabrese un raccordo con la poesia nazionale dell’area nostalgica carducciano-pascoliana, della zona sentimentale dei poeti come Severino Ferrari, Giovanni Marradi. Pane caratterizza il suo poetare collegandosi con il mondo primitivo del paese e nel ricordo dell’idillio amoroso deriva da Di Giacomo presentando situazioni poetiche risolte in una cantabilità esteriormente melodica, musicalmente rifinita. Quei singhiozzi di autocompianto («ogni singhiozzo una strofe» scrive Vito Migliaccio), quegli occhi che hanno splendori di rubini, quei versi iterati a fine strofe ripetono motivi della poesia popolare anonima, le stesse insistenti onomatopee (cucii, cucù/’nfrìn-ghiti, ’nfrìnghiti) sostituiscono talvolta la rappresentazione. Rimangono le situazioni poetiche di ’A menta, A manganatrice, Spartenza («Tuni tremavi cumu rindinella | ’ntra le mie vrazza; te sbattian’ i dienti»), Tora, di qualche idillio spezzato ma gli arpeggi di «Haiu adduratu a ’na troppa de menta», di «ssa vucca pittirilla de granatu», «ssa vucca de granatu ’nzuccarata», «le lavra sue de fragula» rappresentano un clinamen musicale contiguo alle canzoni. Il meglio rimane il ricordo di cose precise della natura (linazza, agnelli, pàppici, filici, acquazzina, murtilla, nepitella, ruviettu, sarmientu) che esprimono l’intuizione immediata, quella silvestre e montana, e oltrepassano la poetica smemorante del patetico delle canzoni ricordando le quali (è la poetica pascoliana del dolore che col canto si tramuta in felicità)
mo’ ’nde su’ cuntientu,
ccu’ tuttu ca cce suni le sbenture;
chille canzune chine ’e sentimientu.
Il pericolo di Pane è la dolciura del sentimentalismo, del patetismo feticistico che nasce dal familiarismo grondante di lacrime, della liricità da chitarra e mandolino la quale viene confusa con il «cuore» calabrese. Il Pane migliore è quello che sente come valore primigenio la natura, la donna-palma («puterusa e pedale, ferma e curma, | càrrica de bellizze a cirma, a sarma»), il poeta che si oppone alla falsità
standu luntanu de chi ’mbroglia e sbroglia,
e dde chi sceglie, pperché spoglia e ’ngaglia […]
e discernu ’a mundizza de la reglia.
Tale poeta è quello che guarda con animo fermo la realtà «de li ramingi e dde i limosinanti» e lascia da parte «li briganti, i preputienti, | li rinnegati e fàuzi guvernanti», quello che preferisce restare – rivolgendosi alle montagne – pur nell’«abbandugnu forzatu e amarignu», «cugnu de lu vuostru lignu», lottatore contro «tutte le tirannie e le ’nfamità» che lo hanno costretto ad allontanarsi dalle fontane di Colle e dal Reventino «ppe’ m’abbuscare ’nu pane […] de granu». In questo vigore di linguaggio – il dialetto carezzevole ma forte che appartiene alle propaggini dei casali cosentini – Pane può rievocare funtane e cavuni, serraturi, crapari, scupulari, mulattieri, tùmbari, personaggi del lavoro e paesaggi della prima giovinezza calabrese e, senza sentire la condanna di un destino, desiderare di «dormire allu serenu | annazzicatu dei grilli e dd’ ’e rane», vivere vicino all’acqua di Gargiglia, fra la realtà operosa di uomini e donne del paese natio.
Conflenti (Catanzaro), diviso in paese di sopra e paese di sotto, è posto in confluenza di due torrenti. Alla fine del secolo scorso era un paese fiorente per il commercio del miele, della cera, delle ceste, dei barili, dei mostaccioli, di tessuti casalinghi dai colori a scacchi, di altri prodotti dell’economia rurale. Famoso è il suo santuario della Madonna di Visora. Il paese (che confina con Martirano e con Decollatura) ha dato i natali ad Antonio e Nicola Paola (filosofo il primo, insegnante di matematiche e scienze il secondo), a Carlo Maria Tallarigo (che insegnerà letteratura italiana all’università di Napoli), ad Antonio Butera (giurista), a Vittorio Folino (avvocato), a Tommaso Pontano (clinico e patologo), a Pietro Montoro (giurista e letterato), a Giuseppe Feriaino (magistrato e giurista), a Guido Cimino (saggista e poeta) ecc.
Vi nacque anche (nel paese basso) Vittorio Butera il 23 dicembre 1877 da Tommaso e da Maria Teresa De Carusi. La madre morì nel 1878. Compiuti gli studi elementari a Conflenti (il padre avrebbe voluto fargli amministrare il patrimonio) a tredici anni Vittorio seguì a Porto Venere lo zio paterno ufficiale medico della marina militare e compì gli studi medi a La Spezia. Al 1892 (aveva quindici anni) risalgono i primi componimenti poetici in lingua. A Napoli studiò ingegneria e nel 1899 (per altri nel 1902) conobbe Michele Pane e ascoltò la sua poesia in vernacolo (che era, in quel tempo, poesia di protesta). Laureatosi ingegnere civile nel 1905 cominciò a lavorare a Roma (nel quartiere di S. Croce in Gerusalemme), poi a Palermo come ingegnere delle ferrovie, nel 1909 vinse il concorso per ingegnere presso l’Amministrazione Provinciale di Catanzaro e qui nel 1911 si sposò.
Ebbe vita tranquilla, diversa da quella di Michele Pane che dovette esulare dal suo paese in America. In Catanzaro – dove manifestò il suo antifascismo – ebbe una cerchia fedele di amici e letterati. Nel 1949 lasciò il lavoro per raggiunti limiti di età e si volse a rivedere la sua produzione poetica (di circa duemila componimenti). Nello stesso anno pubblicò una scelta di dieci canti e quaranta cunti. Dopo penosa malattia morì a Catanzaro il 25 marzo 1955.
Ebbe personalità seria, affettuosa, schiva di pubblicità. Amò la poesia di Di Giacomo e scrisse in dialetto perché il dialetto è «ricco di vocaboli», consente «di esprimere scultoriamente il nostro pensiero» e «la sua stessa ruvidezza lo rende maschio e simpatico». Ancora da studiare è la sua formazione culturale; la mancanza di tale studio è la causa del mancato approfondimento del poeta con la vita del suo tempo, del peculiare realismo dei cunti che i critici impressionisti hanno ridotto unicamente a suono lirico.
Vittorio Butera è vissuto in città ma il modello di esperienza (in bene e in male) è per lui il mondo contadino di fine Ottocento, della sua giovinezza: una campagna misera in cui dominano la fame e la lotta per la vita, una struttura uniforme di necessità, di inganni obbligati, di ingegno teso nella lotta. È un mondo di elementi rudimentali e privo di conforti. Butera coglie i rapporti di miseria, di mondi ridotti a quell’estremo che non ha colori nell’anima e riverbera l’atonia maligna di una realtà immota. In questa atmosfera che non ha riscontri nella letteratura dialettale non c’è un tratto di generosità: se c’è, è finzione. Domina la doppiezza e, soprattutto, l’utile di ciò che serve alla sopravvivenza. Il poeta registra la fame, il «manciare», l’essere che mangia l’altro: la vera legge della vita animale è la parafrasi della vita dell’uomo che si svolge in stretta simbiosi con quella degli animali, in una assimilazione zoomorfica non comune. Animali e uomini risentono della vita trascorsa nei boschi. La natura raramente appare nel suo incanto che è, del resto, autonomo, estraneo alla vita: «’A notte chi de ’ncantu parìa ffatta | tantu de stille lécite era ffitta […]».
Anzi quell’incanto illude la gatta di avere in un’altra gatta un’amica soccorritrice ma al momento della necessità un gatto le apre gli occhi e le dà consigli infami:
E ttu nu’ ru sapì
ca ccu re manu tue si un t’arranci
a ’stu paise ’un manci? […]
e quannu vidi ’un cunigliu grossu
assàrtalu, pirìnchjete ’ssa panza
e nnu’ stare a r’amici cchiù spiranza […]
Manciari, panza, legge della giungla sono i consigli del gatto ma
Cumu sapiti, i gatti
praticannu ccu ll’uomini,
ngrati se sunnu fatti.
Butera registra amaramente. Lo scetticismo è totale allorché dimostra che gli agnelli, ricchi e vili, sono agnelli solo quando c’è il lupo, altrimenti sono tigri e leoni pur essi. La morale è del gufo che canta l’amore nella notte, alla campagna «ricantata e pperza a ’nnu cavune scuru» mentre la natura assiste indifferente all’assalto del lupo, all’intervento del cane, alle ruberie degli agnelli: «Vola ru vientu ’e pàmpine siccate, | more a ppunente ’u primu quartu ’e luna».
Il male viene compiuto per il male, anche senza utile, altra volta, in questo mondo desolato, dal roveto maligno che strappa la lana alle pecore: «’A scippu ca nascivi ’na carogna».
La voce umana della tenera felce è vinta dalla malignità del cespuglio spinoso, la coniglia che ha fatto il nido per la figlia con i «ppili» del suo petto è scacciata a norma della legge civile (il diritto di primo occupante) da «’na facci d’ammazzata» e «ffitusa» di donnola che minaccia di querelarla e di mandarla in galera sicché la coniglia «si voze ’n santa pace pemmu figlia, | s’àppedi de scavare ‘n ’autra tana, | a ’nna trempa luntana».
Prepotenza del forte, favore della legge formale, avvocatismo mandano in esilio la partoriente e le usurpano la tana. In altra favola è ipotizzato che la fedeltà del cane potrebbe essere vinta dal prosciutti; un cane, infatti, che sdegna la mano vuota, muove la coda a festa quando la vede piena di grano: «Ah, cchi d’amicu veru ch’è ru cane!». La serpe dà lezione di geometria e di morale alla lucertola: «’A cchiù storta d’ogne bbia | quasi sempre è ra dritta! […]».
Il tacchino risponde argutamente in favore del proprio ventre dicendo di preferire, alle formiche che gli rubano il grano, i vagabondi che non rubano. Nel mondo di Butera non c’è più un galantuomo, al posto dell’onestà che difendeva le ricchezze e le case adesso sono necessari arpioni e serrature per difendere il «tantu puoculicchja». Anche il montone si accorge delle viltà e a chi gli domanda come si sono arricchiti i pecorai risponde: «Se su’ ffatti muntuni».
Butera assiste all’imbarbarimento della società civile e conclude sulla parzialità della giustizia. Corrotta è la città, ridotta al sottosviluppo la campagna sia nell’età post-unitaria dei galantuomini che in quella del clientelismo giolittiano che in quella della retorica fascista:
Ca veru vurvinu de vizzi
è sempre ’na granne città […]
fumieri e mmunnizza!
Caratteristiche della campagna sono l’immobilità, la fame degli animali («Cane, quantu se dice! | Mazzate e nneente pane!»), la fatica: «I cchiù campanu sulu | de lacrime e dde stenti» dice il mulo al cane. Solo chi si fa mantenere dalla moglie baldracca (il cervo) «mancia, riguma, sciala […] | e ra bbiava l’arriva ccu la pala». La «bbiava» è l’elemento sovrano del mondo, l’oggettivo, il materiale che genera i sentimenti; il mulo che esaltava il valore della libertà ed esortava a non «ssérvere patruni» sopporta a essere sottoposto a «’na sarma cantarigna»: «Miràculi d’ ’a bbiava!» commenta l’asino; la biada è ancora il termometro della stima del cavallo verso il padrone.
In questo deserto della fame scarsissimo è il posto del sesso sul quale domina la necessità. Butera è il Machiavelli delle situazioni, osserva i motivi oggettivi e registra: contro il cuoio duro degli animali occorre, dice il massaro impietoso, «cchistu punturu»; il laccio e il braccio svuotano le vanterie della trottola in nome delle leggi del moto («tu giri ca girare | mu nn’àutri te facimu»); dire una cosa e farne un’altra insegna la volpe al volpicino; i rapporti di forza tra cane e gallina sono cortesi perché obbligati; l’uomo esalta la tecnica agraria perché ne trae l’utile del vino, dell’olio e del grano; il pecoraio, il quale depreca il cuculo che deposita le uova nei nidi altrui per farle covare, seduce le contadine e abbandona i figli che vengono chiamati «muli»; il parroco ritiene sia opera della Provvidenza l’utile che gli proviene dall’uccisione delle galline per opera della faina; la fortuna è temporanea ma su tutto domina la legge di natura; la quercia morta vale più delle canne che si piegano a ogni cenno «ru vintu duminante»; la gallina stolta ha la testa spaccata dal falco; la chiocciola sale sulla sottile spiga, cade sul dorso e perde ogni potere ecc.
Poeta «borghese», cioè cittadino, Butera, per Bosco; ma poeta di una città che è «mmunnizza» e di una campagna ridotta al sottosviluppo, poeta più acuto dei suoi critici. La realtà rappresentata è quella dell’egoismo, la lotta per la vita è la legge: la mosca che si «inchje ra panza» di un insetto cade nella tela del ragno che le succhia il sangue, il merlo mangia il ragno che si era costruita una tela simile a «’nu crivu d’arizzientu» e si mette a fischiare a «ra trempa e ru cavune»; il falco fa a pezzi il merlo; l’aquila col becco squarta il falco e raccomanda agli aquilotti:
E quannu siti granni,
scannati, assassinati […]
‘nzo cchillu chi truvati!
L’aquila è abbattuta dal cacciatore il quale muore per opera di «’nnu ’nchiastru ’e nente» – un microbo – e dà vita ai vermi: così «de nuovu torn’e ’ncigna ra battaglia | ppe ’sta vita mischina».
La campagna ai piedi del Reventino, di qua del fiume Savuto, ricca di boschi di querce e castagni, burroni scuri, anfratti, è il disagiato territorio abitato da pastori, contadini, infiniti animali, solcato da qualche «trajìnu», da asini, muli, dove gli animali grossi restano «’mperunati» o parlano continuamente di miseria:
Hai vistu cchi ppardìa
fujùta de miseria
s’ammacca […]
Butera, che è giovane durante la crisi dell’età del positivismo e si matura nell’età giolittiana, non si richiama esplicitamente a correnti di pensiero ma in lui si rispecchia il mondo calabrese post-unitario di sottosviluppo e sfruttamento, quando la regione rimane come un tronco staccato dalla nazione, chiusa nel feudalesimo agrario dei signorotti paesani e nella miseria contadina. L’antirisorgimento di briganti e ribelli è consentaneo alle plebi rurali depauperate e abbandonate. Il mondo degli animali buteriani è una grande metafora del mondo umano. Perciò nel poeta non è traccia di idillio, gli animali hanno una crudeltà connaturata all’ambiente selvaggio. I deboli e i poveri sono sconfitti, non esistono che per loro convenienza animali domestici o addomesticati, tutti hanno una ferocia adattata all’ambiente e il poeta ironizza contro gli assoggettamenti imposti con la violenza o accettati per utile.
Butera è in linea con la tradizione antiautoritaria calabrese dei filosofi rinascimentali e dei poeti post-unitari perché ha fatto sua la cultura del mondo contadino. Serrato in essa, anche dialettalmente, ne coglie la realtà amara, senza idillio e senza masochismo. Nessun poeta ha registrato come lui, nella favola e da artista, la condizione di ferocia di vita: svanisce con lui la favola leggiadra di scenario settecentesco, svanisce il moralismo dell’Ottocento borghese e subentra la rappresentazione reale di un mondo di miseria. Il continuatore della rappresentazione animalistica (non favolistica ma di tipo espressionistico) è Pasquale Creazzo che, dal punto di vista sociale, va oltre Butera nell’indicare i vizi degli insetti esiziali, allegorie del mondo fascista.
La vera matrice artistica di Butera è quella del narratore favolista per la sintesi etico-estetica che compie del mondo che abbiamo indicato, quello della lotta per la vita, della tensione per raggiungere qualcosa che è distrutta da un animale immenso che senza badare a nulla cancella ogni sforzo:
Penza ca cc’è ’nnu voi
de chiru voi cchiù fforte,
chi senza dire: oi!
distrugge tuttu: ’a morte!
Nei canti di Prima cantu e doppu cuntu (1949) è presente il concetto della vita come illusione, anzi come «ttruffa»: una tela di seta che ricopre una parete ammuffita. La poetica di Butera è che il suo canto nasconde il pianto. I canti esprimono la sfiducia dell’uomo equilibrato nello sviluppo distorto, la poetica è incentrata sulla nostalgia dei valori del passato: il progresso deve nascere per il poeta dalla «volontà di conservare intatta la forza delle tradizioni calabresi» (Carlo Cimino). Oggi, storicamente, potremmo vedere ciò che è avvenuto in Calabria in conseguenza dello sviluppo distorto. La fontana di Frontera (che nasce da una «petra fìglialora» e a cui fa ombra una «cerza ’ndedarata»), emblema del ristoro alla vita fatigata dei contadini, è stata abbandonata in seguito all’immissione (1928) nel paese di «acque furistere», quelle dell’acquedotto. Dopo un temporale la terra impregnata («abbotracata») d’acqua è franata («ss’è spracata») e la condotta forzata è andata a pezzi: ritorna in funzione la vecchia fontana con suo contorno di semplicità naturale e di memorie di un passato che non dovrebbe essere stroncato dallo sviluppo moderno violento.
Cadute deamicisiane e crepuscolari non mancano nei ricordi di scuola e dell’infanzia (veduta come un paradiso perduto, come memoria alla quale contrasta il presente), Pascoli è troppo alle spalle nei versi sul Natale nonché nel contenutismo (troppo esaltato) di Mamma Carmela. L’elemento sentimentale è meglio dosato in ’A staffetta in relazione alla funzione della poesia. Butera vede la figlia di Michele Pane, Libertà, messaggera dei sentimenti di nostalgia del padre emigrato in America e testimone del rimpianto da lui lasciato nei luoghi dove era vissuto in giovinezza e che aveva cantati, nelle persone che aveva conosciute. Oggetto del canto di Butera è la poesia di Pane, ludico-mimica, musicale, rievocatrice del Reventino della Gargiglia, dell’Acquavona, del Giallo, di Tora, ma più vicino a Pane è Butera nell’amore energico del primitivo, del paese come centro vitale. Butera e la sua generazione sperimentano la politica antimeridionalista, l’emigrazione, sperano in liberi orizzonti. Pane era stato processato perché si era schierato con il sole dell’avvenire e gli sfruttati, Butera racconta nelle favole – tra le più originali della letteratura dialettale – i caratteri illiberali di un mondo antropologicamente feroce, attraverso i comportamenti degli animali. Nella loro resistenza all’autoritarismo i due poeti presentano una comune scorza dura, la schiavitù di un mondo soggetto al feudalesimo: a muso duro il primo Pane, con filtri favolistici il secondo. In Butera non è la felice trasgressione erotica di Pane ma neanche una certa dolciura sentimentale che è (ma secondaria: Pane non è l’usignolo del Reventino ma il poeta dell’orticaria, flagellatore degli sciacalli, dei crispini, degli usurai, degli ipocriti e sfruttatori) pure in Pane. Nella Staffetta c’è, soprattutto, oltre il motivo dell’esule quello del legame comune con i cavuni, le montagne, le fontane del paese, le castagne aggiurrannate, i mulini, i cipparielli, i valli, il muzzilluzzu di paese con le sue radici di sentimenti e di vita dolorosa.
Anche i canti di Butera, dunque, devono essere letti non solo liricamente ma anche storicamente e antropologicamente. Si veda il canto ‘U piecuraru e ri cani che è sostanzialmente un cuntu in cui è la desolazione della fame: un’ugna di companatico col suo odore richiama intorno al pecoraio torme di cani come se un fischio conosciuto li avesse chiamati:
’Nu caniciellu russu
quattru passi distante,
se fa ogni tantu ’na liccata ’e mussu
e nnùcedi ’mmacante.
Na cagnola vicina
s’è ’nculacchiata ’n terra;
’a cuda le rimina
e nnittija ra terra
cumu ’na scuppina.
