Tra le prime immagini della poesia di Franco Costabile sono le lucciole che giocano a mosca cieca: il tempo di una vita antica ed elementare in cui le cose erano poche e disposte in modo tale da farle apparire immobili, addormentate. Tali erano le piante, i giardini, i paesaggi. La vita antica faceva parere eterne le cose, l’essere sembrava consistere nell’immobilità, scarsi erano i fenomeni del mondo patriarcale: «tu ed io | nel sonno degli ulivi».
La vita si ripresentava con gli stessi segni nelle diverse ore del giorno nel paese bianco di collina: colpi di fucile a valle, campanili, fumo di comignoli, via del ritorno fra gli ulivi, ragazza con giubbetto a corazza nel palmento, torchio e anfore nel palmento. La vita consueta del paese è figurativamente espressa al di fuori di ogni aggregazione antropologica; il paese di Costabile non è lieto di danze e di feste, tutto è sotto tono, le cose calano verso il basso, tendono al non essere michelstaedteriano, soffrono:
Beccai sulla piazza
agganciano fuori
le teste dei caprett
e un cane lento
ne beve le stille […]
dalle stalle comincia
la nausea del fieno […]
stanche di tenermi
risuonano le ossa.
La presenza di una donna è solo registrata, le «buone caviglie» accrescono il sentimento della pena dell’essere; se c’è accenno di festa lo gelano il padrone, la «donna forestiera» (l’alieno nel mondo consueto), il maresciallo che «con uomini e chitarre» torna alla caserma. È il paese di Calabria degli anni Trenta, misero, immobile, rassegnato e controllato. In questo mondo di Via degli ulivi (Siena, Ausonia 1950), non sconvolto da confusioni e mescolamenti, quasi un simbolo figurativo dell’essenziale, la vita è lenta immagine dell’essere senza mutamento, le forme sembrano fulminate. Ma la vita è sofferenza lunghissima in tutti i fenomeni sia naturali sia meccanici perché ogni paesaggio si misura sui bradisismi:
anche la primavera
stanca di rose
si è spenta […]
Che pena ascoltare
il fischio del trenino
alla pianura.
La pittura, la poesia più moderne esprimono questo sentimento di pena che Costabile coglie dal suo angolo, la disperazione che non si manifesta come tale ma come offesa per una condizione di vita senza lievito. I sogni dell’angelismo di Costabile (ma anche di Lorenzo Calogero) si formano in questa atmosfera come aspirazione nobile, fraterna. La donna-angelo giunge da lontane regioni:
Tu vieni a me
per un ponte
di cari arcobaleni […]
Te ne andavi alle messi
con foglie di cedrina
fra le dita
e ritornavi a sera
con gloria di spighe
al trepido lamento delle foglie […]
ti feci la promessa
di un velo di sposa
com’era la Via Lattea
che guardavi […]ti riposo nel cuore
come il volto d’un angelo
a cui piace, tra due lontananze,
una pausa di cielo.
Questa donna-angelo non ha, però, come tutte le immagini di Costabile, nulla di astrale: nasce dalla realtà della mietitura («i bianchi itinerari» a valle sono quelli dei lavoratori), tra «i ciliegi | e le tortore di aprile», tutto muore nel sogno e nell’impossibilità:
Tu volevi una casa,
bambini e fiori:
ed anche i fiori
morirono, lenti nel sogno.
La realtà che rimane in questa Calabria rurale, contadina, «terra | di silenzi addolorati», è il sale del pianto dell’innamorata, è il «non possiamo», «inganno | è credere ancora». Questo scacco iniziale («È da tempo finita | la passeggiata del sogno | al bianco santuario delle stelle») avrà altre continuazioni («non ho che remi d’ossa per andare») «negli anonimi spazi | di città» dove il poeta erra «con passo | da soldato sconfitto». L’elegia interiore è quella determinata dal peso della vita, dalle scelte umili ma profonde, marginali ma vere. La vita vera non è un binario tracciato, non è un’amministrazione; nelle parole di Costabile è una reazione all’esibizione («umiliato rasente le vetrine»), alla retorica: «Signore, | io non voglio impararti | come un altro mestiere».
Almeno per queste parole il sentimento religioso ha in Costabile, dopo Rebora, Jahier, Pignato, una espressione di verità.
L’esperienza artistica di Costabile avviene in una Italia umile, povera, in una Calabria rurale e sottosviluppata che non era di coloro che lavoravano, dell’immenso esercito di contadini che percorrevano a valle «i bianchi itinerari del paese», la «via degli ulivi». Questo mondo rurale era ancora feudale, del mondo contadino non era riconosciuto alcun valore; esso rappresentava un’offesa vivente in cui Costabile sentiva una condanna. Il tono religioso del poeta è nella coscienza di questa offesa, nell’antieroismo, nella mancanza di orgoglio e di fierezza cantati dai celebratori della stirpe e della tradizione. Il mito del «calavrise sugnu e mi ndi vantu» è assente come qualsiasi altro mito. Costabile non ha residui nel confronto tra Calabria reale e poesia: l’una e l’altra coincidono, la Calabria è sempre dolente come la vita che in essa si manifesta, tutto è chiaramente perduto. Eticizzazione, estetizzazione della «calabresità» come famiglia, focolare, popolo, valore militare non esistono: esiste una terra antica con uomini offesi e senza scampo ai quali, ironicamente, è da consigliare l’esodo collettivo. Miti, tradizioni, blasoni vengono distrutti dalla realtà: spessore del primitivo pelasgico, gloria della Magna Grecia, fierezza bruzia o brigantesca non sono che delle targhe, delle etichette per rendere più accettabile lo sfruttamento e l’impoverimento. È stato sempre così ma adesso previdenze di Cassa del Mezzogiorno, promesse elettorali di opere pubbliche e di rinascita, rimesse di emigranti nostalgici che mandano il «dollaro spaccone» non sono che inganni come un inganno è lo snaturamento operato dal boom economico per rinforzare con l’esodo degli emigranti le ingiustizie compiute dalle nuove corporazioni di truffatori dello Stato e della regione.
La rosa nel bicchiere (1961) è il rigetto di qualsiasi progettazione tecnico-politica fondata sul meridionalismo retorico e consumistico; la stessa Calabria (cioè i calabresi) deve dimettere l’ottimismo balordo delle speranze e delle illusioni, i miti sulla bellezza della terra, degli eroismi nella storia, deve dimettere di raccontare canzonette su Omero e sul sole, non c’è nella storia che una Calabria senza pane, acqua, terra di frane, carcerati, di baroni e carabinieri, minatori e promesse elettorali. Costabile lascia da parte le speranze dei cortigiani, l’inutile elegos degli elencatori di trenoi i quali si piangono addosso rinforzando le catene; più produttiva di ogni speranza, di ogni poltiglia di legami nostalgici e di orgogli ridicoli è la disperazione che il poeta registra. Quella terra
con una brocca
e con un bicchiere di cristallo
berrà sempre
al pozzo del suo dolore.