In questi versi è il realista dialettico che attraverso la fame fa vedere l’ambiente sottosviluppato. Quando il pecoraio conserva l’unghia di pane avanzato i cani spariscono: «Finita è ra spiranza | de se vurdare ’a panza!».
L’emigrazione, l’esodo di un popolo è già in questa scena di un mondo emarginato che vive nella sacca del problema meridionale. In questo mondo tutto è concreto e compatto, quasi intagliato. Dietro il poeta è l’uniforme povertà della campagna, sono i pecorai, i pastori, i braccianti, i guardiani, i porcari, i bovari, tutti uniformi nei cenci, nella mancanza di tecnica del lavoro perché vivono in condizioni primitive, c’è la vita come fatica, ci sono gli animali scaltri, sospettosi, maliziosi, ingannatori: sembra un inferno senza luce di speranza. Altro che il Trilussa a sproposito ricordato dai commentatori (per i quali Butera sarebbe il Trilussa della Calabria!). Il personaggio di Trilussa è uno stereotipo sociale locale, inserito nel clientelismo del non governo, agnostico e paternalista, dal cui relativismo raramente nasce l’oggettività. Esatta è l’osservazione di Umberto Bosco sui cani dei quali parlavamo prima i quali sono «cani calabresi», zoologicamente partecipi della «fonda amara realtà sociale calabrese». Tutto è serrato intorno a questa zoo-antropologia della campagna che Butera nato in paese si porta in città anche dialettalmente: per intendere quel dialetto il catanzarese Bosco dice di avere bisogno del glossario. Quella di Butera è una lingua dialettale poco inquinata, toccata dal digiacomismo lirico nei canti ma sostanzialmente concreta, essenziale, precisa, energica, con una musicalità insita nella castigata contenutezza.
La semplicità è raggiunta con il coordinamento e l’accostamento dei termini linguistici, una conquista del verismo che si avvicinava al parlato dei dialettofoni e che si distanziava dalle volute letterarie della lingua italiana. I procedimenti di un poeta, filosoficamente e letterariamente piuttosto semplici, aderiscono al mondo da rappresentare per mezzo della registrazione, del parlato dei pecorai o degli animali. Non si tratta di verismo quanto di residuo naturalistico o, meglio, di quel piccolo verismo dal quale non era alieno il Di Giacomo (e tanti altri con lui, soprattutto Ferdinando Russo). Tuttavia, ripetiamo, la lingua del favolista Butera è un fatto unico, correlato all’ambiente e all’ideologia di quella fauna zoologica in quel particolare momento.
I critici non hanno approfondito tale peculiarità, qualcuno (come il Bosco) ha desocializzato il poeta e ha ridotto al minimo ideologico e intenzionale l’antifascismo di Butera che non è un antifascismo militante ma una posizione ferma contro le prepotenze, l’illibertà, le ribalderie del fascismo. Invece la poesia di Butera – il poeta comincio a scrivere nel 1921 – ha una precisa funzione morale senza la quale non sarebbero nati canti e cunti: uomini imbestialiti e animali maligni ridotti allo stato di sopravvivenza, dominati dall’autoritarismo, dibattentisi in lotta per la sussistenza, il cui contromondo e quello della fedeltà, della fermezza, della sincerità.
Lontano dalla giocoseria, dal falso-ingenuo, dall’istintivismo, regolato dalla ragione critica, Butera registra anche le minute e sottili sensazioni, sbotta, conforta le fontane abbandonate, disprezza la potente condotta d’acqua quando la vede spracata, deride con l’onomatopeico vùu!… lo spandimento delle acque, precisa con ’ngaglia la fessura da dove viene il suono della zampogna, conserva il termine rumanza a ricordo del tempo antico, quelli di piante e oggetti della vita quotidiana come ìliche, dédaru, ceramile, visciglia, corchia, vignanu, àuzinu, turra, pièttine de mele, carigli, pitazzu, visali ecc., sottolinea i perfidi consigli dei malvagi, le viltà e la carognaggine di certi animali in determinate condizioni, ridimensiona le ombre gigantesche, deride gli sbruffoni, equilibra i giudizi, tempera la predilezione per le camice di ginestra facendo vedere che la vita deve migliorare con juicio, diseroicizza l’onore retorico, la religione che coincide con l’utile, la sublimità che può essere capovolta in bassura, indica l’utilità dell’albero abbattuto e la vanità delle sottili canne. Non assolutizza, non relativizza, indica le crude leggi dell’utile, la dura lotta causata dallo sfruttamento, registra ma rimanda a codici morali di più elevata umanità.
Poesia sociale dotata di energia espressiva individuale, profonda, semplice, ricca di leggiadria artistica è la poesia di Butera. La seconda raccolta (postuma, 1960, a cura di Giuseppe Isnardi e Guido Cimino), Tuornu e ccantu, tuornu e ccuntu, comprende componimenti melici amorosi di stampo digiacomiano, gaetiano, attinenti al passionalismo della canzone napoletana, al melodramma meridionale sentito:
E ’nna lava de lacrime cucente […]
si mo cc’è ssulu fele intra ’stu core? […]
cchiù bbai luntana e cchiù bbicina stai […]
Partu, ma riestu ccà fin’a ra morte! […]
a llacrime de sangu nn’hau ccianciuta! […]
d’unu chi ciance ssutta ’nu barcune […]
’Na lacrima de ’n’uocchiu m’è sciunnuta […]
L’armamentario del musicalismo della canzone rimane puramente strumentale e consente di passare ai cunti con buona pace dei critici della liricità. Butera aveva avuto ragione a compiere una selezione rigorosa, segno del suo buon gusto. Le nuove favole (1924-1950) rappresentano ancora aspetti della vita degli uomini e degli animali, nonna e nipote sempre in litigio si lanciano pietre di mortaio e si riducono i visi a strisce (vitte vitte) dimostrando che vecchi e giovani non possono fare lega; la gatta si pente quando è «spinnata, reganusa, menza morta»; un gatto viene condannato a trenta anni di galera (non essendovi la pena di morte) per avere avuto l’intenzione di rompere le zanne di un cane prepotente (allusione all’anarchico Schirru fucilato per avere avuto l’intenzione di uccidere il Capo del Governo: «sulu ppecché bbulìa!»); l’uccello di rapina incolpa gli altri e non giudica se stesso; la talpa che decide di vivere sempre sotto terra è fatta in due pezzi da un colpo di zappa; il villano stupido che aiuta gli animali in pericolo è preso a calci nel ventre e ucciso da un’asina impastoiatasi nella cavezza («ad’aiutare i ciuoti è ppieju assai!»); i pescecani terrestri sono contenti della guerra; il canto della gallina che fa l’uovo serve come propaganda che l’uovo è di giornata (altrimenti «te resta ’m magazzinu | e ffà ru pulicinu!»); il tafano del cavallo chiede al cavaliere di non spronare a oltranza per non restare schiacciato; il chiodo ha sempre torto e il martello sempre ragione; non c’è pace tra nemici se non quando uno di essi cede; la fama consuma, l’anonimato preserva; chi sta immobile deride chi è in moto perché il moto dovrà avere termine («Doppu ’nchianatu, scinne!»); al lupo che spia mentre viene scannato il montone e si meraviglia perché il cane non abbaia, la rana risponde che il padrone darà al cane le ossa del montone; la formica è legata al suo destino di parsimoniosa perché non sa cantare; l’immaginario è creduto più della realtà (ciò dice il bruco alla ragazza che ha sfogliato felice la margherita: la foglia mancante l’ha mangiata il bruco); la difesa che giunge tardi non evita l’aggressione; il tacchino non si affligge perché manca il grano: la magrezza gli evita di essere ammazzato; la tecnica vince la speranza stolta; costa l’imbellettarsi, ma quanto rende! dice una donna; la padrona ingrassa la coniglia perché domenica
quannu cummita
te vo’ cchiù ttènnara,
cchiù ssapurita;
il bue è forte ma le corna all’assoggettato servono «ppe’ mmustrare a ra gente | ca sugnu sulamente nu curnutu»; l’asina intelligente quando si allungano le giornate per evitare lo sfruttamento richiede maggiore quantità di biada: «si vùe de mie cchiù rrina, | inchje de cchiù ’u biafàru!»; la lotta per la vita domina e il gallo legato e destinato a essere ucciso per santificare la festa (l’uomo, dice, «puru a ru patre ’e cannarozza taglia, | quannu se tratta dde s’inchire ’a panza!»), vedendo passare accanto a sé un lombrico, stende il collo e
se l’agliuttìudi sanu,
cussi, quattru e quattr’uottu,
comu ’nu filu cùottu
de pasta de Gragnanu […];
chi non ha gambe, come la chiocciola, si arrampica sui punti più alti con le corna e divora «talli, pàmpine, juttuni»; chi vuole attraversare il cammino agli altri trova sempre uno più forte: «Cc’è sempre d’ ’u sirpente | unu cchiù priputente»; un contadino trascurato riceve una lezione di pratica agraria da un albero di fico cresciuto in una pietraia e che richiama all’ignorante le leggi fisiche; con la «malanova de pitittu» che ha il gatto vorrebbe dare la liberta al cardellino il quale preferisce restare in carcere «ca finire a ra panza de ’nu gattu!»; la giusta vendetta delle api si compie contro un villano che non ha alcun motivo per affumicare l’alveare: «Ma tamarru, paglia e ffuma, | chillu prega ed illu asciuma».
Anche in queste favole l’imperativo è l’utile individuale dal quale nascono la prepotenza, l’ingiustizia e la diseguaglianza. La mancanza di intelletto genera il disordine; ognuno si aiuta come può anche con le corna, nel labirinto bestiario in cui non si vede al di là del proprio naso e in cui il poeta sommessamente propone la conoscenza, la tecnica, l’intelletto per superare i limiti oggettivi e il determinismo dei ruoli. I soggetti nulla possono fare e l’assoggettamento spesso rende nella misura dei rapporti mediocri. Non c’è possibilità di unione, ciascuno è contro gli altri quando si tratta di sopravvivere i violenti, chiamano violenti gli altri, la fissità dei ruoli è fissità di destini, mutamenti non possono accadere. Cioti e tamarri sono emblemi di «vulgo», di informe. Un principe organizzatore non può sussistere in questo sottomondo: ciò sembra dire Butera che osserva leggi, modi, comportamenti. Egli registra e indica il dissesto, non le alternative; ma il suo pessimismo è una presa di coscienza: da essa si dovrà muovere.
La scrematura da noi compiuta di questo difficile, scarsamente accostato dai critici e superficialmente trattato, poeta dialettale può trovare conferma nelle Inedite (1978, a cura di Carlo Cimino) e in altri versi che verranno alla luce ma la sua posizione di originalissimo interprete del quadro dell’emarginazione calabrese ci sembra evidente e difficilmente modificabile. Parliamo dei cunti poiché il discorso sui canti porta a un netto assorbimento buteriano nel pascolismo e nel degiacomismo. Nei componimenti principali delle Inedite c’è il richiamo a una struttura logica ed etica della vita attraverso apologhi e favole: le verghe che costituiscono un fascio sono possenti ma la tignola ne ha rosicchiato la scorza e le ha disfatte; la scrofa che elogia la quercia lo fa per l’utile delle ghiande; la retorica degli alti destini ha fatto sì che il Duce si fracassasse il muso contro l’Inghilterra; l’Italia cercava la libertà, il fascismo le ha dato la fame; le formiche non trovano il grano perché le galline nere (i fascisti) lo hanno divorato; pur essendo un asino Mussolini ha incantato tutti: «Ah, quanta ggente ’ncanta | quannu ’nu ciucciu canta!»; innumerevoli sono i lustrastivali; gli ufficiali sono «scuppettine» dei generali, i preti dei vescovi, i baroni dei clienti per diventare deputati; la favola del grillo che è preso al laccio e lascia le zampe nella tagliola è un inno alla libertà.
Eppure i componimenti contro la tirannide fascista ci convincono di meno dal punto di vista artistico. Il Butera di questo volume è un Butera minore, che si affida all’esplicito più che alla rappresentazione. Non è vero, come ripetono gli aneddotisti, che Butera non li avesse pubblicati perché, caduto il fascismo, non voleva maramaldeggiare; aveva capito che in quei versi mancava il potente espressionismo deformatore per il quale egli non era nato. Era Pasquale Creazzo il vero poeta dell’antifascismo con le sue grandi metafore animalistiche. Butera aveva espunto anche i componimenti che si risolvevano in semplice arguzia e che qui non mancano. Il migliore testo è L’americanu in cui c’è un atteggiamento dolce-amaro nei confronti del «calavrise ‘ngrisatu» che ha perduto l’identità paesana, le radici locali e si è stravolto goffamente (anche dentro di sé) diventando uno sradicato. Ciardullo nel teatro e Michele Pane ci avevano dato documenti psicologici e letterari di tale prototipo.
Gli elementi sparsi della critica intorno a Butera si possono trovare, in positivo e in negativo, nel fascicolo (gennaio-aprile 1956) di «Scrittori calabresi» (a cura di Guido Cimino e Giuseppe Isnardi) dedicato al poeta. Nel fascicolo prevalgono gli scritti commemorativi, i ricordi degli amici, figurano analisi estetiche di gusto, manchevole è l’individuazione critica della poesia: è un discorso che abbiamo fatto a proposito di Michele Pane (in Pane i critici non volevano vedere il satirico e l’erotico, in Butera non individuano il realista che ha elementi di pessimismo, cercano solamente il lirico che non c’è). Eugenio Adami nota che la favola nasce dall’osservazione immediata della vita, che in essa è una tendenza pessimistica «troppo insistita e scoperta» (fare il lavaggio del pessimismo)? come «troppo scoperta è spesso la morale»: è questa di Adami la paura del crociano moderato che predilige i «quadretti». Francesco Arcuri vede in Calabria «un interiore classicismo dello spirito» (ma il discorso non vale per la poesia dialettale calabrese che è trasgressiva nei maggiori) e una saggezza popolare etnica raccordati col sentimento della natura (c’è del vero e il Giunta dirà qualcosa di simile) e Butera infonde nei suoi versi «l’amara filosofia campagnola» della realtà ma l’intuizione non è svolta dal critico il quale ha altra paura: quella di scoprire lo stato di riduzione della saggezza popolare a disperazione e a condizione da sottosviluppo, a confusione e stravolgimento. Domenico Cara vede «l’austerità di un linguaggio senza trovate preziose», senza romanticismi, l’«adesione a un mondo fatale di miseria e di elementari passioni umane» espressa da «non umiliati animali» (è criticamente preciso ma gli «umiliati», gli auto-confusi per interesse o viltà sono moltissimi).
Assai utili (e degne di un séguito di studi tecnici che sono completamente mancati: eppure i manoscritti di Butera sono in mano a studiosi!) sono le pagine di Guido Cimino sull’officina letteraria di Butera, sulle correzioni e sulle varianti che portano dal generico al particolareggiato: anche le espunsioni sono indicative della tendenza critico-ironica che era nel poeta. Alfonso Frangipane si sofferma brevemente su Butera artefice cesellatore: lo studioso dell’arte e dell’artigianato calabrese quante cose avrebbe potuto dirci sulla tecnica di Butera! I precedenti remoti del favoleggiatore sono per Gabriele Pizzuti nella letteratura orale calabrese, nelle fiabe popolari in cui c’è spesso il gusto dell’ironia. In Butera esisteva la «cura da certosino» nello studio del dialetto per Tommaso Pontano il quale si unisce a quanti sottolineano l’attenta attività linguistica del poeta: che è tutto, la particolare cifra che egli aveva.
Soprattutto lirico è il poeta per G.B. Froggio ma si tratta di una affermazione non dimostrata. Puntuale è, invece, Francesco Vitale nel rintracciare nei componimenti gli echi di libertà, di antitirannide e antifascismo. Lo scritto criticamente più notevole – pur nei suoi limiti di gusto – è il confronto con Michele Pane proposto da Nicola Giunta. Butera conobbe la poesia di Pane ma non la imitò perché era tutto diverso dall’amico «lirico»: egli era tutto pensiero arguto, osservatore della vita «anche se non sempre scintillante» (ed è una osservazione pertinente alla dimensione concretamente compatta, apparentemente distaccata del conflentese). L’uno e l’altro sono espressione della Calabria: Butera è il cervello ragionante, Pane è il cuore. Più vicino all’aura poetica fra i due è il Pane perché il cuore è la parte più rappresentativa dei calabresi, l’arguzia «viene dopo, è di riserva». Butera mostra più i ciottoli del dialetto, è più asciutto, «attaccato all’osso di quello che è il suo pensiero», il periodo lirico è «nodoso, quasi arido, secco, ma in esso circola pure tanto sangue, splende tanta luce». Egli incide ma la sua parola «non sempre nasce dalla fantasia» e il volo «radente la terra» è più riservato. Il poeta lavora come un operaio, fa vedere la naturalezza, mette un mattone sull’altro, la sua arte ha «la precisione di un compasso di costruttore», non si è staccata troppo «dal calcolo dell’ingegnere» e, in un certo senso, «non è stato un male». Butera non fa mai ridere (diversamente da Trilussa col quale, scrive Giunta, è improprio paragonarlo) ma solamente sorridere, è il poeta filosofo «della saggia, riflessiva natura di nostra gente». È una voce che mancava alla Calabria. Le pagine di Giunta, assai belle, hanno il loro limite critico nella proposta di antitesi fra i due poeti e di complementarità, nella predilezione di Giunta per la poesia lirica e musicale, nell’interpretazione di Pane unicamente come poeta lirico (il satirico e l’erotico non esistono per Giunta), nella visione dei due poeti come parti integranti dell’«anima» calabrese che è un pregiudizio romantico-positivistico.
Abbiamo già dimostrato che la poesia di Pane non è solamente lirica, che essa è sostenuta anche da una matrice politica, civile, erotica, trasgressiva sicché il confronto fra i due andrebbe posto su altre basi. Pur con tali limiti il Giunta riuscì a caratterizzare la poesia di Butera che è pensierosa (ma non ricca di pensiero e di filosofia: Giunta si richiamava sempre all’archetipo popolo-filosofo).
Nel suo studio su La poesia dialettale in Calabria (1959) Rina Di Bella esalta contenutisticamente il componimento su Mamma Carme- la in cui il poeta ci fa sentire «i singhiozzi della donna» e ci trasmette «il suo pianto»: crocianesimo ancora vulgato in quegli anni, didascalico. Più precisa è la De Bella nel sottolineare la mancanza di ineguaglianze di stile ma la conclusione è quella della liricità di Butera.
Dei limiti delle pagine di Umberto Bosco abbiamo parlato; inoltre il Bosco vede Butera nella Catanzaro degli uomini illustri senza penetrare nei rapporti tra città e campagna. Nella sua dimensione artistica reale il poeta è inquadrato da Rosa Troiano la quale mette in rilievo lo sfondo immobile della Calabria su cui egli «proietta le immagini crude di una miseria colta nello strato più basso della società calabrese, laddove uno dei problemi primordiali delle classi oppresse può assumere anche i risvolti disumani di una lotta sorda per la sopravvivenza». La studiosa esamina emblematicamente alcuni componimenti non dal solo punto di vista estetico ma anche come riflesso della vita storica e sociale della Calabria nella sua matrice dialettale-popolare.
Il livello autobiografico delle poesie dialettali di Pasquale Creazzo (1875-1963) è caratterizzato da una personalità risentita moralmente, ricca di reazioni e profondamente radicata in un ambiente di villaggio pedemontano calabrese isolato, arretrato, greve ancora (i primi versi datati di Creazzo sono degli anni intorno al 1900) dei residui di servitù feudale (il villaggio era stato feudo dei Caracciolo, Pignatelli, Giffone, Cicala e Pescara). Non certamente per fatalismo romantico ma per oggettive considerazioni («orfanu, straniatu, senza mita») il Creazzo – che seppe contrastare le avversità ed essere creatore di situazioni e fatti nuovi – lamenta gli «sdarrupi» incontrati sulla via ed esprime un desiderio di pace, sentimento personale (avrà anche punte di naturalismo bucolico) che si intreccerà, su un altro piano, con il tema del lavoro e dell’umanità.
Già fin dai primi componimenti è accentuata la potenza ritrattistica animata da sdegno contro la spia anonima, una invettiva con forti tratti popolari derivati dall’animalistica e contornata dalla verità dei proverbi; contro un persecutore (Lu gattu giallu) il quale vorrebbe mandarlo al confino e che è espressionisticamente deformato (come il precedente «Lu nasu a croccu e l’occhiu latra e fundu, | cu fianchi curti e supa nu corpazzu») nella sua natura umana («stu gattu stortu cu fianchi di stinca»), contro un usurpatore («Viti chi nasu | Kjavréju havi a lu beccu, lu spaususu»), un funzionario-lupo ingordo e corrotto («st’agrancu», «stu rospu di pantanu», «nettu di ntrogna, pi sa du cantara», «stu rapistuni crudu senza sali», «pari nu cani corzu presentusu»), un assessore ladro e spia («suriciazzu zzocculuni»), «scorcia ciucci, saracuni»), un ipocrita che a fine di lucro fa sudare S. Espedito ungendolo di olio («Titta fìci la pensata | pemmu pigghia e nommu jetta | mu nei gugghi la pignata»), i preti che si fanno concorrenza con le guerre dei santi per arricchirsi.
Le invettive e le iperboli nelle caratterizzazioni ritrattistiche hanno un’ascendenza morale che scatta contro «tirrannide, sofisma e ipocrisia» in nome di un sano naturalismo che si esprime in antitesi potenti contro autorità prepotenti, preti ipocriti, saccenti furbi. Su tutto pesano l’aria pettegola del paese, la saccenteria che presume e deforma e da cui Creazzo vorrebbe evadere verso la natura
undi no ci su’ sbirri,
no previti, no gnuri e no spiuni,
[…] undi sulu si senti
lu cantu di lu merlu o nu scropiu.
La pienezza di una natura primaverile tripudiante di voci di animali è in Rimembranze, uno dei componimenti più sciolti, delicato nella nota idillica: «Avia na trizza d’oru ncannolata […] | ci ddu ganguzzi russi, cu la schiacca». Questo amore della natura verace ha una connotazione fisica, topografica, ambientale, fenomenica (sia Mararosa che «movia li kjanchi comu na varcherà» sia la kjumara Jerapotamo: «La sua crigna è rizza rizza | e spumìja com attruzza | cu li petri di grossizza») che soprattutto si manifesta come forza. Si veda la densità nemorosa e piena di vigore degli alberi, la quercia che
dintr’a li ntrogni grossi e li cavigghji
standia a migghiara vrazza di frascagghji
[…] ma li frascagghji, virdi cuttunini,
sbocciavanu li fogghji primerani;
le rare persone dei boschi e delle campagne si confondono con i luoghi. Si sente nei versi non il mondo contadino della pianura ma quello dei lavoratori di una montagna selvosa percorsa da traini, carri, di pascoli, di terreni «anenghisti» con la scabra «kamaròpa» pressu cui «rigùma» qualche capra. Questo paesaggio selvatico ma libero è l’antitesi del paese in cui i padroni creano un’atmosfera biliosa e velenosa, i loro accoliti vanno compunti dietro le statue dei santi e altri servi legulei truffano le povere donne credule: «Povara Cirla, povara Cirla | lu trovasti a cu mu ti ciurla […]», un canto di pietà per la donna ingannata ma carico di amarezza contro i mali avvocaticchi commessi del padronato. «Mastri gurpuni» che non temono tagliola, impiegati-spie, preti-truffatori, assessori-ladri, sputasentenze-ignoranti, marescialli-segugi, usurpatori protetti sono i personaggi del potere, dalla doppia natura umana e ferina, i quali comandano in Cinquefrondi prima e durante il fascismo.
Questi personaggi (e altri, fra cui il «despota» Delle Scale che ebbe fino al 1912 come protettore Fon. Giovanni Alessio e al suo servizio il giudice Istriani) rappresentavano negli anni della giovinezza e della maturità di Creazzo la «verità ufficiale» nel paese in cui la santa alleanza tardofeudale1 e postunitaria aveva lasciato vecchie strutture sociali di miseria e degradazione, di servilismo e viltà. Qui, e in tutto il territorio della Piana, tra difficoltà immense (non ultime il riformismo e il democraticismo degli intellettuali massonici), Creazzo si mosse nello sterminato numero di braccianti, contadini poverissimi (in molti villaggi l’artigianato più produttivo era quello dei forgiari, dei fabbri che creavano, riparavano zappe) come socialista rivoluzionario, populista, con forti venature anarchiche. Agitatore politico, percorre tutta la Piana per organizzare la resistenza contro il blocco agrario e il fascismo, collaborando ai fogli socialisti, divulgando con manifesti, volantini, le linee di azione per diffondere il socialismo, guidando scioperi, proteste, raduni, celebrando le feste del lavoro e i caduti nella lotta. A Palmi, che era il centro direttivo del movimento, fra il 1930 e il 1932, insieme con l’anarchico Bruno Misefari incontrò Giancarlo Paietta. Costantemente sorvegliato dai governi prima e durante il fascismo, quale alfiere del socialismo, cominciò dagli anni giovanili a conoscere il carcere politico.
La concezione che la verità è nella natura dell’uomo e che le antitesi, dialettiche, devono portare al trionfo della giustizia, la storicizzazione di tale dialettica in termini di classe avevano guidato Creazzo nella lotta contro il liberalismo conservatore, il clericalismo sopraffattore, il fascismo in tutti i suoi aspetti. Dietro le ideologie mistificatrici era la borghesia capitalistica e violenta e Creazzo divenne la voce e la guida, nella Piana, della cultura contadina analfabeta, arcaica, dei poveri soggetti agli strumenti della superstizione, dell’ignoranza, della paura fisica, dello sfruttamento. Quella cultura contadina era aperta verso la chiarificazione della propria natura ed era estremamente dotata della consapevolezza delle proprie ragioni e della propria forza. Creazzo fu quasi un capo carismatico per la sua fede nella rivoluzione proletaria e nella Rivoluzione d’ottobre ma fu anche un educatore socialista il quale spiegava – come interpretava e sentiva – le relazioni della realtà, delle classi, le leggi dell’essere sociale servendosi didatticamente di antitesi che traeva dalla sua cultura contadina, profondamente radicata in quella degli sfruttati zappatori e braccianti della Piana:
lu lampu spara, rruppi e dassa scheggia
ma la sputazza cadi di li fusa […] (1906)
Non dijunari mai ca t’assottigghji,
e nno’ pregari Santi ca su mbrogghji,
si senti di lu Previti consigghji
simini ncenzu, fumu mu ricogghji […]
Cundiscindenza furba e adulazioni
su’ li chhiù vili e sporchi di l’azioni […]
La base didattica è l’etica dell’agire secondo l’umanità:
Cu mali faci, mali ha pemm’aspetta;
ca la visala ch’unchia ha pemmu schiatta.
La Gurpi ha mu si scanza la scupetta;
lu Surici mu fuji di la Gatta […]
Resa più evidente dall’antitesi e dal richiamo alla natura:
Crudo egoismo e grande furberia
chisti su’ scenzi serii e di valuri
m’arricchi e mu ti fai cummendaturi! […]
Lu vili chi ti nchiana mparadisu
a lu mpernu ti cala si nc’è casu! […]
L’arti di tempi e cosi è testimoni;
di fatti nazionali e paisani;
di custumi e di groglia di cristiani;
di movimenti e gran rivoluzioni.
La polemica contro l’ipocrisia nella corrotta vita amministrativa e politica paesana e nazionale («La stuppa ha mu si fil’a mò di sita | m’ammuccia lu stamagghju e la ntramata») diventa denuncia ad hominem: «sciancu mascari a tutti» (1912), proposito di lotta civile. Corregge l’opinione che la morte eguagli tutto: non certamente le diseguaglianze della vita («la cipuja e lu sozzizzu!», «lu maccarruni cu lu lupinazzu»):
Lu vermu, rrudi mbita la me testa
e percia la meduja, e mi la guasta!
Lu riccu, mbeci, godi e faci festa;
lu povaru mindicu è mpisu a l’asta! […]
Lu riccu, si lu fa ’ncarru trumpali,
lu povaru a la scaza ntra li spini!
Guardasti in Campusantu?… o si spirdatu?
Lu riccu, è ntra li marmi custodutu,
ITIlu povaru, janterra… è npaticatu!
Se ’mbita la partita non s’appara,
lu povaru non mpercica a ficara! (1931)
Il discorso sulla disuguaglianza è sempre svolto per antinomie.
Il mare che è di tutti – se pure ancora lo era!, – la terra che è dei pescicani, ma
se l’acqua vota pe’ lu so’ caminu,
si cassa lu vocabulu: Vejanu!,
e pure chiju di lu: Signurinu.
Cu pettina; […] li gruppa vennu nchianu (1947).
I condizionamenti storici si fanno sentire certamente nel sentimentalismo umanitario con cui il Creazzo canta i derelitti, gli sfrattati, il bambino mendicante che viene schiacciato da un carro, i vecchi, gli indigenti, gli orfani, le lavoratrici alle ante delle ulive, il contadino novantenne morto e trasportato col carro delle immondizie, i bambini minorati ecc. Ma si trattava di fatti veri, di documenti umani; i versi erano di denuncia e venivano accompagnati da articoli di giornali, da testimonianze, nomi e cognomi dei miseri che Creazzo vedeva venduti allo sfruttamento, abbandonati dagli sfruttatori, per le strade di quell’inferno che era il villaggio, per i viottoli di campagna, in mezzo ai boschi. Importa, invece, sottolineare che Creazzo col suo dialetto in funzione sociale dà rilievo alle divisioni di classe e, dal punto di vista artistico, con maggiore capacità di quanto non facessero nella regione gli scrittori umanitari in lingua, Casalinuovo, Soffré, melicamente pascoleggianti. La poesia Contrasti del 1927 è una denuncia non solo poetica degli agrari polistenesi. Nel 1924 Creazzo in un sonetto di lingua (pubblicato su Fiamme rosse) aveva stigmatizzato la viltà dei partiti «nudisti» dopo il delitto Matteotti; nel 1926 aveva satireggiato un ex compagno pronto a mutare bandiera:
Cu l’anchi a furca comu lepricchiolu
sattariasti a destra e a lu mancinu.
Lu Signuri mu v’una ajutu e forza
mu fati farti di l’equilibrista […]
Gira lu mundu e poi gira la rota
e nui tornamu a mporgiari zappuni.
In altri versi del 1927 esorta alla lotta (ed egli stesso lavora nella resistenza): «E avanti, avanti, pe’ la terra santa | undi non ci su chhiù li servituri».
In quegli anni (1929) il poeta dettava un epitaffio per la sua tomba:
Non vogghiu no candili e mancu preci.
E mancu crisantemi e kiuri boni,
non su’ pe mmia, gnurnò, li cosi fini!
Chiantàtimi agrejari cu cardoni,
e ruvettari di pungenti spini!
Nei confronti della «verità ufficiale» Creazzo a Cinquefrondi era il sovversivo, l’anarchico, il socialista rivoluzionario, il carcerato, il vigilato, lo sfaccendato. A quella verità fatta di finzioni Creazzo strappava la maschera in quest’altro ritratto:
Ognunu ti ricorda giuvanottu
facendu ntra lu Càrminu novini […]
chiusa la chiesa e armatu di cappottu
sturdendu cu li ligna le gajini.
Militantismo politico e naturalismo ispirano le rappresentazioni d’arte a cui Creazzo giunge dalle antitesi proposte al popolo, dalla vita vissuta con gravi amarezze e inevitabili nostalgie («Oh! quotraranza mia! […] vinni lu mali; | lu meli si cangiau cu acitu e feli», 1928). Fino ad ora Creazzo aveva denunziato vizi e corruzione di classe ponendosi dalla parte del popolo e osservando i contrasti generati dalle disuguaglianze. Adesso osserva dall’interno le mostruosità, il livello di prospettiva e di tecnica è anche diverso nei componimenti sugli insetti nocivi e sui nuovi ritratti. Grandi allegorie politiche della maturità questi componimenti rappresentano vizi e situazioni: incrostazioni di mali, abitudine a non reagire e a trovarsi sopraffatti dagli «scalambruni» fascisti, esortazione a trovare i rimedi adatti a estirparli, a vendicare gli uccisi innocenti (Qui gladio ferit, gladio perit). L’atmosfera appestata dagli insetti schifosi, insolenti, parassiti, mimetizzati può essere purificata solo dal DDT della libertà e dell’istituzione repubblicana.
Ma gli insetti sono rappresentati attraverso incisioni che ne mettono in rilievo filiforme la mostruosità degli organi funzionali all’animalesca nocività infettiva, omicida, divoratrice, avvelenatrice, allo stato aggressivo o vulnerativo, con un procedimento nuovo, inedito, nella poesia dialettale calabrese. Non pericoli generici ma effettivi, ormai penetrati in tutte le strutture della vita della nazione e della natura (nell’atmosfera, nella vegetazione, nell’alimentazione, nelle case, nei letti, nelle persone), inquinatori, persecutori, mortiferi, gli insetti di Creazzo non trovano riscontro nella letteratura ma soltanto in qualche raffigurazione grafica satirica del ventennio fascista o del nazismo. Creazzo caratterizza espressionisticamente sia gli insetti che la lotta contro di essi: il poeta che sale sull’albero dai bei frutti assalito dagli scalambroni e che scuotendo l’albero «cu arraggia e cumbenenza» ma anche «cu nna forza di Leuni» o che schiaccia le pulci («Se dassarrìa suffriri st’arroganza, | […] Addio, don Pascalinu di Criazzu!») o che propone le offese per annientare le cimici o che abbatte col bastoncino lo scalambrone volante e lo schiaccia sotto il piede, indica espressionisticamente al popolo, in questi grandi cartoni, i metodi di lotta individuale ma anche collettiva e totale – che ripulisce l’aria – contro i fascisti e la loro nocività. In questi componimenti la precisione e l’oltranza energica della lingua («Zzond’è mbuttu li mani e li scafazzu», «io fracchiandu cu lu bastuncinu: | Ttuppiti: | l’acconsài pe lu festinu») sono quasi psicometriche dell’azione, della ribellione, dello schifo («Jih!… malanova mu li tagghia!», «se schiatta, di nosìa veni lu scasu!», «la pidocchia è: jécchi!… fetenzusa»).
Agli insetti sono strettamente uniti (nterzati) gli uomini strumenti dei poteri, che vivono sugli altri (anche sui defunti: i tambutari che si disputano i cadaveri), i falsi, i ciarlatani, gli opportunisti mediocri e quelli saputi. I personaggi di questi ritratti partecipano della natura bestiale. Nella rappresentazione del vizio il Creazzo – che dopo la seconda guerra sperava nell’avvento di una nuova società – esprime – anche una motivata sfiducia vedendo i frati e i preti diffondere odio antisociale nella campagna elettorale del 1948. La sconfitta politica di quell’anno pesò gravemente anche sulle popolazioni contadine calabresi che si videro costrette all’emigrazione da una regione in cui un centinaio di agrari possedeva 136mila ettari di terra e 87mila contadini vivevano su 15mila ettari.
L’abate Antonio Martino (1818-1884) di Gàlatro è ancor oggi poco noto come poeta dialettale. Il Martino era stato liberale e patriota durante il governo borbonico ed era stato incarcerato per le sue idee. Nel 1860 aveva deprecato gli episodi di reazione che si erano manifestati, in occasione delle votazioni per l’annessione, a Caridà in favore di Francesco II; nel componimento Risposta dell’Italia alla Calabria la Nazione si lamenta di tali episodi:
Però di Cincufrundi eu su dolusa,
di Melitu, Pedàvuli e Serrata,
Maropati e Gallina la schifusa,
Giffuni e Carìdà la sbrigognata.
Temperamento vivace e attento osservatore degli avvenimenti politici nazionali e paesani, il Martino fu anche in dissenso con preti corrotti, temporalisti
(E duvi mai lu dici la Scrittura
ca Petru ebbi cannuna e bajanetti?
Pasci «nei dissi Cristu» a la friscura,
pasci nell’umiltà sti mei crapetti),
della Curia e della diocesi che satireggiò anche in versi estemporanei (inediti sono, ad esempio, i seguenti versi da lui lasciati su un biglietto al Vescovo il quale lo aveva fatto attendere a lungo per ricevere l’arciprete di Capizzi:
L’arcipreviti di Capizzi,
caccia ca e resta pizzi,
caccia pi e resta cazzi:
arcipreviti i pizzi e cazzi).
Qui ricordiamo una sua pasquinata (così lui la chiamò) Sul concorso del canonicato di Cinquefrondi avvenuto in gennaio 1851 che circolò manoscritta nei paesi della Piana. Il Martino chiede permesso ai poeti in lingua di potere scrivere in calabrese ancorché «vili cantaturi» perché «lu scordu ’tra la musica esti bonu | pemmu risarta cchiù lu durci sonu». Il primo oggetto della sua satira è mons. Mincione, vescovo di Mileto, protettore «di li previti ciucci» e che rivestiva di lunghe penne i corvi neri e resecava le ali alle bianche colombe perché non prendessero il volo in alto. Sede di malaffare si rivela la Curia in occasione del concorso per il canonicato di Cinquefrondi al quale partecipano nove preti: otto di essi, però, non seppero coniugare «lu verbu do, chi l’orbi fa cantari». Il primo dei preti riprovati, Albanese commenta: «ogghiu, casu, vinu voli e no morali»; il prete Palermo si accorge che il concorso era stato fatto pro forma; il prete Manfroce espone al vescovo il suo dispiacere di
non essere diventato canonico, pur essendo fratello di canonico defunto: il vescovo gli risponde che questo non è un buon motivo e che, invece, «di n’assioma logicu apparisci» che doveva vincere Bruno Ascone (Ascimi) il cui cognome finisce come quello del vescovo: «si poi tu ti chiamavi Manfrociuni | statti sicuru ca la dava (la muzzetta) a ttia»; degli altri preti qualcuno (Iudica) grida contro «la Curia prostituta» e la simonia, gli altri (Ieraci, Cuntartisi, Sigillò) se ne ritornano sconsolati ai loro paesi («tutti ncrinati, vagnati tutti, e comu runzuni»). Il poeta (il quale prima aveva detto: «Non vitti nudhu mare senza scogghi, | né Curia viscuvili senza ’mbrogghi») conclude deprecando la Curia che esalta i pravi e deprime i buoni:
Oh porcaria spacciata di Melitu,
oh disgraziati niu chi nei ncappammu;
cu studia libbra cchiù non è graditu,
lu tempu perdi si nui la sgarramu.
Cu va secundu Ddeu resta avvilitu,
cu manda l’ogghiu poi nchiana lu scannu.
Giustizia di lu Celu s’affacciau,
detti n’occhiata e poi scappau, perìu;
la soi vilanza ’nterra s’allordau,
’neelu era schjetta e ccà si mputtanìu […]
La pasquinata dovette avere diffusione se Pasquale Creazzo la tenne presente in una sua «satira», L’Arciprevitura di Cincufrundi e lu Cuncursu di Militu (che riteniamo inedita: sul manoscritto si legge «satira pubblicabile») in occasione di un altro concorso a Mileto per l’arciprevitura di Cinquefrondi. Non sappiamo a quale anno si riferisca il Creazzo il quale in una nota ricorda la «satira» di Martino del 1851 per il concorso melitese in cui i preti cinquefrondesi «furono tutti riprovati meno del più ignorante» il quale seppe «a via di regali e di otri di olio» corrompere il vescovo del tempo, Mincione. Creazzo comincia col dichiarare che dei quattro concorrenti alla stola (Filareto, Scarfò, Pugliese, Fàzzari), tre – meno il Filareto – erano donnaioli («guappi a la pistola | e a duppia palla»). Durante il concorso i quattro si sorvegliavano e ciascuno attendeva il momento opportuno per estrarre dalle tasche gli svolgimenti già preparati, per copiare.