La posizione ideologica e morale di Costabile ha pochi equivalenti nella cultura calabrese: non quella di Misasi, dei regionalisti, dei viaggiatori e dei visitatori, di Alvaro ma quella di Seminara, di Strati, di Enotrio e di pochissimi altri. Lontano dai populisti funzionari di partito o degli enti meridionalisti, dalle avanguardie degli anni Sessanta, dai poeti ludico-mimetici di un Sud festaiolo o funebre, dagli antropologi ipogeici o iperurani il pessimista Costabile registra stilisticamente – quando decade il neorealismo e si diffonde lo strutturalismo –, con l’ultimo Leopardi, le sopravvivenze e la rabbia della sua terra. Di fronte ai tentativi – come altri riusciti – di deprivare la Calabria dei mali numerosi e dell’aggregazione antropologica dei poveri per farle assumere l’aspetto voluto dal consumismo onnivoro e omologatore, Costabile si rifugia nel sentimento offeso dell’antico dolore e ai nuovi oggetti dell’industria o degli imbonitori politici contrappone le povere cose della Calabria sempre ingannata. L’essenzialità di Ungaretti che unifica liricamente cose e sentimenti, la registrazione figurativa morandiana dalla quale emergono dimensioni di nudità e di assoluto fanno campeggiare nella brevità quasi epigrammatica luoghi e cose di un mondo senza speranza. La disperazione nasce da sola: le ceste dell’asino, la piazza che mantiene sui muri le ombre dei giovani emigrati in Venezuela, la bettola nuda con il manifesto del piroscafo di una flotta famosa che pubblicizza l’emigrazione, il bracciante antelucano che lavora nella vigna prima del canto del gallo sono simboli del paese derelitto. Le situazioni retoriche dei socioelegiaci qui hanno un campo denso di verità umana e poetica, le immagini sono figure realistiche che proiettano un futuro senza speranza: bambini che non vanno a scuola e nel cui gioco alle carte sotto il ponte si proietta un destino leggibile, ragazza del vicolo che si guarda in un pozzo di specchio ma che non avrà vita sodale con un compagno. Su queste vite rubate dai vecchi e nuovi padroni vola l’oratoria dell’onorevole che torna per essere rieletto.
Costabile incalza con l’ironia che fa dirompere i contrasti tra la Calabria reale e quella promessa: alla realtà appartengono il vecchio del paese che beve birra a Daisy Street, il paesano sparato con quattro pallate per ordine di qualcuno, l’emigrato di cui rimane qualche cartolina sul vetro di una cristalliera, la ragazza sedotta e abbandonata dal padrone la quale si alleva il bambino e raccoglie le olive. Padroni, uccelli grifoni, proprietari, marescialli badano che ci sia l’ordine pubblico: un padrone muore di paralisi «sul petto | d’una serva» e lascia le vigne alla parrocchia, un altro dorme sotto il pergolato «dopo il vino e la donna», del padrone sono i colpi di fucile che vengono dal fiume, del nuovo padrone-assessore si sciacquano le giare, un assessore preferisce l’appalto all’agricoltura («A trovarlo, dio solo lo sa | quanto costa oggi un zappatore»). L’ordine pubblico viaggia sui fili del telegrafo con lunghi fonogrammi tra questura e prefettura, rasserena i vacanzieri della Svizzera italiana, la Sila con pastorelle, mucche e sole «d’oro naturalmente», i caporioni sotto il sole, viaggia con «lettere di parroci | per Roma», con le promesse della California d’Italia fatte dalla «bocca elettorale» dell’onorevole che «a larghi gesti | cancellava le frane». La pace della sera, la «vita chiara | di donne di bambini», di «sonno di garofani» – filtrata attraverso la lirica pura degli anni Trenta – avvolge le povere cose di una esistenza di miseria, la capra famosa per il molto latte («Questa la ricchezza | che ci fa campare»), la luna che aiuta a rubare («Il sole è dei feudi»), la piazza con il bar pieno di mosche, due botteghe «dove il pane si vende a credenza» e «lo stemma della Repubblica | “Sale e Tabacchi”». Questa umile Italia che vive «senz’aria di congressi», dove c’è gente «che zappa e non parla | perché pensa | a un’annata migliore» è sempre come prima («tranne i morti»), ricca «di commissioni, | progetti di strade»
tranne voi,
onorevoli,
governatori,
voi, amici,
Leonardi da Vinci
della Cassa del Mezzogiorno.
L’ultimo Costabile, davanti a un Sud «troppo cantastorie» mentre viene venduto, davanti a «tamarri» che fanno da guardaspalle, esprime l’ultima disperazione.
Prima dell’acqua
la Corte d’Assise.
Prima del sole
la mosca olearia:
potere degli uccelli grifoni e loro accoliti e potere della natura che devasta il territorio sono alleati nella devastazione sicché non resta che chiedere ai nuovi padroni di non cercare nuove deleghe per nuove menzogne. Non ci sono illusioni, la Calabria vera è quella autenticamente povera («polvere e more», «pane e cipolla», «capre | sulla spiaggia», «bastione | di pazienza», «famigliole al braciere»), assalita dai nuovi ingannatori.
Costabile rimase chiuso nella sua rancura storica: perciò non fu contro la storia, il suo canto è il più alto tra quelli, pochissimi, nati da una delusione radicale. Non si trattò di immaturità (l’immaturità giudicata tale dal senso comune è sempre superiore al senso comune) ma di punto di arrivo al quale altri non avevano avuto il coraggio di giungere. Con La rosa nel bicchiere Costabile rimane sulla linea dell’opposizione ideologico-morale sorretta da un linguaggio deciso e secco, essenziale nella sua epigraficità, opposto a quello della conversazione politica e letteraria. Rimane, nella letteratura calabrese, sulla linea dell’autenticità e della verità senza curarsi di scimmiottature sperimentali. Negli ultimi tempi della sua vita nel Canto dei nuovi emigranti (1964) il poeta propone l’abbandono della Calabria da parte dei lavoratori fino ad ora troppo rassegnati a raccontarsi storie, «chiamando onore una coltellata | e disgrazia non avere padrone».
L’esodo in massa avviene da tutti i luoghi di soggezione e di coazione: via dai pretori, dalla polizia, dai baroni, dalla Cassa del Mezzogiorno, dai catoi, dalle piazze, dagli onorevoli, dalla «croce sulla croce» delle schede elettorali, dalle esattorie, dai municipi, dalle leggende del sole e del mare; gli emigranti calabresi sono
le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel […]
il disonore
la vergogna dei governi.
In Calabria rimane l’onorevole, il nuovo barone che sul taccuino segna gli appunti per la sua miserabile giornata-propaganda di vivo-morto, di promessa di esodi:
Avvolgere col tricolore
dieci minatori morti […]
Tornare
all’enciclica […]
Bontà delle suore […]
L’area democratica
citare più volte.
Ormai Costabile aveva cancellato ogni mediazione e ogni mito e la sua poesia si fermò sulla denunzia degli inganni delle nuove corporazioni e delle nuove mafie con un linguaggio di dirompente nudità, frutto di una cultura antiretorica e libera dallo pseudo-concetto della «calabresità». Costabile è nato a Sambiase nel 1924, si è suicidato nel 1965.
La neo-avanguardia degli anni Sessanta e successivi non è approdata direttamente in Calabria ma in relazione al suo sviluppo non si sono verificati casi di rigetto polemico del nuovo come aveva fatto a suo tempo Vincenzo Gerace. Certamente mancava una personalità come Gerace né forse avrebbe potuto sussistere in tempi di mass media sviluppati e omologanti rapidamente le forme consumate. Erano saltate le barriere dei classicheggianti i quali nel territorio diruto osservavano i detriti dei miti attribuendo ad essi aberranti significati. Sopra le rovine delle barriere tradizionali entrava tutto: il tardo ungarettismo, l’estremo quasimodismo, si avevano riflussi crepuscolari, realistico-lirici ecc. Ma negli anni Settanta si aveva un illimpidimento creativo unito a un uso più ricco degli strumenti tecnici, alla conoscenza del reale.