Mentre Scarfò scriveva «frasi, frisi e frosi» inutili, Filareto estraeva il manuale di Gury per copiare ma gli saltava addosso Pugliese («comu na gatta latra») per sequestrarglielo, gridando «Scrivi si sai di testa, | tirrinchiuni!». Il vescovo Morabito che assisteva cercava di rabbonire gli animi e di ammonire Filareto. Ma prima Fàzzari e poi Filareto, accusando malessere, si ritiravano dal concorso e si ritrovavano nella locanda. Filareto cominciò a inveire contro il Pugliese che era inaspettato concorrente in quanto già parroco di Paravati, parrocchia ricca e vicina a Calimera, suo luogo natio:
Cu si cridia stu ntòppu,
ca nc’era lu stadhuni
chi parinchìu Giffuni
di bastardi?
Rassegnati i due ritornarono di nascosto a Cinquefrondi. Il concorso fu vinto dal Pugliese il quale, però, non lasciò Paravati («ove indisturbato fa il gallo e signoreggia») e la parrocchia di Cinquefrondi fu assegnata, dopo un periodo di vacanza, al teologo prof. Carlo Sorrenti.
Ci pare interessante rilevare la tradizione culturale contro la Chiesa temporalista e burocratica che si venne formando nella Piana per opera di poeti popolari e dialettali religiosi o laici, credenti in un rinnovamento che portasse giustizia alle popolazioni in mezzo alle quali vivevano: prete liberale il Martino e desideroso di una pace universale che somiglia a quella dei miti dell’età dell’oro, laico rivoluzionario socialista il Creazzo, interprete dell’animo e dei bisogni dei contadini sfruttati della Piana, certamente il maggiore poeta dialettale del secolo nostro in Calabria.
Nella resistenza agli agrari e al fascismo Creazzo portò il suo contributo, oltre che come politico, come poeta popolare i cui motivi nascevano dall’interno del proletariato contadino della Piana. Sfruttati per sei secoli dai feudatari e per un altro secolo dai neoagrari che avevano usurpato le terre demaniali, i contadini della Piana – non un mondo astratto quello della Piana ma un inferno di zolle e tuguri, di malaria e di alluvioni, in cui «accirchiati» dallo star curvi sulla terra i contadini sono consumati da stenti, reumatismi, pellagra – durante l’epoca prefascista e fascista videro con rancore perpetuarsi lo sfruttamento. Ai padroni, i neomarchesi degli ulivi, fornivano appoggio podestà e loro aguzzini, esattori, marescialli diventati famosi (ne ricordiamo ancora i nomi) per gli abusi, per le nerbate assestate ai detenuti che facevano poi dormire sul pavimento ricoperto di granturco. Il Creazzo, che fin dai primi anni del secolo aveva organizzato le sezioni socialiste (insieme con Nicola Mancuso, Carlo Mileto, Michelangelo Mercuri e altri) e che nel 1921 aveva aderito al Partito comunista, esaltò nei suoi versi la resistenza e la contestazione di migliaia di contadini senza terra, ne diventò il portavoce. Padri, figli di emigrati; zappatori, braccianti si ripetevano a memoria nel 1927 Lu zappaturi, un grande canto aspro anche per le molte rime cupe, insistente sul contrasto di classe fra padrone e zappatore, disperato e amaro nella constatazione delle infernali disuguaglianze; canto che in monotone cadenze ritmiche, privo di aggettivi, dominato dal sordo «pistari» dello «zappuni», esprime una cultura diversa, al di fuori di ogni bipolarità, e contrappone criticamente alla violenza padronale e all’esclusione dei contadini da ogni rapporto umano la richiesta di una vita riscattata nell’uguaglianza del lavoro; canto di denunzia, di disperazione rabbiosa, di rappresentazione del ferocemente indifferente mondo dei padroni delle terre e degli ulivi. Successivamente alla caduta del fascismo e alle lotte agrarie del 1945-46 al canto furono aggiunti dei versi pieni di speranza: lo zappatore si risolleva e muove contro «li gnuri» per ottenere una società di liberi ed uguali nel lavoro e nella quale non nascano più «mangiafranchi | chi ndi siccaru panza e gangali!».
Nella prima parte risalta il misero tugurio, «lu pagghiaru» con un angolo per focolare, un tronco di legno come sedia («nnu rùmbulu») un orcio rotto e un letto di paglia («jàcina»); una tana in cui lo zappatore si ricovera per mangiare «stroffi e scòtramu duru» e per dormire senza alcuna possibilità di mutamento di stato perché:
Lu mpernu è fattu pe li cafuni,
lu paradisu pe li riccuni.
Pe’ penitenza staju abbuzzuni
fin’a chi campu cu stu zappuni!
Ma su vejanu, su tamarruni,
su peji tosta, niru cafuni.
Dall’interno della lotta per il rinnovamento dell’amministrazione comunale corrotta e discriminatrice la quale era stata in carica a Cin-quefrondi durante la prima guerra mondiale nascono le strofe animose di Zappando, in cui le donne rievocano a fratelli e mariti le camorre annonarie subite, la fame, ed esortano energicamente gli uomini ad aderire al circolo operaio per rinnovare la gestione amministrati-
E se sti cosi mo vi li scordati
siti veri cornuti patentati! […]
E se mannaja Brio se vi scordati,
la facci vi pigghiamu a grancinati […]
Lu pani brundu a nnui ndi dispensaru
ca lu jancu sema pe li malati.
Ma lu jancu li gnuri si mangiaru
e li vejani furu discacciati!
E nui povari fimmani zappammu
cu pani e senza pani e ncutugnammu! […]
Ma mò se chisti cosi vi scordati,
vi néscinu li corna, e li ntrizzati.
Il dirigente rivoluzionario fornisce con questi canti elementi di lotta al proletariato; fornisce anche miti geniali interpretando – per la prima volta nella poesia calabrese – in senso rivoluzionario la tradizione religiosa (tradizione profonda in cui sono considerati santi bizantini umili personaggi del popolo, pastori, stallieri, mietitori o in cui santi guerrieri, potenze soprannaturali diventano protettori e difensori delle misere popolazioni afflitte da guerre, pestilenze, terremoti, carestie, incursioni di armati): la lotta tra S. Michele Arcangelo, protettore di Cinquefrondi, e il demonio, diventa la lotta tra borghesia e proletariato. L’energica rappresentazione del demonio-borghesia ha tratti che derivano dall’iconografia popolare ma anche dalla religiosità della Piana descritta da Conia (Insulto al Demonio, Compiacenza del detto insulto). L’Arcangelo è trasformato in simbolo perfetto della rivolta dei poveri contro gli oppressori ricchi:
Si ribejaru
li servi seculari
e spezzanu catini,
Mitra, Curuni e Artari!
Arcangialu di paci!
Sdarrupa a Satanassu! […]
Tu sì lu Socialismu;
Iju lu riccu grassu! […]
Il linguaggio interpretava le attese contadine di una «minditta di la storia», di un rivolgimento totale. Di vendetta storica si parla nelle animose terzine di Unità proletaria (1924) che diventò un’arma di lotta politica:
Ietta la zappa; pigghia lu giornali:
Avanti! avanti! dici. Oh! zappaturi […]
La minditta arrivau […]
ribiglioni […]
Nenti cchiù servi! nenti cchiù patruni,
Avanti! è santa la rivoluzioni.
Né allora né dopo la fine della seconda guerra mondiale Creazzo era l’unico a credere in una rivoluzione che vendicasse «cu la violenza e lu pugnali» gli oppressi; Creazzo era espressione di generazioni di una società contadina che nella rivoluzione e nelle bandiere rosse vedevano i simboli e le speranze di una nuova storia, specialmente dopo avere subito il peso dell’oppressione fascista. Degli anni del fascismo trionfatore il poeta ha lasciato un documento allegorico-politico geniale che è La cicala, canto popolare sulla frastornante e roboante propaganda del regime mentre «nc’è miseria cu la pala!».
Creazzo era cresciuto in una società contadina che l’oppressione di classe aveva ridotto allo stremo di miseria e all’emigrazione. Egli organizzò i contadini della Piana, li aiutò a ritrovare nella lotta contro i padroni la propria identità scissa e alienata, in tale organizzazione si venne legando organicamente con la realtà di quel mondo ed è significativo che abbia studiato un poeta popolare della Piana, Giovanni Conia, e abbia scritto sul dialetto dei lavoratori di Cinquefrondi. Studiò il dialetto come strumento di conoscenza della vita contadina (vita che volle conoscere attraverso la storia, i reperti archeologici, le monete, operando scavi) per trovare la capacità di dare forma artistica alla volontà di tutto un popolo. Attraverso le antitesi rivelatrici della divisione della società in classi e attraverso l’uso di una lingua espressionistica, canzonatoria e agitatoria riuscì a creare una sua arte dialettale come arma culturale perché il popolo si potesse liberare dalle catene. Nella vita calabrese Pasquale Creazzo è stato un creatore di cultura rivoluzionaria di massa, un poeta dialettale nuovo in quasi tutti i suoi livelli espressivi.
Michele De Marco nacque a Perito, frazione di Pedace (Cosenza), il 17 marzo 1884 e la sua formazione interiore avvenne nel piccolo mondo del borgo disteso verso la valle in cui è incassato il Cardone sovrastato, dalla parte opposta, da boschi di castagne. La casa natia era un abitazione con gli arredi di un’agiata economia patriarcale, prospiciente la valle e aperta sulla piazza su cui è la piccola chiesa di S. Sebastiano. Questa, che era in origine la sede di alcune confraternite, possiede la tela di una Madonna con S. Sebastiano e S. Rocco: un antenato del poeta, il notaio Michelangelo De Marco, nel 1771 «pro sua devotione et voto aurare fecit» la chiesa e la cornice del quadro commissionato da Gaetano Cervino e nel 1905 Francesco De Marco, zio di Michele, «restaurare fecit quod flagellum deruerat» della chiesa. Nella casa più grande – dove il poeta andò ad abitare dal 1934 – esiste una piccola parte dei libri di De Marco: Muratori, Pedemonte, Botta, Foscolo, Guerrazzi, Byron, ecc. (oltre i libri di diritto) che rappresentano i parametri della tradizione culturale sette-ottocentesca in un paese calabrese per il tramite degli studi classici. De Marco studiò nel collegio di Corigliano, nel Liceo classico di Cosenza, nella facoltà di giurisprudenza di Urbino dove si laureò nel 1907. Fin dagli anni dell’università si occupò di teatro interessandosi di Giacosa come modo di partecipazione alla vita contemporanea alla quale la Calabria lentamente si apriva. Il giovane, che aveva sotto gli occhi la vita indigente e stentata della popolazione dei casali, guardava con favore i movimenti di rinnovamento della regione e tenne a diversificarsi dalle idee dello zio Francesco, geometra facoltoso e conservatore, che avrebbe potuto avviarlo proficuamente a Cosenza nella professione. Tale atteggiamento è da sottolineare sia per le conseguenze finanziarie che ha avuto nella vita di De Marco sia per far rilevare che la fermezza di opinioni del poeta fu sempre collegata con il carattere e che consapevolmente egli si oppose a ciò che riteneva estraneo alla ragione e alla propria natura. Ciò va detto per evitare la riduzione di De Marco a dimensioni psicologiche o culturali conciliative.
Il contrasto ideologico con lo zio – drammatico per quei tempi – costituì la presa di coscienza della condizione sociale degli uomini, della divisione che passa attraverso i mezzi di produzione, del peso frenante che i latifondisti clienti dello zio costituivano per lo sviluppo della regione. Quel contrasto è, simbolicamente, anche patriottico nel senso che De Marco prende coscienza anche della condizione
della Calabria e auspica una rinascita dell’identità calabrese come aveva sperato il padre: la lotta contro l’Austria si inquadrava in un dalle completamento dell’unità in cui dalla regioni più depresse – e la Calabria era all’ultimo posto – potessero rinascere le peculiarità tradizionali etniche e popolari. Il repubblicanesimo nasceva in De Marco: dalla delusione postrisorgimentale denunciata da Pietro e da Vittorio (la quale appariva più profonda se osservata dalla Calabria e da Perito), dall’ideologia federativa fondata sulle autonomie locali.
Nel 1911 sposò Maria Aloisia Martire (1885-1921); da essa ebbe sei figli con i quali rimase desolato alla morte prematura della moglie. Gli anni successivi furono tra i più duri della vita di De Marco che nel 1922 si trasferì a Cosenza, nuovo ambiente della sua attività di avvocato, poeta, giornalista, scrittore di teatro e canti legati alle tradizioni popolari. Da allora in poi i generi della sua «letteratura» saranno adoperati in relazione alle circostanze storiche e al nuovo pubblico emerso, con maggiore partecipazione collettiva, dopo la fine della guerra: la poesia dialettale come voce proveniente dalle radici stesse dell’autore e mirante, in correlazione con l’egemonia crociana, alla liricità, alla nota malinconica in cui l’umorismo delle contraddizioni si scioglie; il teatro come più ampio genere di rappresentazione di vita morale richiamantesi al mondo popolare e ai problemi del mondo paesano investito dall’emigrazione, dai drammi di famiglie divise o forzatamente unite, di donne sole e in condizioni di dipendenza, di giovani senza lavoro (ma anche, il teatro come prima organizzazione di attività scenica collegata con la rinascita della regione); i canti delle tradizioni popolari come richiamo, per gli abitanti delle città, ai nodi psico-etnici culturali della campagna; il giornale come struttura di informazione e, soprattutto, di dibattito e, in ultima analisi, di intervento pedagogico (nella trama di interessi, di intrighi, di compromessi che sono sempre il residuo del passato e i germi dei guasti del futuro).
Sono gli anni in cui il cosiddetto distratto (una ridotta immagine di De Marco, possibile sul piano umano ma inesistente sul piano dell’organizzazione artistica), ormai Ciardullo, rivela una mente misuratrice dell’attività artistica e letteraria e dei suoi fini: teatro, radio, giornali, dischi, manifestazioni sportive sono gli strumenti di trasmissione culturale alle masse popolari del tempo. Ciardullo è il primo artista calabrese del Novecento che, vivendo in Calabria, intuisce l’importanza dei mezzi di trasmissione e di questi mezzi si serve per opporre alla retorica del regime la voce di una personalità che mirava a rappresentare in termini storici – e, perciò, di contrasto, polemici – la sua concezione antiretorica e umana della vita e dell’arte.
Nel primo dopoguerra Ciardullo si rivolgeva a una nuova società in fermento per le attese rinnovatrici e nella quale non mancano coloro i quali hanno la patria sulla bocca e il tornaconto nella mente, i «pagliacci opportunisti» che badano unicamente ai «frutti | (pratici, sempre pratici)». La sua conversazione satirica indica al pubblico gli «affari d’oro» dei fascisti, il finto moralismo dei persecutori delle «lucciole vagabonde», la viltà di coloro che vorrebbero allettarlo, commenta i provvedimenti burocratici per agevolare l’ascesa economica dei nuovi padroni che intendono mettere le mani sopra le banche, l’impossibilità di esprimere idee («Io, scrivo parole | che sanno di niente! […]»), la moda di comporre parole incrociate come evasione, di interessarsi di calcio per evitare di discutere di politica. Anche per quanto riguarda la satira occorre storicizzare i versi e gli atteggiamenti di Ciardullo: quella satira non è generica ma è rivolta contro determinati gruppi di persone, in un preciso contesto storico e sociale.
La Cosenza degli anni Venti è una piccola città ricca di fermenti e delle contraddizioni del dopoguerra; la vecchia città è ancora serrata tra la confluenza del Crati e del Busento e il colle Pancrazio, intorno al teatro, all’Accademia Parrasiana, al liceo «Telesio», al caffè Renzelli, al giornale – lungo il corso – alle botteghe artigiane. La città presenta i nuovi ceti emergenti e i nuovi problemi della provincia: le terre della Sila, l’emigrazione, la crisi economica. Il rapporto tra città e campagna è intenso e la città rappresenta il mercato della produzione agro-pastorale della Sila, il luogo in cui si giudicano le grandi cause di proprietà e le piccole liti, la sede di ospedali, teatro, Accademia, biblioteche. In Cosenza si sviluppa una nuova borghesia che fiorisce sul ceppo della vecchia società cosentina liberal-risorgimentale, si scontrano il mondo laico radicale e il movimento cattolico popolare di De Cardona, vivono notabili della terra, galantuomini e professionisti. La lotta di classe è moderata nei primi due decenni del Novecento, poi è la provincia di Michele Bianchi «vestale del fascismo» in pubblico, amante di Anna Fougez in privato preso di mira dall’«Asino» per le sue varie imprese amatorie ma, soprattutto, preparatore della legge-truffa che porta il nome di Acerbo e ministro del governo, segretario del partito fascista. Nella borghesia sono famiglie che conservano l’eredità illuministica dei Salfi, Spiriti, Clausi, Zupo, Bisceglia, del liberalismo di Padula, della cultura idealistico-positivistica di Zumbini, del metodo storico di De Chiara, delle forti personalità politico-culturali marxiste come Pasquale Rossi, Pietro Mancini, Fausto Gullo. Né mancano i gruppi radicali, trasformisti, legati a Luigi Fera, Nicola Serra.
Nel 1929 Ciardullo sposa Gilda Martire (1892-1966), sorella della moglie defunta e da lei ha un figlio. Gli anni Trenta sono quelli dell’attività teatrale e giornalistica, della partecipazione alla vita cittadina, della satira di costume. Nel 1940 esce per la prima volta Stane tranquilla… nun cce pensare!, con prefazione di Luigi Nicoletti.
Negli anni del secondo dopoguerra fu, nel 1943-44, sindaco di Pedace di nomina prefettizia e per qualche tempo fu incaricato dell’insegnamento di lingua francese, di italiano, a Cosenza e in altre località della provincia e fu animato dalle speranze della rinascita democratica: partecipò al dibattito ideologico istituzionale, vide la nascita della Repubblica democratica sospirata durante il fascismo e cercò di operare per una nuova società raccordando la tradizione progressista borghese con le più vaste esigenze popolari.
La vecchia Cosenza è rievocata da Ciardullo in Cumu vinne… e cumu jiu, strofe scritte per la fondazione, nel 1947, del Circolo di cultura «Città di Cosenza»
senza avire alla sacchetta
nu centesimu cecatu,
senza purvera e scuppetta,
senca carta o comitatu.
La città vecchia aveva come centro la via Giostra (poi corso Telesio) con le sue farmacie, librerie, tipografie, un antico caffè nel quale si radunavano gli uomini della cultura e della politica che Ciardullo ricorda nei versi recitati il 18 dicembre 1947 nel salone della Provincia: Alfonso e Roberto Cardamone, Ugo Trocini, Roberto Mirabelli, Aristide Armentano, Luigi Funari, Alessandro Corigliano, Pietro Martire, Nicola Serra, Stanislao De Chiara, Adolfo Berardelli, Giuseppe Carrieri, Mario Mari, Giuseppe Leporace, Antonio Chiappetta, Luigi Fera, Mario Misasi, Emilio De Donato e diversi altri professionisti, scrittori, giornalisti. Due anni più tardi, in una situazione internazionale di pericolo per la pace, partecipò a Parigi al primo Congresso mondiale per la pace e tale partecipazione è stata ricordata da una eccezionale personalità democratica, Rita Pisano, da tutti rimpianta, su Chiarezza nel 1967.
L’idea di Ciardullo era quella della libertà concreta e democratica: il letterato traduceva nella sua attività, lucidamente, concezioni di vita maturate in un’esistenza difficile ma indagatrice e storicamente vigilante. Tale era la sua struttura artistica e umana quando il poeta, il 10 marzo 1954, si spegneva a Cosenza.
Nel quadro della versatilità artistica – di cui tutte le opere di Ciardullo sono documento – le poesie in dialetto (Statti tranquilla… nun cce pensare!, Napoli 1940) si raggruppano intorno ad alcuni motivi concettuali di poetica che sono i seguenti: il povariellu, il cumpari, lo statti tranquilla, la pignata, termini ed espressioni in cui si deposita la filosofia amara de homine di Ciardullo con alcune fondamentali implicazioni interiori: scontentezza del presente e nostalgia del passato vissuto secondo modelli naturali, stati d’animo che sul piano stilistico trovano la loro resa in rappresentazione realistica e in rappresentazione lirica. Povariellu! come parola polivalente per partecipare superficialmente alle disgrazie altrui fingendo vera immedesimazione è una espressione, filosoficamente, della privazione della propria «persona» vera, è una forma della retorica individuale e sociale dietro la quale si nascondono la noncuranza, la nebbia che avvolge il sentire, l’insufficienza del proprio essere. Il poeta propone il problema dell’autenticità e si accorge che le risposte sono inautentiche: di fronte al dramma del bisogno, delle disgrazie, della morte, al grido della vita, la risposta è espressione non vera, tacitamente convenuta per non consistere con la disgrazia. «Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale […] abituarsi a una parola è come prendere un vizio» aveva scritto Carlo Michelstaedter e Ciardullo scava in questo rifugio di autenticità di fronte a scioullu, sccattata, sccangatu, s’è fatta nna muzziellu, chianti ecc. e presenta la vera faccia dell’indifferenza ingannatrice:
Cchi parola leggia leggia,
nun te cumpruminta mai! […]
Chissà sì, duna e riciva
e se mpare senza scola! […]
ppe la porta o la finestra illa trasa
ed è prisente; petrusinu ogni minestra
chi nun custa propriu nente!
La lettura del componimento – che riflette l’amara visione della vita di Ciardullo, il suo modo di penetrare profondamente nella realtà – non è, pertanto, umoristica ma tragica, offre lo spunto a una visione pirandelliana per la quale l’essere è mascherato dall’apparire, la vita è negata dalla forma. Nella vigorosa composizione le immagini realistiche sono velate di comicità (chi si conserva il cannizzu | china china, il giovane che cammina passaluni passalani sotto l’acqua e la grandine con gli occhi fissi a una finestra, l’uomo serioso che da dietro la scrivania guarda indifferente chi ha bisogno) ma il significato rimane amaro e crudele.
Tale è anche – e la poetica lo dichiara – Cumpari, ampio componimento in sestine in cui è rappresentata la falsa personalità, untuosa di amicizia sacrale (il Sangiovanni!), di compare Micu il quale in rebus secundis finge amore e dedizione e in rebus adversis manifesta la vera qualità di codardo che ha «sempre mbacca il povariellu!» e se la squaglia «tisu tisa». Il centro poetico del componimento è nell’ipocrita compianto fatto da Micu il quale riferisce con contrizione le diffamazioni contro Carru e mentre afferma il proprio dispiacere accentua i pericoli di rovina personale che certamente deriverebbero dall’eccessiva vicinanza all’amico rovinato: «Gira de fore! […] te sturci puru! […]»). La rappresentazione artistica dell’ipocrita che per non aiutare il compare in povertà si dichiara privo dell’indispensabile (mentre alleva tre maiali), si rovescia le tasche mostrando tre nichelini ha una superiore coerenza stilistica di linguaggio che ne fa un carattere.
Il suo discorso si muove tra reticenze significative volute, guarnite di finta saggezza (l’amico si è rovinato da solo, l’ha voluto lui!) sia quando parla agli altri sia quando incontra l’amico. Ormai egli segue la ben conosciuta via della viltà e dell’ipocrisia e Ciardullo sottolinea nelle note gli elementi psicologici del finto amico la cui finzione ha radice in quella sociale, nella convenzione comune del vivere pratico: «Come è vero che ognuno, sia pure abbietto, ha bisogno di trovare una giustificazione per le sue azioni codarde» (Ciardullo). Quando Ciardullo scrive questo componimento ha esperienza interiore della finzione degli uomini (finzione di amicizia, generosità, altruismo: da lungi!) e la sua interiore delusione diventa sentimento poetico. Ma occorre precisare che il componimento – per qualche critico il capolavoro di Ciardullo – ha una struttura artistica drammatica: lo svolgimento narrativo, culminante nella vendetta di Carni, si muove attraverso l’illusione di Menichella di ricevere il ratu dal compare Micu e l’ineffabile dialogo tra lei e il marito veramente filosofo il quale finge di credere alla povertà di Micu mentre, risollevatasi la situazione, medita la vendetta. Poetica e poesia coincidono nella simpatia con cui gli sventurati sono accolti e grandeggiano nella fantasia del poeta.
Per il mutare della fortuna (genialmente, la zinzulusa della concezione popolare) Carni rimprospera e il poeta coglie il ritmo lirico con il grande paragone che occupa tre sestine, grande nell’ideazione, nella funzione strutturale che ha, affabile e potente perché il calore della rinascita circonfonde i miseri che Ciardullo abbraccia nel loro risollevamento. Il linguaggio che allegorizza la vita e la speranza è naturalistico; la vita (lu raricune) sempre si rigenera (mai nun se sterra) con nuovi polloni che dall’involucro secco concrescono e si raggruppano in cespi forti e neri come la terra (nn’ajfaloppa dal latino volgare faluppa = avanzo di paglia; s’attroppa dal greco trofé = nutrimento):
ma a primavera, de sutta terra,
duve c’è sempre lu raricune,
chi, quannu ed illu, mai nun se sterra,
tutt’a nna vota fa nnu iettune;
pue n’àutru e n’àutru ti nn’affaloppa
e forte e nìvura criscia e s’attroppa;
ccussì, sburrata la gran tempesta
doppu nnu saccu de sciuolli brutti,
doppu frunuta la bella festa,
li nciarmi nìvuri sprejìeru tutti […]
Quando Ciardullo scriveva questi versi era dominatore del linguaggio e aveva fatto cuore del suo cuore la visione della vita come finzione di forme e inganno di sostanza. Ma il poeta vuol essere con gli sventurati rimprosperati, fino alla fine, e con straordinaria conclusione aggiunge, per sentimento di giustizia, la vendetta del vero eroe, lo «ngalapatu» Carni, il quale rende pan per focaccia al compare versipelle che si è autoimmeso nella casa del Sangiovanni tradito. La vendetta si iscrive perfettamente nella fantasia popolare del fiabesco che punisce il male e premia la virtù. Specie, quindi, di «rumanza» il componimento di Ciardullo per plasticità e complessità di elementi (lirico, drammatico, umoristico, eroico), nel quale non mancano gli elementi popolari della fortuna (cioè della sfortuna, che è sempre riparabile) che aiuta l’eroe quasi fatato, Carru, al quale, quando la sorte gli è favorevole, anche le pere mprosperavanu un’ura ppe due! e un maiale s’era fattu già nnu cavallu!. Come nelle fiabe Carru è l’eroe antitetico al malvagio Micu che infrange le regole della solidarietà della società patriarcale (il prototipo popolare della solidarietà è S. Martino che divide il mantello col povero), come nelle fiabe prevale il sentimento collettivo di giustizia e ci sono gli uditori ai quali il raccontatore si rivolge (anche in una nota c’è l’intervento diretto: «il mondo purtroppo è ai cumpari Micu che presta fede e tributa onori»): «Però, dicitime sinceri e chiari: | mo, nne caminanu de sti cumpari?». L’eroe Carru sa quello che veramente pensa e farà Micu ma, vero capo di casa del mondo contadino, non informa il figlio e la moglie e li lascia interdetti quando getta fella pe fella (è il latino offella) la carne ai porci perché ai porci – particolarmente ad uno, a Corallo, il porco-cavallo – Micu dimostrava di averla mandata.
Il componimento è forse il capolavoro di Ciardullo per il modo in cui sono fusi nell’arte i sentimenti di fraternità per i poveri e i vinti, la tenerezza con cui è ritratta la donna illusa e sottomessa, Menichella, la quale trova il suo vendicatore, l’ammirazione per la calma sopportazione e l’intelletto fine di Carru. Il sentimento della vita quale dovrebbe essere – chiaro e sereno – e quale invece è, determinato dai guasti operati dalla viltà, traspare nel linguaggio della vera amicizia aggraziato dai diminutivi (cerasiellu, cistariellu, prumentiella, nzalatella), nelle due sestine della zinzulusa che si accanisce sinistramente per distruggere gli uomini («È una disgrazia, nna jettatura, | nna serpa nìvura chi te mpastura!»).
Anche nel componimento Statti tranquillu… Ciardullo in nome della verità fa la lotta alle parole, alle parolicchie zuccariate che vogliono ignorare la vampa de nfiernu che vruscia lu core all’affamato, al morente, allo sfrattato. Chi pronunzia quelle parole, facendo dipendere gli altri da sé, si crea una supposta indipendenza con l’inganno. Ciardullo non rappresenta populisticamente, in arte, i poveri come avveniva nella poesia tardo romantica di fine Ottocento ma rappresenta coloro che dipendono dall’altrui indifferenza: chi ha ritocchi stuorti de lu petitu, chi s’arreducia comu li cani. L’esperienza dell’avvocatura, della medicina legale, dei periti di tribunale, dei professionisti cittadini avuta da Ciardullo si traduce in immagini nette, tra il sorriso e la pietà, la nota distintiva con cui il poeta elimina l’inutile sentimentalismo ormai remoto dal Novecento. Si veda l’ammalato grave al quale il medico dice di stare tranquillo:
e s’è cunzatu chi l’Acciomu
rimpettu ad illu para nu jencu […]
se cuntu l’ossa, me’ cchi gradiglia.
Ma netto è il distacco del poeta dagli ingannatori:
Sì, ma lu miedicu, ma l’avucatu
ma l’autru granne, granne segnure
restanu sempre, fore peccatu
gente de stima, gente d’onure! […]
Gente chi sempre sà navicare […]
Abbiamo posto in primo piano le travature ideologiche di Ciardullo – la sua opposizione alle finzioni morali – come base della sua etica per potere indicare gli elementi pii) apertamente lirici della poesia: il mondo dell’infanzia, della casa, del passato come momenti di felicità perduta e irrevocabile ma, soprattutto, come momenti di solidarietà e di aggregazione affettiva del piccolo mondo rural-paesano. In Natale la festa è una riappropriazione della più intima identità nel ricordo delle tradizioni, nel richiamo delle persone lontane; ed è un Natale di poveri che non possono comprare ciò di cui dispongono i dinaruti, i varva varva rispettabili, fa intendere il poeta, per il danaro. I proverbi sono anfibologici, ambigui; lo sa bene Ciardullo il quale così commenta ironicamente il proverbio che quando gennaio è secco il massaro è ricco: «E abbasta chi stau commeri Barracca e lu massaru, | nue ca crepamu è chiacchiera; lu munnu è sempre mparu!».
La ricchezza dei Barracco è volgarmente elevata a simbolo di casta mentre, annota Ciardullo, «noi poveretti non siamo destinati ad essere presi in considerazione, morti o vivi», il mondo va avanti lo stesso. Gli accenti amari eliminano ogni sentimentalismo e la ricorrenza festiva consumistica, vista dalla parte dei poveri, è oggetto di umorismo popolare. Ciardullo capovolge la situazione e immagina, satiricamente, che la festa sia una vera cuccagna; il mundus inversus della cultura popolare, la reversibilità fra produzione e consumo offrono al poeta le immagini patetico-illusorie delle donazioni:
L’ova ti lle regalanu, li frutti vau ppe riterrà;
vi, te cali e le cuogli! Vidi nnu serra serra
ntra li cafè: Renzelli, chill’anima pietusa,
duna li durci gratis! […]
Li durci suli? Tutti!… Li pisci a nna ciutìa,
trasi ccu dui centesimi ntra nna salumaria!
Li vruocculi l’hai puru a nna lira lu mazzu…
Già illu mo li dinari se chiamu: Chi nne fazzu! […]
E, si va de ssu passu, minutu ppe minutu,
fruna ca puru patrimma se trova dinarutu!
Ma nonostante la povertà la festa riunisce gli animi intorno alla Madonna e al bambino, poveri in una stalla, con le immagini, figurativamente popolari, della lacrima che solca il viso della Madonna e le cade su una mano, della famiglia-rifugio affettivamente sentita nei diminutivi (famigliella, casicella, tavulilla). Il linguaggio ormai individuale, preciso, impastato con le cose domina in A’ castagna nella pienezza di un ottobre montano folto di pastori, contadini, mulattieri, garzoni, giovani, vecchi, bambini, animali (pecore, asini, maiali, piche), attrezzi di lavoro (carracchi, quadare, cannate, menzanelle, cirmielli), arnesi domestici. È l’epos della castagna che nutre uomini ed animali e le strofe hanno andamento solenne («Nzigna la castagnella prumentìa») che esprime l’abbondanza («E dintra l’erva tu vidi nu lacu | e lu filice mancu lle cumbeglia!») di cui tutti possono godere («È jussu»): «Ntra le castagne nue cce simu nati… […] | Li paisielli nuostri, tutti quanti, | tutti ntra le castagne su conzati!».
Tutto il paesaggio è connotato dalla castagna nelle varie stagioni dell’anno e anche la vita degli uomini e degli animali si svolge insieme con i suoi fenomeni: l’idillio delle gazze che fanno l’amore, il suono del pastore che con un virgulto si crea uno zufolo, anche la nebbia autunnale è castagnara.
Il linguaggio è morfologicamente e foneticamente funzionale alla realtà naturalistica (assembera nu tacchiu perarulu = rammollisce un tralcio nato ai piedi dell’albero; e ccu la corchia lu lippu se caccia = e con la buccia stacca anche la pellicola) ed ha scaturigini profonde; collegate con la vita e la cultura popolare le parole dialettali sono la realtà stessa, avvolte nei veli che a questa sono concresciuti, conservano segreti storici e umani che occhieggiano nelle espressioni, sono parole semantiche insaporite di storia umana e passate, di società in società, fino a Ciardullo che penetra nel cuore della loro essenza. Tutto il mondo dei poveri dei boschi («È gran cosa ppe nue povara gente») è, quando piove, nella casa-tana intorno al fuoco che intenerisce l’anima coi ricordi. Il tempo delle castagne induce al ricordo delle disavventure passate, al compianto secondo moduli popolari («Jettai la paglia a mare e me jia nfunnu, | li carvuni de fagu su stutati | […] la nive de jennaru m’ha vrusciatu!…») delle canzoni alla rovescia, di immagini di paura ma anche di nostalgia della solitudine e dell’infanzia in mezzo alla campagna:
Ma… potire tornare nnu mumientu
luntanu, sulu, mienzu a sta campagna;
e trovare cussi nn’ura d’abbientu,
e m’assettare sutta nna castagna,
e guardare lu cielu ntra li rami,
mentre l’aggielli fau canti e richiami […]
I motivi, qui carducciano e pascoliano e, prima (la campagna a maggio, il pastore che zufola), polizianesco, appartengono a una cultura classica filtrata attraverso il sentimento individuale e ricreata sul ceppo della propria storia.
Nei componimenti esaminati il poeta è presente con idee, stati d’animo, con la poetica, con la simpatia per la povara gente e, nella poesia, con l’assunzione, dall’interno del mondo dei poveri, del loro punto di vista (solidarietà tra gli uomini, valutazione del pregio delle piccole cose essenziali alla vita). In ’A pignata il punto di vista è più
alto, è illuministico perché quel mondo dei poveri non continui ad essere sfruttato per le sue credenze superstiziose e arretrate. Il punto di vista umano e razionale è sciolto nella visione della beffa, della paura di coloro i quali vorrebbero rompere la pentola per entrare in possesso di un tesoro e se ne astengono per non aggrancari e restare ntisicati, dell’evento finale – la rottura della pignata – compiuta dal sodale dell’uomo nella vita povera, il maiale, che diventa liberatore dei pregiudizi e dei timori! La rappresentazione ha due momenti artistici: la paura del padrone spavaldo, della serva che pensa di mutare la propria condizione di disperata con l’acquisto del tesoro e la fuga selvaggia del rivuotu mangianiscu che «ngrigna, zumpa, arrazza, scasa | e se nzacca ntra la casa» come una palla. Il componimento ha la struttura della fiaba – l’antefatto, le sospensioni, le utopie del meraviglioso – ma non la soluzione (che è comico-didascalica) perché nessuno dei personaggi ha compiuto una impresa generosa per la quale debba essere premiato. La fiaba della pignata vede in Ciardullo il contemporaneo, nella giovinezza, di quel Pasquale Rossi che fu l’intellettuale più moderno della Cosenza dell’ultimo decennio dell’Ottocento e dei primissimi anni del nuovo secolo, autore di L’animo della folla (1899) e di Le «rumarne» ed il folklore in Calabria (1903). Ciardullo in questa fiaba esprime il maggior grado di consapevolezza scientifica. La pignata da non rompere è un elemento feticistico di quelle forme pietrificate sedimentate nell’animo collettivo (come gli spiriti, gli incanti, le magie, l’orco, ecc.), di quei fossili di credenze tramontate ancora persistenti in età moderna e Ciardullo ammaestra a non credere in quegli imbrogli e stupidità:
chine vida spirdi stuorti
e se spagna de li muorti;
chine crida ca cc’è l’uocchiu,
ca cce su le magarie
ca le fimmine mpapuocchiu
nciarmi e ncanti: su ciotìe,
su ciotìe de mente storta
chi nun capu de nna porta.
Io alle mamme chi alli fili
diciu: «Me’, lu mammarutu»,
le rumpera tri verpili
alle coste ogne minutu;
lle striglierà ecu l’ordich
ca ’un su mamme, su nimiche!
L’ammaestramento è che per nessuno (e meno che mai per i disperati) esiste tesoro che possa mutare le condizioni e che non bisogna affidarsi alle ciotte. L’insegnamento, che è fuso perfettamente nell’ordito del racconto, rivela che c’è sempre un gabbatore che ride degli insensati. La narrazione include anche il racconto, come paragone, del re travicello che, come tutti i re (altra morale!) facia fare e ‘un pipitava. Infine nella fiaba c’è tutto l’ambiente rurale (vagliu, vota, catuoju) con gli oggetti per la produzione e la conservazione (il vecchiu farinaru e altri).
Durante il fascismo Ciardullo accentò i motivi di satira, emersi dalla deformazione della vita, in nome dell’identità popolare italiana e in L’oru… mio!, dopo aver protestato la propria povertà
(Io alle scarpe nun tiegnu mancu tacce,
e tu cerchi oru e te rivuorgi a mie […]
si tu pigli e me vuoti capusutta,
mancu cada nnu sordu papalinu!… […]
sucu de petra nun inchìu rugagnu…)
invita chi gli proponeva di dare oro alla patria a rivolgersi a chi ha le cassette nzippellate. Il poeta aveva bene individuato che il fascismo non era un male temporaneo o ricorrente bensì nasceva da strutture economiche privilegiate, nell’ambito nazionale, con fini antinazionali; in Calavrisi, jettàti la sarma, riprendendo il grido e i versi del padre Vittorio, continua la protesta della generazione precedente contro la piemontesizzazione dello Stato per opera di una classe dirigente giunta al potere con mentalità e azione colonizzatrice nei confronti dell’Italia meridionale. Il problema meridionale diventa un problema di unione contro i padroni dei mercati nazionali:
ma daveru ca lu giargianise
ch’à tri sordi se crida nu Diu!
Pecché tena la manu alla pasta
lu cuvernu lu fa galliare
sicché con tale protezione
su’ calati, sanguette, piatusi,
a nne dare nna luce, nna via…
E ni l’àmu trovati a ogne spangu
de ssa terra, ccu l’ugne alle manu…
Ciardullo individua in determinati ceti economici («Chilli cani, aquattati alle porte») i nemici del popolo e della nazione sostenuti dal fascismo che, impadronitosi anche della stampa, ha dato avvio a uno stile giornalistico ricco di insulti e volgarità. Egli accentua i toni realistico-bozzettistici nei confronti di chi ha fatto la guerra a Bari e offende il combattente che è stato ferito, del mediocre mondo morale di talune mogli di tollaristi, di quello dei parassiti che vivono in paese alla faccia dei lavoratori che sono in America (con riproduzioni del linguaggio italo-americano che caratterizza la sbruffoneria).