Esperienze di vita e di poetica diverse rendono dissimili poeti di una medesima generazione. Se vogliamo leggere i poeti nati prima della prima guerra mondiale e vederli nel loro sviluppo notiamo in Silvio Vetere (1914), Pietro Pizzarelli (1913), Arturo Fallico (1909), Domenico Antonio Cardone una struttura culturale speculativa o religiosa e in qualcuno (Pizzarelli) echi della cultura morale vociana. Per contro Felice Mastroianni (1914-1982) mutua dal neo-alessandrinismo e dal mito le forme della tematica anche regionale.
Silvio Vetere (morto nel 1990) è autore di È tornato Gesù nella mia valle (1956), di I morti e i vivi e i padiglioni (1964), di Poesie (1979) a cura di R.M. Morano. Nel primo libro il poeta vede Gesù nella sua terra, la Calabria, accanto ai «cafoni» per dare aiuto e conforto; è un Cristo contadino e Vetere individua nell’insegnamento evangelico
una delle risposte più valide per giungere a realizzare le aspirazioni delle masse oppresse dalla miseria, senza invitare alla rassegnazione e all’accettazione dello stato di cose esistente
Un filo rosso unisce pertanto Pietro Valdo (che ebbe numerosi seguaci in Calabria) a Francesco da Paola, a Tommaso Campanella e a quella «particolare forma di socialismo umanitario diffuso nelle campagne fino a pochi decenni or sono» (Rocco M. Morano). In Trafori (con commento e note esplicative di R.M. Morano, 1985), poema difficilmente classificabile se non nella struttura del poema-racconto, volutamente frammentario, l’idea-guida è stata riassunta in questi termini dal Morano:
Un viaggio che sembra perdersi nella notte dei tempi, intrapreso da una brigata di strani personaggi quantitativamente indeterminata e variamente composta (un uomo, una donna, un mercante, il poeta-personaggio), a stretto contatto di gomito nel vagone di un treno che corre come meta «trivellando» le viscere della terra e lasciando intravedere, attraverso i trafori, improvvisi sprazzi di luce a guisa di «miraggio» e una realtà frantumata da catalogare e ricostruire per sé e per gli altri prima di iniziare, con disincanto però, a reinventare il mondo: questa, in sintesi, l’idea-guida del poema del Vetere, strutturato in modo volutamente frammentario, costellato com’è di numerosi voli pindarici in funzione straniante e di visioni oniriche in cui si dissolve, prima di riprendere quota con i suoi piccoli e grandi eventi, la realtà fenomenica.
Un gruppo di persone, quindi, rifiuta di continuare a vivere nella confusione e nel marasma del mondo d’oggi in cui, come nel passato, prevalgono gli artefici del male. C’è in questo una sottorranea venatura alfieriana che ricorda gli ultimi versi del Misogallo. I buoni, i pii e i giusti vengono sempre perseguitati o uccisi. Vetere ha appreso quest’amara verità dalla storia del passato, pregna di disumanità, di ferocia e di violenza. Ma i personaggi che egli raggruppa nel treno che cammina al centro della terra per una discesa agli inferi che non porta comunque la totale perdita della luce, intravista a sprazzi attraverso i trafori, attuano una fuga, non coatta ma liberamente scelta come fatto privato ed esistenziale, dalle città tentacolari e corrotte del mondo d’oggi con la segreta speranza di reinventare la vita e di risuscitare in se stessi l’incanto che da essi promana soltanto a condizione di rimuovere, con un’impresa indubbiamente ciclopica, la perdita di futuro che opprime la gente comune e segna pesantemente la condizione umana.
Anche il poeta, nell’economia dell’opera, diviene personaggio e come tale si ritaglia un ruolo ben preciso riassumibile nel viaggiatore deciso a registrare scrupolosamente le voci nell’atto in cui si odono e gli accadimenti nell’atto in cui si svolgono o vengono rievocati e, allo stesso tempo, proteso a non rinunciare a tenere le fila in modo disincantato e critico e talvolta persino da fustigatore dei costumi corrotti e vili, con l’intento mai dichiarato ma sotteso di tornare a vivere in un mondo diverso e quindi migliore.
Di qui la vena civile che sostanzia Trafori e che aiuta a fare del poeta un essere pienamente consapevole del ruolo di responsabilità morale da lui rivestito.
I personaggi di Trafori sono dei sopravvissuti alla morte civile e spirituale che sovrasta la città, con il desiderio riposto di narrare le proprie esperienze o di testimoniare l’importanza della memoria storica nell’epoca dell’effimero e del transeunte.
Come tali, sanno leggere nel grande libro della memoria affidando fiduciosi all’opera dell’aedo-epitomatore il compito di divulgare adeguatamente i loro racconti aventi a protagonisti uomini di tutte le latitudini accomunati dalle virtù della generosità e dell’altruismo e per questo perseguitati.
Abbiamo una generazione di poeti nati intorno agli anni Venti la quale genericamente accoglie i primi risultati del Novecento, ha una educazione letteraria moderna, lascia cadere la retorica ottocentesca, comincia a risentire di Pascoli, Campana, raggiunge l’ermetismo.
Parliamo di coloro i quali curano un’educazione letteraria moderna e svolgono i motivi poetici in un quadro espressivo adeguato. Giuseppe Benedetto (1924-1991) ha una personalità artistica essenziale, scabra, magra, non cedevole, non sentimentale, incentrata sull’aspirazione alla pace e la consapevolezza di un progresso scientifico distruggitore. La sua è poesia di eventi, di momenti: «La rauca voce del vapore | precede il sibilo di sirena | dell’autoambulanza», «Cardini che scricchiolano gementi, | rumori sordi e fragori di pioggia».
Si sente Montale ma Benedetto non ha avuto lo sviluppo che avrebbe potuto avere perché frequentò i tardo-crepuscolari e i sentimentalisti di un ambiente non aperto al moderno. Fu vinto dal riflusso degli attardati ma pure in questa condizione espresse una personalità rigorosa e severa che si fondava sul reale e che rimane un pregio precipuo. Nelle sue cose migliori ci sono grumi consistenti:
Sono venuto a udire la voce
degli alberi e del lago,
a popolare la mia solitudine
rassegnata.
Egli canta la dura vita dei contadini, il destino dei nomadi, la miseria dei borghi; la sua poetica è per una parola «scarna ed arsa» che chiede giustizia e nobiltà di animo. In altro ambiente Benedetto avrebbe conosciuto esempi più vigorosi e moderni e sarebbe cresciuto di molto. Il poeta corrisponde all’uomo sano che era, ricco di modestia, di equilibrio, diverso dai cantori di se stessi, che si spettacolarizzano e si esibiscono per arrivare alle esibizioni più ampie dei mass media.
Dei poeti della profluenza non si può fare cenno in un lavoro che non è una rassegna o un cronicario per cui ricordiamo coloro che espressero un impegno etico o estetico, un tentativo di rinnovamento della tradizione. I segni dei versi editi di Nella (Caterina) Lo Presti (1918-1945) sono tradizionali ma qualche verso che accenna al destino della morte prematura ha incisività:
Lungo il deserto fiume dei giorni
il cielo ha disperso i miei passi.