L’ultima sezione del volume, quella delle canzoni in dialetto, indica una nuova dimensione di Ciardullo, l’attenzione verso un genere letterario rivolto a un pubblico specifico. Durante gli anni del fascismo Ciardullo comprende che la propria libertà artistica è oggettivamente limitata dalle restrizioni poste alla letteratura e al teatro dialettali. Tuttavia cerca di adoperare gli spazi consentiti per far giungere i canti popolari calabresi alla conoscenza del pubblico. L’idea fondamentale è che anche la Calabria debba portare tra la gente il suo patrimonio di canti popolari come le altre regioni. Tale patrimonio era stato raccolto, con le sue molte varianti, da studiosi ma non giungeva al pubblico nazionale attraverso i moderni mezzi di trasmissione per mancanza di una vera organizzazione culturale. Isolati e all’opposizione politica erano i poeti dialettali come Pasquale Creazzo, Vittorio Butera, Nicola Giunta. Nel cosentino Ciardullo compose canti popolari che vennero musicati da Osvaldo Minervini; nel 1930, in occasione della rappresentazione al teatro Comunale di Cosenza della rivista goliardica Matricoleide, conosciuto il Minervini, raccolse nei paesi e nelle campagne canti popolari che nel 1950 poterono essere eseguiti. A Cosenza costituirono una società corale «Il coro della Sila» e realizzarono trentasette incisioni che comprendono canti tradizionali e canti scritti da Ciardullo e musicati da Minervini. I temi raccolti nell’edizione delle poesie dialettali sono quelli dell’amore contrastato in cui l’espressionismo psicologico accentuato dagli stornelli ribadisce i modi della tipologia e dei comportamenti popolari: la partecipazione della madre alla majìa subita dal figlio («Mamma chiangennu tutta ’ntossicata, | m’ha dittu»), l’idillio – con influenze degiacomiane – campestre e musicale, l’incantesimo notturno della serenata come tregua della natura («La iumarella abbasciu, guala guala, | rùccula […] | Nu riscignuolu canta»), la serenata satirica a una donna scaltra e non sincera. Tra i componimenti non mancano, quelli con struttura artistica più complessa come Ntiempu de l’uva, un idillio scherzoso dominato dalla grazia affettuosa e da un sospiro di felicità, con fermezza di immagini tradizionali («Supra la frunte avìa due cerritielli | scappati fore de lu maccaturu…») o la parola di affettuoso compianto che la donna di Nna serenata mormora all’innamorato vegliante per lei. L’ultimo componimento, Primavera, contiene note di amarezza sulla povertà, sugli uscieri, sulla caldaia che arrama […] | bocchissutta!, sulla lotta per la vita che fa diventare cattivi gli uomini: «Ppe bisuognu, nno ppe spreggiu | fa la lutta ogne animale. Ppe la tinta cannarozza!…».
A distanza di molti anni dalla pubblicazione le poesie dialettali di Ciardullo rivelano la loro durata – anche in rapporto a Di Giacomo, a Michele Pane, troppo ripiegati sulla musicalità – sul piano della complessità dei sentimenti e delle contraddizioni della vita. Quell’unico libro rimane uno dei gioielli di tutta la produzione dialettale della letteratura calabrese e italiana: storicamente i componimenti corrispondono a una esperienza di povertà materiale delle nostre popolazioni e di illibertà politica tradotte in arte con creazioni di caratteri e di stati d’animo individuali.
Il teatro dialettale calabrese è mancato, quale struttura consapevolmente organizzata, per diversi motivi. La società contadina calabrese, che ha sempre costituito – fino a pochi lustri or sono – la maggioranza della popolazione, è stata sempre una società subalterna in una struttura feudale, in un territorio privo di continuità, frammentato dalle montagne. La struttura feudale ha alimentato una cultura protestataria che ha avuto la sua anabasi nei quaranta anni successivi all’Unità ed ha fondato la protesta sui temi collettivi del brigantaggio – che ha assunto il carattere politico di lotta di classe per la mancata distribuzione delle terre già feudali o demaniali – e dell’emigrazione che conseguì alla vittoria savoiarda sul brigantaggio. Il mondo contadino – un mare di popolazione – non ebbe collegamenti necessari all’organizzazione sociale e culturale per la frammentazione del territorio e per le diversità culturali ed etniche dei paesi e dei villaggi. Basti pensare che i Greci dell’Aspromonte, abitanti nelle montagne assolutamente prive di strade, vennero ritrovati in dodici villaggi, da Carlo Witte nel 1820, in condizioni di vita primitive.
In tali condizioni di subalternità il mondo contadino non poté avere un Ruzzante che ne rappresentasse la schiettezza; le tradizioni, ricchissime per elementi indigeni di rara antichità e per apporti orientali, rimasero sedimentate in loco come membra sparse, come memorie rituali il cui significato culturale a poco a poco si venne perdendo, come detriti superstiziosi. I canti dialettali adespoti che possediamo sono spesso riflessi letterari pur avendo, nel lor complesso, autentiche radici locali. Ma l’immensa cultura popolare dialettale orale si è perduta; tra le sopravvivenze rimasero sparsi canti religiosi, erotici, politici, molti proverbi.
La società borghese in Calabria, antifeudale nell’età illuministica, avente come esponenti i galantuomini nel periodo postunitario, non fece sua l’epica contadina neanche durante l’apporto del verismo dialettale nel teatro per mancanza di strutture culturali e organizzative. Dopo l’Unità esistevano ancora le «Calabrie» diverse e divise che non avevano unità regionale né consistenza sufficiente per rappresentare in arte teatrale la situazione drammatica per eventi e personaggi di quella vita. Il teatro balenava negli elementi popolari più profondi – la drammaturgia della settimana santa, le cantate pastorali di Natale, le farse di carnevale, le farchinorie dei pastori, i canti di vendetta, dei carcerati, di sdegno, di passione – ma mancava in essi la superiore organizzazione artistica che li storicizzasse legandoli al tempo e al gusto presente e facesse sentire il genius temporis più che il genius loci.
Del teatro dialettale di Ciardullo sopravanza solo una parte, il resto è andato perduto per mancata conservazione dei testi da parte dell’autore (che da una certa epoca in poi, per malattia agli occhi, li dettò), per scioglimento delle compagnie, per la guerra. La perdita più grave è quella di Mara Grazia, un dramma che, per la indicata insistenza di strutture teatrali calabresi, fu tradotto in siciliano e rappresentato in vari luoghi d’Italia da Giovanni Grasso e Umberto Spadaro nel 1923. Di esso non possiamo dare un giudizio. Le cronache teatrali del tempo e i ricordi di parenti e amici possono darci, però, un’immagine della vicenda della protagonista, donna di libertà che afferma il proprio diritto all’amore al di là dei riti della vedovanza bianca, giustificati e imposti dall’emigrazione e che lega, anzi, la sua scelta alle conseguenze e alle contraddizioni dell’emigrazione.
Ciardullo fu un precursore delle motivazioni femminili nell’impostare il problema del diritto all’amore superando la ristretta concezione patriarcale della fedeltà-catena e mettendo il dito sulla crudele realtà effettuale della donna claustrata nella solitudine. Questo è il primo significato del dramma che si lega a un destino femminile dovuto a necessità ma, anche, a sovrapposizioni pseudo-etiche aggiunte a posteriori quali: il sacrificio assoluto vigilato dai parenti, dall’ambiente, del paese, la vestale al di sopra dei sentimenti e al di fuori della vita. Ciardullo mostra una modernità sorprendente e rappresenta la condizione della donna obbligata e solitaria, senza aiuti e senza consigli, con il marito oltremare. In altri drammi si soffermerà sulla mancanza di difesa, di protezione civile e sociale, della donna sedotta e abbandonata e sull’inevitabile delitto di onore quando l’ingannatore è sposato e uomo di malavita. Questo destino – altrove la donna è malmaritata in conseguenza delle frodi, a fin di guadagno, di una volpe di piccolo rivendugliolo – indica la precarietà della vita femminile nei paesi e nelle campagne in un tempo in cui essa era penosamente debole, soggetta in ogni caso all’uomo e da questi dipendente; un triste proverbio calabrese dice: «A nudhu mu pozzu, a mugghiérima la pozzu».
Mara Grazia, una giovane contadina la quale otto giorni dopo le nozze è lasciata dal marito che va a lavorare in America, dopo lungo tempo di lontananza si abbandona all’amore di un giovane e al marito, ritornato in seguito a lettere che lo informano di quanto accade, afferma il diritto e il valore del suo amore disarmando con la forza della ragione e del sentimento, della propria umanità, il marito che si allontana per sempre dalla vita di lei. Mara Grazia che si erge contro il maledetto Titta, che contrasta i genitori tutori dell’onore della figlia considerato come un fregio familiare, che rimprovera al marito la sua inavvedutezza, rappresenta il superamento della concezione matrimoniale masochisto-patriarcale e il marito venuto per vendicarsi si allontana non per sdegno ma perché riconosce la ragione umana della moglie.
Gli elementi drammatici sono presenti anche nella commedia in tre atti Vampate la cui vicenda si svolge in un paese calabrese intorno al 1920 (che è approssimativamente anche la data di composizione). Nell’opera sono due personaggi fondamentali: Matalena e Squaquicchiu. La donna in seguito alle interessate male arti di Squaquicchiu, il quale le prospetta l’infedeltà del fidanzato Franciscu, sposa un tordone ricco ritornato dall’America. L’emigrazione ha portato nei paesi anche fratture psicologiche, miti e ambizioni oltre che modificazioni economiche.
Il teatro di Ciardullo anche in quest’opera si fonda su personaggi del mondo contadino e passioni e sentimenti si svolgono in tale ambiente del tutto privo di simbologie e astrazioni. Qui, anzi, il piccolo mondo paesano appare nei suoi momenti di solidarietà festiva, nuziale, con un fitto coro di piccoli rivenditori, contadini, ciechi, preti, un invasato dagli spiriti, donne che lavorano e cantano versi popolari. In una piccola società rurale ancora precapitalistica sopravvivono, però, rapporti di produzione e personaggi feudali come mediatori, compari, piccoli procacciatori, guaritori, incantatori i quali operano nella realtà con comportamenti psicologici sommari. Squaquicchiu, piccolo rivenditore, conosce la realtà mediocre in cui accortamente si muove mirando all’utile particolare ed enfatizzando il metodo della riuscita sicura in base alla conoscenza delle situazioni e all’opportuno operare. Ma non ci sono forze che a lui si oppongono; tutti lo osservano e lo lasciano fare: «Cumu lu pastìa!… […] Chi velenu […] chi bellu mpiegu! […] Mo vidimu duve sciurta». Squaquicchiu conosce le regole del piccolo agire e sa che in una situazione in cui gli altri non hanno un metodo egli prevarrà con i puntelli dell’astuzia: «Squaquicchiu | te purminta e nun te manca!… […] | Lassarne movere, lassarne fare!». Nel dialogo con Matalena con abile proverbiare insinua la gelosia nell’animo della donna per proporle di sposare il ricco americano Pasquale:
Te vo nnu bene,
nu bene pazzu!… […]
Rumpala, rumpala
chissà catina!
Ccu l’autru, pensace,
vai nna rigina!
Dopo la scena di Francesco che all’osteria, in seguito alle rimostranze di Matalena, si dichiara libero dalla catena, l’azione si svolge davanti alla chiesa di S. Ippolito la sera del 12 agosto, vigilia della festa, in una animazione straordinaria, determinata dai gruppi di contadini, dai ragazzi, dalle grida dei venditori, dai canti di chiesa delle donne, in mezzo a scene caratteristiche a racconti di disgrazie, di spiriti, di superstizioni, di motti contro a medicina ufficiale (il medico a ogni cosa «mintu lu mussu (..) | jetta na frambosa, | s’acchiappa deci lire»): in questo quadro di festa atalena, ormai sposa, fa la sua prima uscita, ornata d’oro, al braccio del marito turdulice. Il momento di trionfo di Squaquicchiu autoesaltato in un canto, è contemporaneo alla visibile presa di coscienza di Matalena la quale si solleva dalla condizione di masochismo morale e in cui si era gettata seguendo i consigli di Squaquicchiu e sposando l’americano tonto e ricco, riprende possesso della propria individualità mentre Rachele, in funzione di coro, di voce collettiva, disprezza la opportunistica intrapresa di Squaquicchiu:
ccu mente e studiu
chillu à jucatu sì,
ccu lu sgalapu
de dui guagliuni
e à fattu st’opera […]
Ciardullo è lontano dal trionfo del negativo del teatro europeo insistente, in quel tempo, sulla condizione umana e riporta l’azione ormai matura, in positivo. Tutti sono ormai contro Squaquicchiu, Franciscu amaramente innamorato di Matalena sottolinea la propria sconfitta («Tollari non n’avimu»), offre liberalmente cibi e bevande alla gente del rione «(Ppe l’amure de chilla gappa via […] | vicinanziellu miu spinguliatu […] | chjnu de bona gente e curtesia), perfino a Squaquicchiu che si dice vilmente pronto a «sbrogliare ogne matassa» Franciscu lancia offese a Matalena sedutasi al suo tavolo finché la donna, nel colloquio faccia a faccia con l’antico fidanzato fugge con lui. A questo punto trionfa l’individualità di Matalena ma affinché nella solitudine sconti la condanna di aver seguito il perfido consiglio di Squaquicchiu il dramma ha fine con il matrimonio di Franciscu con la figlia di Gustinu, con il ripudio di Pasquale e di Squaquicchiu da parte di Matalena che rimane sola col suo errore e la sua passione.
È questo il dramma più complesso e più ideologicamente avanzato di Ciardullo nel quale è la condanna degli intriganti della picco a società degli inganni e del tornaconto e il riscatto degli errori della donna nell’autenticità del sentimento ma anche nel dolore della sconfìtta. La rappresentazione del piccolo machiavellismo del rivenditore Squaquicchiu getta un velo di amarezza su tutto il dramma: la vita dei paesi si svolge in un reticolo di inganni e di frodi a fine di interessi e di utile a cui le persone soggiacciono, soprattutto le donne che sono le più indifese; gli inganni determinano situazioni di infelicità che graveranno per tutta l’esistenza delle vittime. Il dramma di Ciardullo per questo aspetto è una protesta del cuore e della ragione contro le strutture sociali che consentono gli inganni, la sua risposta e la delusione per cui anche chi lotta e fa valere la sua personalità, non riesce a liberarsi dai tentacoli disumani dai quali è stato avvolto.
Questo preludio non naturalistico ma problematico e morale avra il suo seguito negli anni Trenta quando Ciardullo darà vita al «Teatro dialettale calabrese», otto anni dopo la prima ideazione. Il 18 giugno 1932 il teatro dialettale veniva inaugurato con tre lavori di Ciardullo, diretti da Alessandro Adriani: Prologo al teatro dialettale: ’U suonati de chist’nocchi, Quarantottu. ’U muortu chi parra. Nella valutazione della personalità di Ciardullo anche nei confronti degli altri poeti dialettali calabresi del Novecento non si potrà prescindere da tale realizzazione: la personalità del poeta deve essere storicizzata anche in riferimento al mondo artistico con cui ha oggettivato teatralmente le intuizioni poetiche. La dimensione di Ciardullo poeta e artista non è riducibile, cioè, alla liricità di taluni componimenti ma deve essere valutata in una dimensione storica sostenuta dalle idee, dai presupposti morali, dal rapporto tra società e cultura. Il poeta ebbe sensibilità artistica nativa ma la sua struttura è di uomo colto, fedele al mondo popolare, inteso a rappresentare in diversi generi letterari il rapporto tra natura ed evoluzione, tra ragione e costume nazionale in evoluzione.
Il Prologo dichiara le ragioni di quel teatro, la poetica dell’istituzione e le radici nell’ethnos tendente all’armonia musicale nella quale si placa la durezza originaria: Dionisio e Apollo, divenire ed essere
come termini costanti della vita che si risolvono nel linguaggio. È questo l’unico intervento teorico di Ciardullo che indica i dati etnografici e linguistici generali: autenticità di forza e di delicatezza interiori (fedeltà, verità, rapporto intimo con questi sentimenti), patrimonio lirico connaturato con il paesaggio meridionale (ma piuttosto generico e digiacomiano:
Vidi na fenestrella […]
e pue na rosa russa
chi cada chianu chianu…
e la canzuna s’aza
tranquilla, e la chitarra
para ca tena ll’anima),
capacità espressiva del dialetto: «chissà parrata nostra | cumu, cumu sa dire!…».
Lontano, quindi, dal verismo regionale di altri teatri dialettali (l’uso degli elementi folklorici in Ciardullo è limitato), dal bozzettismo puro, lontano da motivi sperimentali di tecnica, da intellettualismi, Ciardullo fonda il suo teatro su contrasti di sentimenti, orgoglio della passione che vince o soggiace, ma predominando, nelle difficili situazioni. L’elemento centrale è la rivendicazione dell’autenticità delle passioni che hanno origine nella drammaticità dell’anima calabrese la quale tende all’armonia e lotta fino alla morte.
Ma ogni elemento di naturalistica calabresità rimane subordinato al motivo interiore e alle ragioni dell’arte. Motivi interiori sono per Ciardullo il tormento
chi nne travagliu l’anima,
chi nne vruscia lu core,
sta passione cucente
chi sbampa ed escia fore,
tutti, tutti ssi spasimi
ch’a nnue nne fau morire:
nella qualificazione psicologica si coglie il sentimento calabrese del divenire e delle contraddizioni dell’essere ma anche, come elemento storico di carattere popolare (i termini tormento, passione, spasimi ne sono la spia), la tonalità passionale meridionale caratteristica del periodo fra le due guerre e connotata dalla diffusione del tango (arricchitosi in Argentina dei motivi degli emigrati meridionali) in Italia con le sue note di ardore e di intensità liriche derivanti da passioni consumate, vite perdute, nostalgie dolorose che sono rapidamente assimilate dalla congenialità nei nostri paesi calabresi: amore e morte, passato irrevocabile e per sempre perduto, assolutezza dei sentimenti, rimpianto per la loro caduta, sacrificio in loro nome ecc. sono motivi sostitutivi di una vita immaginata e che passano, come grande onda musicale, nella psicologia e nella cultura meridionali.
A tale elemento storico occorre aggiungere la concrezione dei sentimenti passionali nella canzone napoletana e nei componimenti di Salvatore Di Giacomo nei quali i motivi sono mediati, dialettalmente, in funzione di un pubblico piccolo-borghese.
Il linguaggio dialettale in Ciardullo è, pertanto, omologo al sentimento di verità e di autenticità del popolo, la parlata fresca dei casali cosentini è adeguata allo sforzo di creare un linguaggio regionale che mancava quando i grandi mezzi di comunicazione moderni non avevano ancora contribuito a regolarizzare i dialetti con sintassi ed espressioni devitalizzanti le peculiarità che derivavano dagli isolamenti geografici e storici.
La poetica di Ciardullo si fonda anche sull’identità specifica del dialetto calabrese nei confronti delle altre parlate portate sulle scene.
…si tutte le parrate
d’ogni pizzu d’Italia,
purtate e rigirate
supra li paleocenici
su’ nna gioia, nnu juru,
pecchi lu calavrise
nun cce ha d’èsare puru?
Il Prologo è strutturalmente contestuale ai due lavori citati che sono uno sentimentale e uno comico. ’U suonno de chist uocchi è una scena in un atto di vita calabrese che si svolge in un ambiente di lavoro domestico: quattro giovanette preparano il corredo di Rosa la quale si deve sposare con Tuture di cui è, segretamente, innamorata Maria, amata, a sua volta da Saveriellu. La scena ha inizio con battute scherzose fra le ragazze a proposito dell’usanza di gettare, il giorno di S. Giovanni, piombo fuso nell’acqua e trarre auspici, dalle forme che assume il piombo, per il loro destino matrimoniale. I dialoghi sono spiritosi, vivaci, popolari («Stati armannu na lietica propriu supra la sputazza») finché arrivano gli uomini, Tuture che ammira la rolla ngalapata delle ragazze e Saveriellu. Maria esprime con visibile irritazione il proprio disagio, Saveriellu metaforizza il proprio amore con l’immagine della lucertola che sale lungo il muro ma, giunta al liscio della mpinnata, sbatte a terra. L’antefatto è interrotto dalla scena giocosa di zia Gaetana (che per la rottura del subbio è caduta dentro il telaio) e introduce nel vivo dell’azione, l’idillio di Rosa e Tuture al quale involontariamente assiste Maria, con struggimento e perdita di se stessa: Maria ripete le parole di Tuture a Rosa come se fossero a lei rivolte, colpita ancor più dolorosamente dalla consolazione di Tuture che le prospetta l’amore di Saveriellu.