Mi ritrovo dentro il respiro vasto del vento
senza più eco alla mia vita.
Francesco Leonetti (1924) di Cosenza (ma di cultura emiliana e milanese) e Saverio Vollaro di Reggio hanno avuto una funzione particolare nella poesia italiana. Leonetti (con Antiporta, 1952; Campo di battaglia, 1971; In uno scacco (nel settantotto), 1979) indica con forte carica espressiva di lingua e sintassi il proprio legame con Roversi, Pasolini, Scalia, Vittorini, la cultura leninista e cinese della rivoluzione culturale. Eppure nella sua protesta, nelle invettive, nella voglia di palingenesi Leonetti fa ricorso a stampi campanelliani che indicano il rovello morale e civile, la necessità di opporsi, di satireggiare. La passione civile e politica sovrasta in Leonetti e privilegia in poesia il problema della condizione dell’intellettuale, soprattutto dopo la diffusione della cultura sessantottesca che accende nel poeta tensioni e utopie:
Abbiamo fatto una piccola officina,
che forse è la prima,
per uscire dal limbo eletto del Novecento,
dalla coscienza infelice […]
l’arte novecentesca
si ridusse a un’estetica usanza
della sfiducia e della memoria d’infanzia;
la poetica di Leonetti è sorretta anche da saggi (Un lavoro mentale, 1976; Critica leninista del presente, 1980) e dalle idee espresse in romanzi (L’incompleto, 1964; Tappeto volante, 1967). Insieme con Paolo Volponi ha scritto l’attualissimo Il leone e la volpe.
Un posto di alto rilievo per il valore della sua poesia anche nell’espressione satirica occupa nella cultura italiana il reggino Saverio Vollaro (1922-1986) prematuramente scomparso e dimenticato dalla sua città. Laureatosi in giurisprudenza a Messina, a Reggio ha fondato un Circolo del cinema ed ha collaborato a riviste cinematografiche. A Roma, dove ha lavorato in una biblioteca statale, si era trasferito nel 1953.1 suoi libri di poesia sono Le passeggiate (1956) vincitore del premio «Chianciano» di quell’anno, Romoli e rome (1962) vincitore del premio «Villa S. Giovanni», La mummi sbagliata (1973).
Ha tradotto La cena di Trimalchione (1963) di Petronio, Le satire (1971) di Persio Flacco. L’ultimo libro in proprio è da porsi in rapporto con la collaborazione fissa e costante al «Caffè» di G.B. Vicari fondato nel 1953 e che anticipa motivi (non distruttivi) della neoavanguardia. Il Vollaro satirico è stato una presenza importante a Roma con il suo apparente distacco, con i ritmi dissonanti, le rime improvvise e impreviste, elementi che fanno parte della sua poesia (in cui c’è l’esperienza del «montaggio» e dei diversi piani della cinematografia): «un vero congegno di precisione, che non conosce, quasi, pause e scatti a vuoto» (Cesare Vivaldi). La satira è per il poeta strumento di deformazione dell’espressione, di rivelazione del grottesco, della calata nelle stranezze e bizzarrie umane, nel costume (anche politico). In questi versi l’occhio va al cambiamento in peius:
Non è cambiato niente
e tutto è come prima,
così dice la gente.
Forse ha ragione,
i soliti ministri
sciancatelli, ritorti,
rotti per l’uso,
solita masticazione,
i soliti che abbiamo sempre visti.
Però ci siamo accorti
che intanto sono cambiati i socialisti.
Nel primo libro Vollaro esprime il proprio spaesamento nei confronti dell’insignificanza del mondo. Il poeta non ha voce rotonda né groppi sentimentali, la situazione è introdotta quasi crepuscolarmente e poi si decanta in una trasparenza di stile che in quel tempo non aveva eguale; neorealismo e sentimentalismo sono lontani dall’originalità del poeta:
Le donne straniere
vivono con un giorno d’anticipo
hanno lunghi sguardi rotondi
e un collo limpido
cresciuto in una notte di malizia;
È cresciuta in una casa ricca […]
Queste donne hanno il mento
piccolo come una piccola fossa,
chi le sposa stringerà
le vuote ossa fino all’alba
in una stanza illuminata.
La tristezza di Vollaro è senza incanto e può sovrapporre il piano dell’ironia e dello scherzo leggiadro come valore gnomico che allarga lo slegamento della realtà. La fenomenologia fisica sembra togliere speranza e ciò che accade (o si vede accadere) ha un carattere irreversibile: «Il mare è tanto liscio che | se getto acqua | resta un buco nel mare» e tutto è così fermo che è da osservare anche «la passeggiata d’una seppia». Nel secondo libro dalle notazioni malinconiche si passa con diverse gradazioni alla satira (di parenti, ministri, generali) dei miti retorici che vengono collocati nella loro area umana:
Tagliati sulla linea del cognome,
poveri aristocratici e la follia,
fantasmi dell’olio fritto,
dormono senza rome.
L’infanzia è vista nelle sue atmosfere popolate di figure:
Era il cielo delle maestre vecchie
d’alti tuppi come colli […]
dicevano che il ferro
è molto utile all’uomo
e c’è dentro la terra e nelle piante;
il mare
è il regno delle gambe
dove si fanno in su larghe
e belle, e dell’orecchio
e delle parti del corpo
in cui traspaiono tutte
le antiche somighanze della natura.
Gli eroi della storia sono smitizzati:
Anche l’Italia sottomarina
esce a caccia, il comandante Rizzo
tra i gradi specula
il calmo disastro delle corazzate;
in Etiopia si va sempre avanti «verso le favolose sifilidi | a mille chilometri dal mare»; a Reggio domina la prefettura quadrata, piena di amici «a due petti | che progettano parole di scherzo sui tavolini | e l’arresto per chi guarda»; ad Arcinazzo un uomo politico corre anelando ad incontrare Graziani «per quanto gli consentiva | l’amaro disordine del suo cingolo scapolare»; c’è un papa nuovo:
Abbiamo un papa bravo
(quello no, era secco e duro,
quando morì pareva un tamburo
pieno d’immortale arsenico);
il gusto massimo sarebbe quello di far fare uno strip tease alla Germania, spogliarla di ferro, fuoco, benzine, fermagli, ganci di busto e mutande e vederla danzare fino a dibattersi per terra, «Coccinella | dell’Europa».
Tutti i limiti linguistici sono rotti nel terzo libro che è uno sfrenato crogiolo espressivo in cui si riflettono le fratture, le indistinzioni, le confusioni di una società di massa caduta nel caos. Questo alto poeta pienamente novecentesco nella sua pena segna il passaggio crudele al secondo Novecento, dalle incerte fedi alla dissacrazione degli accumuli dogmatici e delle ferocie storiche. Riflessivo e mordace, di forte spessore etico moderno Vollaro «ha vissuto tragicamente la malattia inguaribile della moglie» (Machiedo): «Ivolda – scrisse – ormai non esiste, essa è solo esistita» e dopo un lungo tempo è morta. Degne di lui sono le pagine del Ritratto poetico di Saverio Vollaro (Reggio Calabria, «Parallelo 38», 1991) di Mladen Machiedo, ordinario di letteratura italiana a Zagabria, lette a Reggio il 1° dicembre 1990, pagine critiche puntuali che fanno rivivere un vero poeta ingiustamente dimenticato.
Adorna di immagini la propria infanzia nel mondo grecanico di Bivongi in Anacronismi (1982) Anonimo calabrese che è Cesare Valenti, poeta di pensiero e di metafore, di ritratti antichi e di memorie ferme e precise:
L’Upnaridi
la fonte
a mezza via
del càlatro assolato […],
furioso era il vento
all’ardua stretta
tra Montestella e Consolino
e in basso era la miniera
uscendo dal fianco della roccia un fiume
che sono i luoghi della realtà e dell’utopia di Campanella, delle ferriere borboniche ecc. In Aggiunta e Il tempo non divenuto (1994) Valenti imprime con alta esperienza stilistica i segni di una realtà svuotata di cui le apparenze che si muovono destano profonda pena; Valenti – che è pensatore acuto – non grava se stesso sulle cose, sulle persone, sugli eventi; tutto fa trascorrere, fa divenire o stare; egli rappresenta con memoria fedele e distaccata, senza pronunziarsi, sviscerando con eleganza le cose più crudeli dell’essere (gli animali non parlano più, noi parliamo sempre
ma ciò non vuol dire
non è
che
con ciò
diciamo qualcosa
una cosa),
facendole parlare con parole tenute a governo, esemplari; con tale governo linguistico Valenti può raccontare senza scadere, raccontare fatti e memorie, ridurre all’assoluto sollevando atmosfere incandescenti del passato
(nobile abitato castello o rudere
di là da quelli e sentieri inaccessi
disegnanti all’anima
frequenze umili eterne
vicende d’erba e d’uomo
zolla e monastero […]:
che è aristocratica riformulazione leopardiana): la nonna Popìda che insegna «quel truce splendore | l’immagine e il logo», tanti personaggi dell’infanzia e del paese senza alcuna componente folklorica. Anzi, un modello di lingua di poesia non lisciata ma fortemente sentita, uno dei testi più originali del Novecento calabrese.
Raffaele Aversa di Stalettì (1919) è uno di quei poeti che non si possono collocare in un gruppo o in una tendenza perché la poesia in lui è la facies dell’uomo. Egli stesso propone di vedere taluni suoi pensieri come «piattaforma» della sua poesia: «La storia è il respiro di tutti: dei morti e dei vivi», «Chi spara a un uccello non può amare sinceramente la libertà», «Chi si è potuto arricchire nella vita non ha saputo amare a sufficienza il Prossimo», «Il furbo non potrà mai possedere una verità per tutti», «La morale non può essere altro che la giustizia», «Cristo è stato spedito troppo in alto nei cieli da chi aveva interesse a dominare sulla terra senza di lui» ecc. Dopo diversi volumi di versi raccolti antologicamente in Cento Poesie (1979), nel 1992 ha pubblicato Per un vizio nel profondo. Le radici di Aversa sono calabresi e il poeta canta il treno del Sud che cerca un posto sicuro dove sotterrare la propria pena, canta l’«orgoglio» calabrese, di una terra «incanaglita dal sole e dai padroni» ma canta anche l’uomo cittadino del mondo, con un richiamo all’uomo dell’illuminismo libero da pregiudizi e padrone di sé come nessun poeta calabrese ha fatto. La sua poesia è sommessa, quasi sabiana in quanto priva di aggettivi inutili, il dolore è come smorzato, i poveri non sono quelli del populismo meridionale piagnucoloso e che attende la ricompensa per l’accenno al pianto ma sono
lì seduti
l’uno accanto all’altro,
appoggiati al vociare della gente […]
sono lì
come foglie gialle d’autunno;
la religione non è ricerca di sostegno:
Se ti capita di sentire il bisogno di Dio
non t’appoggiare per forza al muro d’una chiesa.
Vi sono muri dovunque
ed echi di richiamo per gli slanci;
la città dei mercimoni e degli intrallazzi non è per lui (si ricordino gli illuministi): «Se lo vorrete la lascerò a voi e ai cani | questa città». Poesia virile e di profonde radici questa di Aversa, formalmente controllata: «Del pianto facile nulla rimane, | ma del passato il sapore | non se ne va mai»; la morte deve essere guardata negli occhi e al momento della sua venuta essa si accorgerà «che la mia dignità | non era di certo | una sciocca ricercatezza». Aversa ha pubblicato un ottimo studio su Gregorio Aracri (1969) suo antenato, altri studi su Cassiodoro e importanti opere di paleontologia.
I versi di L’arcata sul sereno (1963) di Felice Mastroianni sono nettamente conformati a una poetica di stampo pascoliano: il poeta stesso indica i dati della fanciullezza («che rivive come una favola») e della morte «sentita come arcano approdo oltre il cerchio dell’ombra sempre più densa». Il nucleo ideologico ed estetico è già condensato, il poeta è nella maturità («ancora in cima all’anima non s’è spento l’ultimo sole e l’alito della giornata che volge alla sera serba ancora qualche aroma del meriggio»), afferma la «divina presenza» della poesia: egli è del tutto estraneo allo sperimentalismo dei secondi anni Cinquanta, al gruppo ’63. Dal linguaggio generico si levano i versi:
Fresca la selva odora
di notturne fragaranze
e mi torna il tuo viso
come da lontananze astrali […]
si levano i segreti aneliti del ramo al notturno richiamo del vento e si connotano alcuni motivi individuali: la presenza del Reventino con le fate delle leggende, i treni del Sud (di «questa terra d’abbandono») su cui il poeta si ripiegherà in seguito, i personaggi familiari e quelli visti in alto per suggestione di memoria («Alto, nell’ombra, | immoto il vetturino» e «alti, scalpitanti» risaliranno di lì a poco «i muli d’Amantea»). Infine un ricordo di Anile quando Mastroianni si augura di svegliarsi «oltre il cerchio dell’ombra al sereno – d’un eterno mattino».
Anche Favoloso è il vento (1964) è scritto a Napoli con la memoria della Calabria e dell’infanzia nel cuore. Le immagini qui sono più ferme e consolidate nei loro elementi: si vedano i buoi – giganti sulle cui corna si spuntano i lampi («Come potevano i nostri occhi di bimbi | contenere le forme superbe?»), i bovari gridanti «da alti cavalli», la precisione delle impressioni visive (i pomeriggi «rossi di conserve ai davanzali») e olfattive (l’odore dei fienili a cui si associano le voci dei grilli). Al di là dell’ethos pascoliano occorre soffermarsi sui processi delle immagini caratteristiche di Mastroianni in cui è la tensione (come in Franco Saccà, Gaetano Monteleone) verso l’essenzialità formale:
La sera s’è posata
in groppa a cavalli
che vanno alle fontane
con zoccoli d’erbe
di lontani sentieri.
Dopo un inizio regionale e idillico (Arte senza flauto, 1959) Domenico Cara di Grotteria (1927), milanesizzato nella cultura moderna, ha documentato nei suoi versi la complessa e difficile vita metropolitana, il congegno macchinistico condizionante ed ha adeguato gli strumenti stilistici alla funzione operativa poetica che essi hanno nella neo-avanguardia. Cara passa per i diversi momenti della poesia del secondo Novecento, esalta anche tanti aspetti culturalmente caduchi ed estemporanei ma nei suoi molti libri (anche diseguali) lascia i segni stilistici (attraverso aforismi, parodie) di una coscienza inquieta che intende esprimere, proprio attraverso i segni, la condizione di frantumazione di chi opera come poeta (Cactus, 1968; Tavola delle miniature, 1983; La rigenerazione dei ragni, 1987, ecc.).