Il dialogo di Maria con Saveriellu si svolge sul tema dell’infelicità che non consente a Maria di corrispondere all’amore e la scena finisce con la solitudine di Maria chiusa nel suo sentimento non corrisposto che lei coltiverà sempre, sbarriannu.
Il lavoro di Ciardullo è di carattere tonale e dimostra che il dialetto, contrariamente ad un’opinione vulgata, può esprimere stati d’animo reconditi, intimi, delicati, senza cadere nel sentimentalismo. La struttura semplice dell’opera consiste tutta nell’agevolezza linguistica di sottolineare l’incapacità di accorgersi di ciò che è nell’animo altrui, nel ripiegamento sopra se stesso di chi è incompreso, nell’impossibilità per un cuore sincero di aderire a una richiesta non sentita.
Quarantottii. ’U muortu chi parra è una chiacchiarella in un atto, una satira in ambiente popolare nel quale si organizza una burla a Dichiciellu, un millantatore troppo enfatico per essere credibile. In una casa colonica un po’ isolata – tanto lontana dall’abitato da lasciare senza possibilità di interventi altrui il beffeggiato in presenza del finto morto Gasparu – dopo un fitto dialogare di una brigata di amici e l’arrivo del miles gloriosus, Gasparu si finge morto e starnutendo, toccandolo, parlandogli come se si trovasse in purgatorio, spaventa il millantatore facendogli rimangiare, come in confessione di verità, le vanterie. La commedia, ricca di aceto contadinesco, ha un intento pedagogico, quello di richiamare alla pronuncia del vero e alla correzione della personalità deformata dalla menzogna al punto che il menzognero non si accorge più della propria struttura deformata. Infatti nelle risposte date ai beffatori il vantatore oltrepassa, di volta in volta, ogni iperbole. Il mondo contadinesco di questa commedia è un mondo sano, ben diverso da quello strapaesano lambiccato, linguaiolo e reazionario di Malaparte o dei «selvaggi» fascisti. I contadini nella letteratura borghese del ventennio sono rappresentati come stralunati (in Beltramelli) o come ingannatori (in Panzini), non hanno mai la fisonomia sana e chiara di quelli di Ciardullo.
I tre lavori ciardulliani, recitati all’insegna del teatro dialettale calabrese, non ebbero l’approvazione del Partito fascista il quale nell’autonomia di un gruppo dialettale temeva il pericolo di un’organizzazione estranea alla cultura totalitaria. Dialettofobia e xenofobia del fascismo nascevano dall’esigenza totalitaria di imporre una cultura idealistico-nazionalistica che non tollerava né la tradizione locale nella quale vedeva il pericolo della autonomia né il rinnovamento con influenze straniere che potevano minacciare con idee pacifiste lo pseudo-rivoluzionarismo fascista. Movimento reazionario di massa, con forti componenti borghesi, il fascismo tollerava tutte le tradizioni borghesi o accademiche purché formalmente non fossero in contrasto aperto con le direttive politiche.
Per quanto riguarda i tre lavori di Ciardullo ci fu un telegramma di Starace che si richiamava alla dialettofobia («Avrei preferito si fosse trattato di una recita in lingua punto Starace») ma bastò che il Teatro dialettale calabrese si denominasse Gruppo folkloristico dialettale e facesse capo alla Federazione nazionale dei gruppi folkloristici – organizzati e controllati – perché Ciardullo potesse continuare le sue rappresentazioni. Sul piano provinciale il Gruppo folkloristico dialettale faceva capo alla Filodrammatica Tipo «Città di Cosenza» (così detta perché modello per le altre filodrammatiche della provincia) che comprendeva anche una sezione per le recite in lingua italiana e che ebbe vita fino al 1938.
Sono andati perduti i testi di Core… patrune sempre, Spiritismo, Tu scendi dalle stelle… Nel 1932 Core… patrune sempre fu rappresentato a Reggio Calabria, nel 1933 a Cosenza, S. Demetrio Corone. Al problema storico e umano del marito-padrone e della società che confina la moglie lontana nel suo ruolo di sposa fedele e vegliarne è sostituito un problema storico e sociale non meno importante che ha spesso attraversato il carattere autoritario di talune categorie e ceti del mondo calabrese: la figura del padre-padrone (o di chi faceva le veci del padre). Tale figura, di solito patriarcal-autoritaria per il ruolo padronale e dispotico assunto nella famiglia per il potere economico che possedeva e dal quale gli altri dipendevano, è quella del padre conservatore che decide unilateralmente, proprio in relazione al suo stato sociale, delle scelte vitali dei figli. In termini economici era lo sforzo di mantenere lo status symbol borghese valendosi anche delle sovrastrutture ideologiche. Nel dramma di Ciardullo il padre, Tumasi, imperioso e severo, vuole imporre alla figlia un matrimonio conveniente e agiato che la figlia ripudia preferendo fuggire – per evitare l’imposizione – con l’uomo che ama.
Il dramma rappresenta il padre offeso nell’onore, imprecante nel suo odio contro la figlia, aspro con la moglie che avrebbe dovuto recingere di guardia la fedifraga, condiscendente con l’altra figlia la quale, invece, può sposare chi vuole.
Il personaggio del padre è emblematico del concetto padronale
che si aveva della roba, delle persone e dei sentimenti altrui ma quando l’amante della figlia muore, travolto da una frana, l’odio paterno si scioglie, dopo lungo contrasto, di fronte alle implorazioni della figlia rimasta sola e trionfa il cuore del padre. Trionfa la concezione liberale ma dopo che quella autoritaria ha seminato odi, distacchi, condanne, cancellazione della prima figlia, parziale opportunistica liberalità dall’alto nei confronti della seconda figlia. Ciardullo volle fare anche intendere che la valorizzazione dei caratteri tipici calabresi non può assolvere gli autoritarismi negatori della libertà personale diventati anche socialmente dei miti di cartapesta e che la libertà del cuore sincero travalica ogni ingiusto – e perciò reazionario – divieto. Non potendo giudicare il testo possiamo, però, valutare l’ideologia sociale, moderna e priva di pregiudizi di Ciardullo. Tutte le cronache del tempo hanno dato particolare rilievo all’interpretazione di Ernesto Cardamone (Tumasi).
Il 4 febbraio 1933 veniva rappresentata a Cosenza Spiritismo, commedia brillante in tre atti, nella quale il marito anziano di una moglie giovane e padre di una bella ragazza, assorbito dai propri interessi spiritistici, non si accorge che la moglie lo tradisce con un dandy e la figlia si invola non con il fidanzato ufficiale ma con l’innamorato fìnto medium e accolto in casa quale parapsicologo. La commedia ha concettuali ascendenze ariostesche e rinascimentali in quanto beffeggia chi, perduto dietro l’astratto, non vede il concreto. E anche un illuministico richiamo dalle superstizioni alla ragione e a qualche critico non è stato difficile (al di là della Mostellaria di Plauto) riandare al Socrate immaginario di Galiani e Lorenzi. Ma i critici hanno sottolineato anche l’eccesso farsesco e la mancata revisione artistica.
Tu scendi dalle stelle, dramma messo in scena a Cosenza nel dicembre del 1934, rappresenta la vicenda di una madre la quale, avendo saputo che il figlio è morto, deve nascondere la morte al marito malato che non può sopportare emozioni. Ma uno scemo rivela la morte del giovane e anche il padre muore mentre da tutte le parti si levano suoni e canti per la nascita di Gesù.
Il tormento interiore della donna sedotta e abbandonata e il motivo del delitto d’onore costituiscono la trama di Vie de nfiernu, azione drammatica in un atto. Nella prima parte domina il parlato discorsivo dialettale di notevole agilità, scherzoso come in quasi tutti gli antefatti ciardulliani nei quali appaiono, anzitutto, l’ambiente rurale o paesano e i personaggi della vita quotidiana che si esprimono con battute umoristiche susseguentisi come piccoli fuochi. L’antefatto è uno sfondo su cui una giovane donna, Lucia, sedotta da Filippu, malandrino con tre figli, chiede ignara che si affrettino le nozze. Nel dialogo emerge l’irresponsabilità di Filippu che rimprovera a Lucia in quanto ansiosa, di fare la triatista; inoltre si dichiara pronto se contrastato, a fare rovine e minaccia per affermare la propria libertà di guappo. Il sentimento popolare di umanità risalta in Assuntina, sorella di Lucia, la quale afferma teneramente che darà tutto il proprio aiuto, con espressioni di solidarietà («bella comu sì, figurella de son scella tua! […] Ndoloratella mia santa […] ppe tutte le sette spate chi te pierciu lu core!…»). Lucia, la quale non sa ancora che il fidanzato è sposato, cerca di calmare l’alterco tra la sorella e Filippu, finche quando sa che «u sterratu era nzuratu» lo uccide con un coltello. La sorella Assuntina grida al padre: «Pà, ’un chiangere!… Benediciale sse manu!…».
Personaggi non consueti nel teatro italiano sono i protagonisti della farsa in versi in tre atti Fratellanza nofriana: sono poveri diavoli che vivono di espedienti ma che non assurgono all’altezza dei pìcares del teatro spagnolo e rimangono nell’ambito della farsa. In essi non è il retroterra culturale dei personaggi spagnuoli ma la dimensione paesana dei piccoli beffatori che cercano di sbarcare il lunario. Un gruppo di amici squattrinati travestono uno di loro da donna e ricevono un notevole compenso da un giovane ricco, Bartoluzzu, al quale cantano: «Si vo’ fare na gapparìa: | lu core ad illa e li sordi a mia». Il travestito si fa riconoscere, Bartuluzzu viene mandato via e col suo danaro gli squattrinati fanno festa.
Una novità è il dramma in tre atti ’A scala che Ciardullo compose nel 1941. Il primo atto è manoscritto, il secondo e il terzo furono dettati a qualche studente di Pedace. Una donna intrigante, Mammona, per distaccare Stefanuzzu dalla fidanzata Maria, fa travestire da Maria un’altra ragazza e fa in modo che Stefanuzzu veda da lontano la travestita in casa di un giovane ricco e supponga che sia Maria. Mammona è ricca e malvagia e ha rovinato diverse famiglie dando prestiti a usura. Anche la famiglia povera di Maria ha ricevuto prestiti e Mammona, madre di Filumenella, vorrebbe approfittare della situazione per fare sposare Filumenella al fidanzato di Maria. La scena si apre con un paesaggio campestre solcato da un fiumicello, in primo piano è una casetta con un palmento durante la vendemmia. Nell’ambiente di lavoro appare, come in altri drammi di Ciardullo, il personaggio privo di solidarietà umana, la cui tensione interiore è rivolta verso lo sfruttamento dei poveri.
Tale è la vedova Marantona, vistosamente vestita, ornata d’oro; danaro e intrigo le danno l’autorità di chi è sicura della propria posizione, la spavalderia è necessaria per dirigere le trame, la calma per dominare la situazione al mondo dei mafiosi. Maria viene trattata da Filumenella come una serva per creare l’antefatto psicologico del dominio ma Maria è dotata di sentimenti di verità e di maturità che le danno il coraggio di non piegarsi: «Ma ’i sventurati cumu a mie, quatrarielli nun ce su mai […] Tu si’ stata sempre nu serpente pe la casa mia».
Il dramma si accende quando Marantona gonfia la propria falsa «persona» con le vanterie dell’orgoglio sociale: «Tu si’ na pampuglia: iu signu nu cippu de cerza. Simu ’a scala du munnu, tu si’ lu scalinu ’e sutta, zampatu, distruttu. Io signu chillu ’e supra, grisù, sanu, putente». Con tale tracotanza Marantona ha potuto spogliare casicelle, «levare ricchinielli alle ricchie da povera gente», farsi palazzi e poderi. Pur avendo ricevuto uno sputo in faccia da Stefanuzzu ed essendo stata chiamata purcella, cippu de nfìernu per avere osato fare insinuazioni su Maria, riesce a gettare in Stefanuzzu il sospetto che Maria sia andata da don Carrucciu per motivi disonesti e a sconvolgere l’animo del giovane. Nella schiettezza del primo e vero amore Maria rimane colpita dai sospetti («Alla prima parola velenusa m’à cumbegliata de zancu…»). Nel secondo atto Pirulinu, uno storpio pagato da Marantona, organizza l’inganno del travestimento ai danni di Maria e Marantona promette a Stefanuzzu che l’indomani sera gli farà vedere, a notte, Maria nel palazzo di don Carrucciu. Dopo aver visto tale scena Stefanuzzu ripudia Maria ma Bernardu, zio di Stefanuzzu, in un colloquio con Marantona le ricorda le sue malefatte del passato finché entra Pirulinu, l’operatore malefico. Ma Pirulinu, che era sempre apparso privo di coscienza morale, dotato di cinismo, fìnto vanìloquo, ha una crisi di coscienza per avere rovinato Maria e confessa la sua mala azione denunciando Marantona.
Anche quest’opera di Ciardullo ha un valore educativo e s’inquadra nel sentimento popolare della giustizia che trionfa sul male, nelle ragioni del bene che oltrepassano i raggiri: nella natura umana, sembra dire Ciardullo, sono qualità universali che possono essere lese e degradate ma non annullate, nell’uomo stesso sono le forze della vita che non è negazione ma svolgimento e progresso.
La scala sociale che sembra prevalere con gli scalini più alti, dell’iniquità, qui si rovescia e vince l’umiltà popolare con il personaggio sincero e coraggioso di Maria.
In queste opere non sono sommi caratteri, probabilmente perché questo teatro, isolato, non sta all’origine di un’epica sì da coglierne i tratti profondi ma nasce quando ormai i teatri regionali avevano diffuso temi, stereotipi e tecniche per tutta l’Italia. Non ha senso, infine, dal punto di vista critico, parlare genericamente dell’umanità di Ciardullo: per valutare con precisione occorre considerare che si tratta dell’umanità in un particolare momento della società calabrese che risente degli squilibri dell’emigrazione, di arricchimenti economici derivanti dall’esercizio dell’usura, della spregiudicatezza di categorie economiche che si gettano in ogni genere di speculazione; si tratta di una crisi economico-sociale con influenza nei rapporti interpersonali, crisi in cui la donna, sola e povera, è la più debole e incorre nel delitto d’onore o trova in sé la forza della liberazione ma in cambio della solitudine. In contrapposizione, dunque, al mondo degli intriganti Ciardullo propone il mondo del lavoro contadino con i suoi personaggi onesti e autentici (Bernardo, Maria, Matalena), con le folle di lavoratori giornalieri, di piccoli proprietari, di inservienti che fanno parte del precario e faticoso tessuto agricolo.
Il teatro di Ciardullo è complementare della personalità dell’autore: in esso è lo sviluppo dei temi bozzettistici, morali, sentimentali delle poesie in dialetto: con esso quel mondo acquista uno sfondo completo e la sintesi che è, per ragioni d’arte, racchiusa in brevi versi, si diluisce nelle scene e nei quadri del teatro che propongono un mondo di crisi e di pena in cui, però, i sentimenti autentici trionfano sulle false «persone«che sono venute acquistando potere e ricchezza. È lo stesso nucleo psicologico delle poesie. Nel teatro è anche la satira delle deformazioni morali, racchiusa nelle battute frizzanti, in botte e risposte, in dialoghi, in filastrocche popolari: il modo corrente della satira di Ciardullo qui si rapprende e si condensa in scene di un certo respiro e che si collegano col significato dell’opera: satira è, qui, funzionale, in forma adeguata, all’idea morale.
Tale teatro, realistico ed educativo, assomma gli elementi sparsi della tradizione scenica popolare calabrese in opere arricchite dai succhi di una nuova società, più ampia, che conserva le antiche dell’ethnos calabrese. Privo di dannunzianesimo e di astrattismi il teatro di Ciardullo costituisce un’opera compatta e armoniosa che si inquadra nel carattere più consentaneo al genio calabrese, quello dialettal-popolare di cui è documento anche per i sentimenti collettivi e umani che esso esalta e tramanda.
La formazione di Nicola Giunta avvenne sotto l’influenza dei vati Carducci e D’Annunzio e nell’ambiente teatrale e artistico di Napoli: dai primi derivò l’ambizione alla poesia civile, gli acquisti retorici del classicismo, dall’ambiente napoletano l’estrosità e la melica dei suoi versi. Occorre anche tenere conto della partecipazione, per diversi anni, al mondo del teatro lirico nel quale fu cantante baritono (cantò in opere liriche anche a Londra). Estrosità, profluenza verbale straripante, facilità improvvisatrice, lo indicano di formazione napoletana, di una città che radunava ancora gli ingegni delle regioni meridionali e in cui Giunta confuse romanticamente arte e vita, in amicizia con attori, scrittori di teatro, poeti, critici.
Anche più tardi il pubblico al quale egli si rivolse come poeta fu quello di quegli anni, per il quale cantava nel teatro: i miti di vita e arte, della giovinezza, rimanevano stabili in Giunta in situazioni profondamente diverse.
Durante il fascismo si oppose alla dittatura e, ritornato a Reggio, si venne a trovare in una città di provincia con una cultura ritardata ma comunque diversa dalla città che era nel cuore del poeta: da qui il disprezzo per quelli che egli vedeva come piccoli uomini che non riconoscevano la sua personalità, l’amore-ripulsa del poeta verso il mondo provinciale in cui egli si sentiva come un Prometeo incatenato. La liberazione politica – che Giunta accolse entusiasticamente – portò qualcosa di nuovo, una viva lotta politica tra i padroni della città e della campagna (vecchi liberali, monarchici, rappresentanti del blocco agrario, trasformisti, fascisti, uniti ai clericali) e le forze di sinistra che combattevano per la libertà economica, sociale, politica e culturale. Giunta ebbe entusiasmi libertari, sociali, democratici ma per troppi anni i suoi miti letterari erano rimasti legati a un altro tipo di società, a un pubblico che bisognava conquistare con la parola e col canto, a gruppetti di intellettuali veri ma anche ad altri fasulli e guappi, a orfici della parola. Poi, a Reggio, purgato dai fascisti, povero, isolato dal mondo della cultura che contava, nel piccolo ghetto provinciale, Giunta perdette la fiducia negli uomini.
In Reghion, finito nel 1938, egli scriveva che l’uomo «per gli altri e per sé riman lo stesso». Nella sua resistenza politica non si era legato a gruppi antifascisti; dopo la liberazione fu sentimentalmente di sinistra ma gli mancarono coscienza di classe e del ruolo di intellettuale democratico. Chi scrive lo conobbe nel 1945 come democratico sincero e come intellettuale individualista e tradizionalista, carico di rancura verso la città dei piccoli uomini del sottobosco culturale.
Eppure furono quelli gli anni in cui Giunta cominciò a scrivere in dialetto le Fauliate e gli altri versi. Ma prima di parlarne bisogna riandare al Francesco da Paola, scritto «di getto» tra il novembre e il dicembre del 1936. Il poema si opponeva alla lirica breve, alla letteratura ermetica.
Ora che la poesia in Italia volge in anelazioni fumistiche e in ambigui simbolismi affiorati da un misticismo che, più che di vera vita spirituale, sa di maniera letteraria; […] ora io ho sentito più che mai vivo nello spirito lo stimolo di cantar chiaro alla maniera nostra, italiana, e di accendermi l’estro al bel sole lirico del mio Paese, anche a costo d’infebbrarmi d’impossibile».