Profondo impegno interiore è in Paolo Broussard di Pizzo (1927) e in Ermelinda Oliva di Palmi (1929). Broussard da anni, instancabile ricercatore, parla della propria sfiducia nella storia e cerca di esprimere i paradossi e le contraddizioni della vita, l’uso relativistico della parola che per altri è salvezza ed illusione.
Risarcire parola e realtà delle contraddizioni è il compito del poeta; ritrovare l’esatta presenza delle cose come in un frammento di biologia, in un foglio di astrofisica. Questa strenua posizione di Broussard merita un riconoscimento ed uno studio che la critica distratta fino ad oggi non ha dato al poeta.
La connotazione fondamentale di Broussard poeta è quella di una religiosità moderna la quale si viene dilatando in relazione alla cultura moderna. Non si tratta di enunciazioni che sono rituali nella poesia religiosa (esiste una poesia religiosa? Il Croce negava che potesse sussistere a meno che la religione non muoia come tale e si trasfiguri: ma oggi tale problema è diversamente articolato) ma di penetrazione nella vita come unitaria essenza religiosa che è anche sentimento laico e moderno. Ricordo i modi della religiosità di alcuni poeti siciliani di questo secolo, Luca Pignato, Calogero Bonavia (in minor misura Pietro Mignosi), i quali giunsero alla loro visione attraverso il decadentismo di Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire e furono moderni perché cantarono – originalmente – la sconfitta, lo scacco, la vita come esilio e condanna, come patria perduta con una perenne nostalgia del paradiso che più non esiste penetrando nella crudezza del loro tempo e opponendosi alla retorica e all’ottimismo.
Broussard è poeta della interiorità, dell’unità e cosmicità della vita, delle aggregazioni e delle disaggregazioni fino all’infinitesimo; non si tratta di una visione generica come nella poesia filosofico-religiosa di fine Ottocento ma di una visione moderna, collegata con la scienza di oggi, con le (relative) certezze della fisica, della matematica, della chimica, della biologia al fine di una ricerca composita che ha come centro l’uomo. Il relativo che si forma o si deforma è visto a seconda della vita con, per, senza, contro, modalità fondamentali (non le sole) dell’essere. I versi «Sette come materia planetaria» sono tra i più meditati e veri della poesia di oggi; solo Corrado Curcio aveva parlato liricamente delle «differenti grafie organismiche». In tale sistema gli elementi particolari partecipano dell’essere e «l’ombrello», le «scale», la «veste», il «viso» sono archetipi non astratti ma elementi viventi della sincronia dell’universo «compreso da pagliuzze di galassie», «quidditates» del Tutto.
Visione alta nata dalla sintesi di pensiero e poesia la creazione di Broussard dovrebbe essere sminuzzata e discussa punto per punto per essere intesa nel complesso, nella centralità. Sommariamente possiamo dire che l’espressione è coordinata, sul piano moderno, a una specie di «Commedia» che si svolge come inferno-paradiso, con punte scientifiche e con costante sostanza religiosa umile e partecipe.
I modi infinitesimali del divenire, le ferite ricomponentisi di continuo nell’essere, la catena che avvolge «rocce tritumi», i segni di un infinito che si trasfonde in tutti i punti sono alcuni motivi dell’onnivora poesia di Paolo Broussard in Quia Absurdum, Forlì, Quinta Generazione 1985) per il quale poesia è sprofondare nei primordi della vita che batte fino al cuore delle pietre. Questo principio assoluto fa brillare di continuo davanti agli occhi le particelle cosmiche della creazione e, per antitesi, quelle della dannazione e della consumazione.
Poesia ossimorica come sostanza e perciò sociale, storica, pur nel principio metafisico, poiché Broussard canta il perduto, il consumato, il consumabile toccando lo stesso problema del linguaggio che è quello della frantumazione o del mescolamento delle cose.
Nel mescolamento il mestiere umano rovina con i suoi rimedi, la cosiddetta salute è un guasto continuo, il sistema dei nomi è una mistificazione continua dietro la quale la persona si nasconde («nasciamo per masticare l’inabilità | che diventa solstizio immutabile di una stagione immutabile») creando classi di persone. In queste classi l’uomo non comprende le minime parabole dei concetti e del divenire. La ricomposizione linguistica è nelle lasse sull’Altissimo immortale che spinge alla morte, che è incontro degli opposti, «con labbra siderali»: l’immagine linguistica è sempre una metafora sacra della policromia dell’essere (si veda L’Ombrello).
Nella visione ossimorica cosmogonica sorgono infinite domande dell’uomo in pena per il male universale:
Sapere chi sia, che cuore abbia
la mia interiore caverna,
quale decalogo scandisca
il mio quotidiano passare.
Al centro religioso corrisponde il tono profetico correlativo alla cosmogonia e in questa sintesi Broussard ci pare il poeta più vicino a Campanella, a Gioacchino da Fiore, alla loro sostanza messianica, che attinge alimento dallo scompenso odierno tra individuale e universale, dalla frattura che il tempo nostro vive in modo così drammatico o dimentico.
Scarsamente conosciuta dalla critica e dai poeti nella sua stessa Calabria, Ermelinda Oliva in questi tre libretti (Il candelabro, La conchiglia, E dove e quando, Napoli 1978) dà una fisionomia completa della sua poesia. Il fatto che la Oliva sia pressoché ignota non depone bene sulla critica calabrese alla quale può essere di scusa l’estrema ritrosia della poetessa; ma è pur vero che altre volte (è il caso di Alba Florio, Lorenzo Calogero) la critica è stata sorda. Recentemente è morto a ventotto anni Rosario Belcaro e se non fosse stato per Emma La Face il nome di questo giovane poeta sarebbe rimasto oscuro. La Oliva vive a Palmi ed è poetessa di estrema purezza per convinzione estetica e psicologia: diciamo purezza nel senso che la Oliva allontana l’autobiografico e ricerca – per la sua struttura religiosa – il mistico e il cosmico. Nel nostro Novecento troviamo pochi poeti che siano giunti a tale purezza espressiva e a tale chiarezza:
Signore, Signore,
la tua voce,
com’ala in volo
m’incanta e fugge
nel chiarissimo abisso
del cielo.
Protesa misticamente verso la «divina quiete» la Oliva si sente frantume e sorella di Dio, sente l’eterno al di là della morte, vorrebbe risplendere come sole al piede di Cristo il quale è l’arcobaleno ardente che taglia in due il cuore.
La Oliva è tra le poche voci che esprimano il brivido e l’immoto distendersi della natura; vi riesce per la sua interiorità che le fa intendere i segreti delle remote boscaglie, la dolcezza della riva del torrente, la morbidezza dell’erba al piede dell’albero. Dietro i versi si sente l’assimilazione dell’anima della campagna calabrese con i suoi echi misteriosi, le voci dei fiumi, dei burroni. Il mitico paesaggio del Petrace risplende nella distesa azzurrina del mare e diventa l’albore che accompagna l’infanzia animata da
freschezza di fiume
o volo altissimo d’uccello,
suono di chitarra, a sera,
quando col suo volto antico
la luna s’avvia
per l’arco turchino del cielo
e cade come un grido
il crepuscolo
sul nostro cuore di sasso.
La Calabria pastorale di un tempo vive l’immagine dei «ruvidi mantelli che in un lento | fumo, discioglievano l’odore aspro | del gregge!». Ma anche nelle dense liriche Sughero, Gufo, Pioppo, Ulivo, simboli del luogo e forme per mezzo delle quali la Oliva tende a Dio: «il mio orecchio | si spezza per udirti».
Il pericolo di questi versi è la loro struttura di frammenti che dà una trasparente chiarezza di sintesi ma toglie forza al contenuto: l’immagine finisce col prevalere in quanto tale. In Lo Zoccolo e il Sasso evoca un magico mondo della natura, per la bellezza delle immagini nelle quali circola un sentimento. Le immagini sono raffinatissime per la sensibilità, hanno talvolta una intensità assai struggente come «di una favola che dilegui…».
La Oliva è estranea, in quanto creatrice autentica, ai circuiti culturali. Se il suo nome non circola essa ha ricevuto giudizi favorevoli da due veri intenditori, Sergio Solmi e Diego Valeri.
I miti antichi vivono in due poeti di notevole educazione artistica, Giuseppe Selvaggi di Cassano Ionio (1923) ed Emilio Argiroffi di origine siciliana (1923) ma operante da decenni nella provincia reggina. La prima raccolta lirica di Selvaggi (Fior di notte, 1941) risente di D’Annunzio e Pascoli ma il suo realismo magico si struttura fra gli anni Cinquanta e Sessanta in modo originale, con una connotazione religiosa ebraico-simbolica e con interesse crescente alla sorte disavventurata della Calabria. Da Quaderno d’amore (1952) a L’italiano nuovo (1965) il generico idealismo giovanile si condensa in progetti artistici che oltrepassano le mitologie generiche e, soprattutto, non cadono nel realismo lirico di origine capassiana che dalla fine della guerra aveva colonizzato, come movimento frenante, la Calabria.
L’itinerario poetico di Giuseppe Selvaggi si concentra, come nei migliori poeti d’oggi, intorno a una tematica che include una visione organica della realtà con tutte le sue contraddizioni. Così è in Corpus (Milano, All’Insegna del pesce d’oro, 1985). Il corpo, materiale punto di riferimento dell’edonismo commerciale della società di massa, punto di riferimento econometrico della produzione e del consumo, è qui restaurato nel suo valore di tempio dell’interiorità, architettura fisica della comunicazione più segreta. Ciò è detto nel Prologo in cui è la poetica del libro: «Una è la pasta della mamma terra | è vivente che esiste e muore amando». Il corpo è quasi un alabastro attraverso il quale si vede l’interiorità perché bastano «dieci germogliate | delle rose sul davanzale | per vedere finita la bellezza». Il corpo è fame di vita che scocca dalla nascita, è irrompere di fisicità onnifaga ed è forma di conoscenza del reale; è anche autoconoscenza narcisistica, conoscenza del proprio complemento. A questo punto (La spiga) le immagini di Selvaggi si incontrano misticamente sulla maturazione di tutte le cose, in un incontro apparentemente antitetico ma idealmente omologo. L’omologia è molto moderna e sottende il mistero in cui il corpo è tramite di invenzione di vitalità.
Senza corpo quale transito di vita l’anima non avrebbe la significazione adamitica. In tale presupposto ideologico religioso trae origine l’eros-vita in tutte le sue manifestazioni unificatrici. Qui l’artista vigoreggia per originalità e linguaggio: elementi figurativi, simbolici sono disseminati per esprimere in modi ludico-mistici gli atteggiamenti dell’essere corporale. Selvaggi con questo libro rappresenta una punta avanzata della poesia italiana e calabrese: si veda Il sogno del letto vuoto, una novità di eccezione pur nel gusto nettamente dannunziano da Poema paradisiaco.
Le radici dell’Universo raggiunte possono portare col sogno l’uno all’altro, un corpo risorge nell’altro, ma «se avrò un figlio | aveva detto Lei | sarà anche tuo figlio». Come in una «mirabile visione» la donna era apparsa in una corona di aria, con ombre di rose, con «dita lunghe, alterne inanellate», oggetto di sguardi spauriti da «tanto fulgore»; lo splendore era dentro di lei, si sarebbero visti «ogni giorno, dopo la morte».
La insolita concezione ha radici archetipiche nella psicologia profonda di Selvaggi, greco-biblica, attenta ai significati e all’aldilà delle cose e degli eventi: rincontro, il commiato (sia pure dalla notte) hanno in lui una significazione che in quest’opera si iscrive in un arco concettuale non prima raggiunto e che è ricco di interiore concentrazione. L’archetipo calabrese è lontano ma manda bagliori, è nelle radici che amano la sintesi delle cose, nel monismo del pensiero, nel sentimento tragico dell’elemento religioso. Il programmatico, il troppo sensibile, derivante dai sensi, qui è oltrepassato, rimangono gli umori produttivi, il biblismo non è condanna, la sua tragicità è una nervatura interiore che, pure, si avverte.
La tradizione si distilla nel mondo moderno. Il monismo calabrese si richiama nello stilnovismo e in più nervose sintesi. Ricordiamo alcuni precedenti concettuali dell’ideazione di Selvaggi: Fogazzaro del Libro dell’amore immortale noto solo agli specialisti e Montale di Le occasioni. Fogazzaro tentò una «vita nuova» fondata sull’amore sublime e doloroso perché non può compiersi in terra: la donna è un assoluto nell’unione, indispensabile nella vita di ogni giorno per il suo alone («O luna, s’io non ho lei, | splender poeta ch’è mai?», «Te anelo e chiamo e stringo e bacio in mente | e tu in mente ne godi che lo sai […] | Tutta l’anima mia con gli occhi t’offro | quando mi doni un lampo del tuo volto», «Sei del Signor la tenera parola | a me nell’ombra sussurrata e udita», «io veggo in te come in arcana spera | quanto il Signor giusto e clemente sia») ma irraggiungibile sulla terra. In Montale la situazione poetica non ha motivazioni mistiche bensì drammatiche («Ti libero la fronte dai ghiaccioli | che raccogliesti traversando l’alte nebulose», «Non recidere, forbice, quel volto, | solo nella memoria che si sfolla»). Sono, però, situazioni solo vagamente comparabili e unicamente per indicare un rapporto con il Novecento. Mentre la poesia di Selvaggi da noi esaminata riceve uno scatto concettuale dalla concezione del corpo nel tempo in cui viviamo.
Questa densa poesia sorveglia la liricità, la frantuma nei segmenti concettuali come avviene nelle opere dominate e mature. Pochi poeti oggi pensano e si esprimono con adeguatezza artistica come Giuseppe Selvaggi.
Quando si è finito di leggere di Argiroffi Madrigale siciliano con alfabeti e tamburi (1984) rimane veramente l’eco di sillabe dolci e sospiri alla Sicilia, unita a echi di tamburi lenti, lontani, aritmici: è la storia, l’epos storico che risale e, agitato da un vento, si diffonde su un triangolo di terra denso di fatti e di miti. Il mito, reboato sonoramente da tanti verseggiatori, qui è fatto rivivere dalle cose e dai sentimenti, rinasce concretamente e dolentemente nel poeta. Questi porta con sé secoli e secoli: agorà, giardini di limoni, muezzin, paladini, dottrina cristiana, sapori e odori legati alle sopravvenute etnie traspirano come se i mondi antichi rinascessero perché Argiroffi ha colto la loro essenza, inimitabilmente, attraverso la cultura popolare.