Così nella Prefazione in cui è la polemica contro i manierismi fumistici, le torri d’avorio, per celebrare gli «sponsali con il sentimento popolare», la grandezza di un personaggio che «rappresenta tutta una razza e tutto un secolo» nella sua ribellione «contro ogni ingiustizia, a favore di tutti gli umili e di tutti i reietti». Francesco è il frate che «non amava la mal disuguaglianza»; «era di popolo e il popolo amava», lontano «dal laico orgoglio e dal pretesco».
Anche in questo poema Giunta esprime una ideologia spiritualistico-letteraria quando scrive che nell’età di Francesco si viveva «di una gioia tutta sensuale o di un piacere bestialmente corporale» e che «era Dio che parlava per la sua bocca ed operava per la sua persona»
Il poema è un inno sacro e in esso il tema della carità sopravanza di gran lunga qualsiasi altro, compreso quello politico. Con la carità si superano i mali del mondo e i temi civili Giunta li riserva a taluni dei suoi successivi canti. Quasi una divisione di ruoli. Giunta voleva rappresentare in Francesco un «uomo di popolo, anzi proprio contadino» ma a rappresentazione avviene sulla base di una ragion poetica che idoleggia come poesia popolare la «fosca poesia» letteraria di un Quattrocento ritenuto semplice e primitivo: da qui la dolcificazione estetica dei contenuti operata da Giunta. Perciò il Francesco ribelle non è mai veramente tale: non parliamo poi dei Canti padani (1960) in cui l’estetismo del cuore è al di là di ogni realtà popolare. Nel mito della civiltà «trionfalmente comprensiva» (Prefazione al poema, p. 17) era per Giunta la sintesi di tutto, civiltà di bellezza e di progresso, idea in cui si purificava la barbarie e la primitività. Per questi tardi echi vichiani e idealistici (politicamente un fluttuante terzaforzismo democratico-repubblicano, antifascista) Giunta fu lontano dal mondo dei contadini e dalla dura realtà del lavoro della campagna. Egli fu essenzialmente cittadino di una ideale metropoli di cultura in cui il suo ruolo fosse quello dell’artista ottocentesco alto sulla folla. Con queste ragioni interiori vide le classi sociali, le lotte sociali.
Nella sua città Giunta visse con dispetto in una realtà culturalmente circoscritta e attardata, stretta dagli eponimi politici del blocco agrario e dai numerosissimi clienti del ceto medio, dai tanti intellettuali inurbati che parassitariamente aderivano all’ideologia proprietaria dei marchesi degli oliveti (discendenti da ex feudatari) e sottraevano valori democratici a vantaggio di un modello immobilmente burocratico e privatisticamente produttivo. Più tardi ai trasformisti politici del liberalismo agrario si unirono gli eponimi della speculazione sulle aree fabbricabili e Giunta si trovò a vivere in una città degradata (che egli continuava ad amare come Rhegion o Rhegium Julii o come patria di Vitrioli – da lui difeso quale artista – o come sede della «festa ‘i Maronna») dal mancato sviluppo produttivo generale. Larghi settori cittadini vennero terziarizzati, più larghi strati urbani e suburbani sottoproletari vissero, nel secondo dopoguerra, nella disoccupazione o nei gradi del clientelismo parassitario, in condizioni oggettive di disuguaglianza e di ingiustizia. I ceti medi cittadini soggiacevano ai gruppi egemoni in una convivenza carceraria alimentante l’evasione nei miti di grandezza tramontata che si accendeva di patriottismo o di religiosità rituali o, più quotidianamente, li faceva volgere coi denti in sé medesimi, con persistenti invidie e scetticismi. Il pettegolezzo interessato spegneva il dibattito sulle responsabilità dei gruppi dirigenti. Condizioni sociali stagnanti riproducevano vecchi vizi già deprecati in un piccolo capolavoro dialettale satirico da Pietro Milone che in Pe ’u portu ‘i Villa S. Gianni (1901) aveva sferzato la retorica civica dei gruppi dominanti reggini i quali all’inizio del nostro secolo volevano impedire la creazione del porto di Villa S. Giovanni. Ecco le parole di un veterano reggino (che per la solennità dell’occasione parla in italiano), sintesi delle interessate idealità (in Picei e zannelli, 1922):
Cittadini, coll’animo straziato dal dolore,
obbedendo all’impulso naturale del cuore,
benché carco dagli anni, in quest’ora funesta,
anch’io elevo il grido alto della protesta.
Oggi, con un ingiusto, quanto iniquo rapporto,
degradare, distruggere, si vuole il nostro porto.
A noi non debbon togliere, per forza di potere,
diritti che abbiamo, che dobbiamo avere.
Reggio deve difendere purtroppo i suoi interessi
quando, pensatamente, vengono manomessi.
Grave, dunque, è il pericolo! bisogna riparare;
sarebbe un suicidio per noi più l’indugiare.
È altissimo dovere lottare tutti uniti.
Senza distinzione di classe o di partiti (?!!).
Lo richiede la vita, la grande dignità,
la storia, il patriottismo della nostra Città!
Per cui grido, sperando vederla più gloriosa:
Salve, o Rhegium Julii, nobile e generosa!
Ed ecco le considerazioni di Milone sull’invidia reggina verso Villa:
Ddunca, pecchi gridaru?
Pecchi su’ ’mbidiusi!
E – sarbandu li boni –
’ngordi e perfidiusi.
Non ponnu mai vidiri
’mpaisi ’mprosperari,
ca veni ’u finimundu,
lu vonnu subissari!
[…] Ma cu Villa Sangianni
la botta la sgarraru,
trovaru ’a vera furma…
Li pira li pagaru!
Giunta conobbe e amò le forze politiche che proponevano le riforme di struttura in rapporto alla gravissima crisi della città, della provincia e del Meridione e in esse vedevano il terreno fondamentale di lotta per la democrazia e per lo sviluppo produttivo. Si accorse dei guasti prodotti dalle classi dirigenti e cominciò a prendere coscienza che esisteva un’altra città sofferente e dolorante oltre quella dei miti letterari e artistici.
Quando Alicata, Gullo, Miceli e altri dirigenti del movimento operaio e contadino guidavano le lotte contadine per la rinascita della Calabria, Giunta fu vicino, con l’entusiasmo, a tali lotte. Negli anni della restaurazione scelbiana scetticismo e sfiducia, timore di pericoli, costituirono dei condizionamenti e il rapporto con la città tornò a essere personale, su una base psicologica di odio-amore in cui una componente fondamentale era il rammarico di non avere potuto ottenere i desiderati riconoscimenti e di trovarsi in un mondo di «nani» e di invidiosi. Il rapporto sociale era immiserito dall’angustia provinciale perché era di natura psicologica. Ma oggettivamente l’ambiente presentava limiti difficilmente superabili; pensiamo, ad esempio, al rapporto degradato che, in altri tempi (ai primi dell’Ottocento), un intellettuale calabrese, Gregorio Aracri, avvertiva tra sé e il piccolo mondo paesano calabrese:
La comune e non vera credenza
di esser io nelle scienze versato
ha in costor quell’invidia eccitato,
quello sdegno sì fiero e crudel.
O per me funestissima scienza!
Pur fra contraddizioni e ambivalenze (che lo portavano alle retoriche celebrazioni dei Canti) Giunta riuscì, però, a recuperare nel dialetto ciò che era positivo nella sua storia interiore. Lo sforzo ininterrotto giuntiano di fare delle sue esperienze classico-retoriche la base per la fondazione vincente delle sue ideologie letterarie e intellettuali ormai crollava perché travalicato, nella stessa città, da un’avanzata culturale delle classi popolari. L’intellettuale vedeva i nuovi contenuti e li affrontava con lo strumento che a lui era più congeniale per capacità di sintesi: il dialetto. Giunta non poteva trapassare dal ruolo di vate-maestro a quello di interprete dell’anima popolare e i suoi versi dialettali sono il frutto di una maturità nata in un quadro culturale ricco di spinte e sollecitazioni sociali ma relativa al peso dei condizionamenti residui.
Concettualmente si precisa l’obiettivo polemico contro gli «storti» (già Pietro Milone aveva scritto che i reggini «sparti d’ ’i suverchiusi, | hannu di fari sempi | li storti e ’i prisentusi»), invidiosi, boriosi reggini i quali sono coloro che non si pongono in rapporto con gli altri ma restano chiusi nella loro ignoranza. L’obiettivo non può essere che contro gli «storti» che comandano. Il poeta non ha potuto, o voluto, precisare quali gruppi essi sono; ancora si parla di «Riggitani» ma sono coloro che hanno capacità di decidere, i politici, gli amministratori comunali che fanno costruire in pendenza la «fontana chi piscia», coloro che vedono l’interesse privato e operano contro la democrazia corrompendo gli elementi più avventurieri e impreparati del sottoproletariato. Giunta vedeva la fossa di serpenti che era la lotta politica locale del dopoguerra (portata alla rissa, nella città, dalle destre) e gli pareva che la libertà sognata durante il fascismo fosse testimoniata da degeneri «cummari e cumpari» ad essa del tutto estranei, anzi suoi carcerieri.
Qualcuno dei difensori della libertà era, come il «cavalieri» sciocco e «sfùngitu», «unu chi ti abbombichi mi vardi». Per contrapposto la vita rurale gli offriva un modello di sanità e di semplicità: a parte le ricadute nell’orgoglio regionalistico, nella prosopopea etnicistica, nel vanto dei sentimenti riduttivi. Così nel canto del mangiare (Pipare ddu) in cui, però, sembra accettata l’idea che «lu maru povireddu» debba contentarsi del «pugnu di spisiddu» a consolazione di freddo, fame e povertà; o in quello del bere (San Martinu) in cui l’ubriachezza fa vedere davanti agli occhi «na vitrina ’e gioieleri»: ideologie del piccolo filisteismo cattolico-ruralesco papiniano, betocchiano, lisiano ecc.
I poveri di Giunta sono quasi estetizzati nella loro povertà: le rosse bandiere della lotta non si muovono nelle loro mani. I contadini che vengono in città, poi, sembrano usciti da una stampa
(Si vestunu di sita e di villutu,
i fimmini su chini di pindagghi,
cubani, aneddi […]
sunnu cosi di pinzeddu, Viddani),
sono elementi da osservare per la loro stranezza psicologica e di comportamento e da compatire con l’aria del buon signore. Quando Giunta oltrepassa i limiti ideologici del cittadino di buon cuore (che in arte si traducono in sentimentalismo, in parabola esistenziale) riesce a cogliere le situazioni – usi, abusi, superstizioni –, i personaggi diventano veri nei grandiosi dialoghi di prammatica di mezza guapperia di abitanti di rioni, contadini, disoccupati, carcerati, disturbatori, discettatori sulla parola «ariana», ubriachi che discutono davanti alla statua di Garibaldi. Nel fulminante linguaggio quasi gergale, sintetico, allusivo a modi di intendere consaputi i due sottoproletari ubriachi interpretano la realtà politica, la degradazione nazionale, i tradimenti, le contraddizioni storiche («S’ambrugghianu ’a marrella… | ’Mbeci de iri p’avanti…»). Come gli abitanti delle motte e dei casali reggini al tempo del baronaggio questi personaggi sono potenzialmente dei ribelli o aspiranti a un mutamento; sono prigionieri di un ruolo subalterno dentro il quale consumano i tempi tristi delle loro speranze, emarginati – giovani, vecchi – da coloro che detengono il potere in città e dai clienti di costoro. Non sono i mafiosi di Giovanni De Nava ma sono delle vittime nelle quali traluce un sentimento di giustizia da un cielo plumbeo di inerzia e di indifferenza. Come meravigliarsi della loro sfiducia se i potenti, boriosi e ignoranti, tagliano a tutti le ali? Giunta è riuscito a entrare nell’interno del loro mondo e a coglierne da artista i comportamenti come nessuno aveva fatto prima di lui.
Per quanto riguarda la rappresentazione di coloro che esercitano il potere Giunta, deluso nel sogno di concordia civica, esprime la sua satira contro i vizi di «stu paisi»: la stoltezza dei confederati che comandano, la mediocrità, l’invidia, la boria, lo scetticismo, l’indegnità morale, l’incapacità di costruire, trasformare, creare: «Nani su iddi e vvonnu a tutti nani; | e, pà malignità bbrutta e superba, | cca non crisci chi erba, erba, erba…». Anche qui Giunta ha individuato, in modo originale e unico tra i poeti reggini, le forme del comportamento dei padroni della città, lo stravolgimento dei valori da essi operato, la collocazione dei «fìssa» e «storti» al vertice (ma sono «fissa» e «storti» «ammanicati ddritti!»), l’incapacità di meditare sui problemi e la sostituzione dell’immensa chiacchiera al pensiero, lo svilimento dell’azione:
Chistu è ’u paisi a undi si perdi tuttu,
a undi i fissa sunnu megghiu i tia,
’u paisi ’i «m’incrisciu e mi ’ndi futtu»
ed ogni cosa esti fissaria.
Questi versi circolavano a Reggio per la loro emblematicità in quanto rappresentavano l’autosufficienza degli incapaci e dei retrivi. Ancor oggi vengono citati: criticamente come un cliché ideologico
dei gruppi dominanti, qualunquisticamente dai difensori di una reg-ginità che ha come simbolo Giufà (ma che in occasione di interessata difesa localistica si impatriottisce nella mitica discendenza da Asche-nez). Giunta coglieva una certa malandrineria in questa adorazione della «fissaria» (i «Rriggitaneddi» sono genialmente intuiti come «spiziusi dintr’a dda parrata»), un’«antilicenza» addormentata dall’«aria jettatura e di scrupìu» e una capacità di risveglio e di mutamento. Ma talvolta la rappresentazione combacia con una adesione ai vizi deprecati e con il trasferimento della stoltezza alla causa della sventura. Sono i momenti più deboli. Fondamentalmente, però, la base intellettuale giuntiana si accresce di risentite espressioni contro l’oligarchia cittadina cogliendo lo sfacelo interiore dei dominanti e la disumanità del blocco di potere.
La satira è condensata nelle ripetizioni fonematiche contro la dissennatezza graminacea che soffoca la vita civile, ed esprime l’apertura dell’intellettuale alle responsabilità imposte dal nuovo contesto complessivo dei rapporti economici e sociali. Il modello generico era quello del rinnovamento democratico che il cantore in lingua continua ad esaltare ma contemporaneamente, con la satira. Giunta aggredisce dialettalmente l’oligarchia e il suo pantano ideologico: si serve delle stesse espressioni del qualunquismo per lanciargliele addosso, per contestarla, accusarla e metterne in luce i vizi. Era un modo di sprovincializzazione, anche se compiuto con strumenti non adeguati e con una base di amore del grandioso e del meraviglioso contro la nanità. In tal modo Giunta reinterpretava, non sempre chiaramente, il ruolo dello scrittore di provincia che cerca di sottrarsi agli umori estrosi per diventare (con tanti limiti) espressione di matrici democratiche e progressiste (soprattutto quando illuminava dall’interno i suoi, veramente vivi, sottoproletari); acquistava un ruolo positivo che non possiamo certamente giudicare con i criteri odierni prospettanti una possibile organicità con la classe lavoratrice in un contesto di ricomposizione di classe.
Uomo e artista di molte contraddizioni Giunta nei suoi anni giovanili credette nell’invenzione artistica, nella superiorità del genio; poi subì un duro impatto col fascismo e con il ritorno alla citta natale. La pietas umana non può rimanere indifferente di fronte alle persecuzioni, alle ingiustizie da lui sofferte. Autodidatta, ebbe il culto dell’individuo che non si aggrega alla categoria professionale, alla corporazione alla quale appartiene e, al di sopra di ogni norma di estetica, grammatica, giudizio critico, pone la libertà creativa, il genio e il gusto. Nei pensieri di Sabbia nel vento (1931) sono le sue idee sulla vita e sull’arte, la sublimazione del poeta, la fuga dalla realtà, l’individuazione dei vizi del genere umano, di costanti etniche, un ondeggiare fra tardo romanticismo e scetticismo positivistico («Tutti i movimenti delle masse non sono che esperienze di individui», «[…] spirituale distanza che corre tra il piccolo uomo e il grande», «l’uomo mal soffre un altro uomo»).
Ma non mancano visioni e individuazioni più larghe: «Il pregiudizio del passato deve sparire dalla vita moderna» (anche nel mondo morale);
I professori sono schiavi della loro cultura. Essi vivono di passato e non possono avere, salvo rare eccezioni, una mente aperta e sensibile alle continue conquiste del pensiero, poiché la preoccupazione di doversi distaccare dal loro patrimonio culturale, li impoverisce ai loro occhi;
si augura che i giovani perdano la «goffezza etico-sociale, artistico-letteraria» a cui sarebbero condannati seguendo la tradizione di coloro che avevano «appreso nelle aule scolastiche, sui libri per conto proprio, nell’atmosfera muffita della propria famiglia, il contrario di quello che han poi trovato nella vita»; «Attaccatevi alla vita, comunicate con essa, dimenticate, se potete, la letteratura: non vi isolate, non vi chiudete nel vostro pensiero per fare gli acrobatismi da cane ammaestrato». Questi pensieri sui «vizi, difetti, sventure» dell’umanità hanno una chiave autobiografica. Si legga l’Elogio del poeta che vive la sua vita costretta in mezzo alle «ignoranze presuntuose», alle «cattiverie rivestite di ogni polpa gesuitica», alla «goffezza dei terrigeni»; da lontano, egli che aveva sognato «le mete impossibili», vede passare i treni che vanno «verso il Nord», poi «torna sul Corso a destreggiarsi fra il gregge», a casa a bere «un bicchiere di latte che la luna gli porge, fermatasi da un pezzo ad attenderlo sul davanzale del suo balcone». In questi pensieri giovanili sono individuati anche problemi politici, pur se l’intuizione è ancora psicologica:
Noialtri, meridionali, ci chiamiamo sentimentali. No: noi non siamo che ignoranti e poveri, perché se avessimo molto danaro e più conoscenza delle cose e degli uomini nel mondo, noi daremmo alla vita il suo giusto valore, e avremmo forse tanta forza da vincerla.
Giunta vedeva per lampi gli aspetti della realtà e le sovrastrutture mentali lo sollevavano nei cieli tardoromantici dove non erano direttrici mentali e sintesi e dove naufragavano in rimpianti e rassegnazioni le acute intuizioni sugli uomini e sulla natura. Incapace a sottoporsi a disciplina non poteva trarre conclusioni e norme per regolare le proprie tendenze e svilupparne le linee di punta. Vedeva i ricchi come scialatori pantagruelici ma non collegava in un discorso di classe, di produzione, il rapporto tra ricchezza dei pochi e sfruttamento dei molti. il ricco è disprezzato moralmente:
Hai tempu di campari,
mi ti inchi u caruseddu,
mi t’anfracit’i rinari […]
‘ndi futtiv’a tutt’i sordi
cu ddi trastuli stampati!
O almeno il collegamento non avveniva nell’arte poiché chi lo ricorda nelle geniali inventive conversazioni (quanta parte della sua personalità Giunta effondeva nelle conversazioni, nei bar, nei crocicchi di strade, nelle passeggiate notturne!) conosce anche certi suoi feroci raccordi di classe. Allora Reghion dei poeti e dei tiranni greci cadeva a pezzi e cadeva l’illusione della civiltà, della concordia civica. Il Giunta artista, il poeta dei proletari del sottosviluppo reggino, era alimentato da quella tensione e da quella eccezionale capacità espressiva delle quali le sue pagine sono originale documento.
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- Patria del principe Luigi Aiossa (di origine spagnola), ultimo ministro degli Interni borbonico, Cinquefrondi vide il 21 ottobre 1860, giorno del plebiscito per l’annessione, un movimento reazionario (che ebbe seguito anche a Maròpati e Giffone) filoborbonico; quel giorno, mentre le guardie paesane stavano per essere disarmate dai soldati nazionali, partì un colpo di fucile e in seguito ad esso i nazionali colpirono a morte diciotto abitanti del paese e due loro commilitoni.