La memoria individuale si è fusa con quella delle etnie succedutesi e impastatesi nella Sicilia e che trapassano l’una nell’altra nei costumi, nei sentimenti, nei linguaggi. Ma il particolare sapore del mondo di Argiroffi è quello del triangolo che Rohlfs ha compreso tra Messina, Taormina e Naso dove il greco fu la lingua viva e popolare predominando nelle campagne e i relitti lessicali greci sono particolarmente notevoli: lì ancora rimangono calazzita, ropa, scalimbru, spisidda, putruni, con questi termini convivono parole arabe della marineria, dell’idrica, dei giardini, delle costruzioni, degli scongiuri. Argiroffi ha succhiato miti, storia, parole e solo chi ha vissuto nell’infanzia quel mondo può sprofondarsi in esso e sentirlo con nostalgia, con dolore di sopravvissuto, di testimone, con desiderio di ricomposizione; colui può intendere le parole di Costantino Kavafis: «Altrove non sperare, | non c’è nave, non c’è strada per te […] | la città ti verrà dietro».
La città è Messina con tutto il suo retroterra di epos plebeo e cavalleresco, il suo accavallamento linguistico, le memorie del passato che tralucono, dopo tanti terremoti, da rari avanzi murari, da un portale normanno, dalla facciata barocca surreale di un monte di Pietà rovinato, dai luoghi circostanti alla Porta Imperiale per la quale entrò Carlo V, da un monastero della beata Eustochio, da badie collinari, dal mito di Mata e Grifone progenitori, dalla cultura popolare estrosa e ingegnosa fino al metafisico: avanzi d’arte e avanzi linguistici sono i tesori di una tradizione mescidata con sapori greci, arabi, svevi, spagnoli, francesi, borbonici. Ma anche il luogo di nascita, Mandanici, è legato alle parole:
I colli rimandavano […]
fiocchi d’alfabeti
frammenti di parole
di stornelli.
Le capre ruminavano echi
impigliati da cardi.
Argiroffi si è sprofondato in quei frammenti e li ha colti nei loro significati storici, concreti, in relazione ai luoghi veri anche quando si trattava di mito: ora è una Taormina arabo-barocca che appare («Le trecce del balcone | gonfio di ferri gravidi») al ricordo di una fanciulla («Ah Jolanda») fresca e amorosa (le Jolande del nome savoiardo quante erano anche nei villaggi messinesi, al Santo, a Bordonaro!), ora «dal tempo dei tempi» echi di tamburi e cianciàne («E tonchi tirititònchiti»), ora «scintille di comete» disseminate dal carro di Fetonte.
I frantumi riemergono da filastrocche siciliane, distici greci, sentenze arabe e ricompongono il passato quale era: Cosma e Damiano, Bradamante, l’aroma dei verdelli, la battigia di zaffiro, i silenzi tra i quali i mosconi archeggiano «viole d’amore | sugli asparagi», i carretti carichi di uva, le costardelle, le anciòi, le more dei gelsi ecc. Gli atti della vita (i balli francesi, i mangiari di tutte le razze, l’apoteosi siciliana della melanzana) sono riportati alle società e alle genti del passato, da essi derivano i sentimenti e le sensazioni: le conchiglie ansimano lamenti per la morte di Saffo, scogli di solitudine fanno sentire più profondi i tamburi o il muezzin-banditore col suo grido serale o, soprattutto, il dolore del canto arabo per ciò che è irrimediabilmente perduto:
O vento
cosa dirò
se quella antica luna è morta
cosa dirò […].
Quel passato – dei santi bizantini, di Mata e Grifone che scendono dalle colline su cui si accamperanno gli eroi di chansons de geste – dell’adolescente che nella città accoglie le voci brucianti del nuovo (la Garbo, Marlène, Rodolfo Valentino, Chariot) resta con caratteri che lo rendono epico.
Non si tratta di quello spiacente revival o di quei mistificanti «recuperi» che sono oggi di moda nella onnifaga società dei consumi ma di vera immersione nell’epos della storia siciliana per mezzo della cultura popolare: il posto originale di poeta che Argiroffi ha non è casuale ma deriva da una personalità coltissima capace di cogliere nel sentimento reale – non esistenziale – della storia le voci che tumultuano per riapparire nella vita e che il verseggiatore comune non sente e vuotamente declama.
Argiroffi, nato a Mandanici (1922) ma calabrese di adozione, aveva già pubblicato I gran di serpenti miei amici (1981), pubblicherà Epicedio (1984) per la madre, Le stanze del Minotauro (1984), L’imperatore e la notte (1988), Gli usignoli di Botonusa (1991) e altre raccolte anche in dialetto calabrese (di Taurianova).
Michele Rio di Lungro (1920-1965), di famiglia albanese, è morto suicida a Torino. In Rifiuto e adesione (1966) esprime il desiderio di verità che egli cerca negli elementi più umani della vita; il suo mondo, antiretorico anche nello stile, è essenziale, in esso c’è un riflusso agli elementi affettivi primordiali, ai princìpi fondamentali che sono soffusi di sentimento delicatissimo. Rio ha cantato lo scacco senza alzare la voce, non come protesta ma come connotazione ineliminabile; il suo stile è di un’eleganza tutta interiore, non ha le effusioni abnormi di Calogero né la tromba di Costabile ma è un esempio di ciò che la poesia può essere quando la verità e l’espressione coincidono nelle alte regioni della vita morale. Rio ha un luogo distinto nel panorama della poesia calabrese (i critici lo hanno ignorato) per avere espresso
un amore
fatto di raccoglimento
di sospiri,
di dolce resa: abbandono
com’è delle cose
inavvertitamente
per una vena affettuosa.
Vita breve ha avuto Italo Galasso di Nicotera (1918-1942) i cui versi (Parva favilla) sono stati pubblicati nel 1979. In essi sono tracce di classicismo di Pascoli, D’Annunzio, Carducci, dei crepuscolari; qualche volta Galasso riesce a esprimere in modo individuale la propria sensibilità dolorosa. In Galasso predominano gli elementi letterari mentre in Pietro Pizzarelli di S. Procopio (1913) predominano i problemi dell’integralità, dell’unione tra pensare e agire, tra letteratura e vita morale (abbiamo accennato a una sua ascendenza vociana). In I parametri assurdi (1982) Pizzarelli denuncia la cattiva crescita del mondo, gli assurdi parametri del sistema, la crudezza dell’esistenza che si irrigidisce nei dogmi delle diverse società: il poeta ricerca la vita nel flusso magmatico, nel rapporto tra la realtà totale e le singolarità opponendosi all’equivalenza singolarità e interesse privato. Una poesia con tale problematica si oppone a quanti riconoscono il loro Dio in una chiesa o in un partito, in un dogma o in un mito, presupposti ideologici per la distruzione di ogni altra fede («Così con forte taglio manicheo | spaccano i cuori singoli e gli Stati, | rafforzano il potere personale | il privato egoismo e la rapina», «Con il pietismo e le mezze misure | l’uomo non si riscatta e Dio non serve», «alta levo al cielo la protesta: | fuori è soltanto brulichìo di vermi», «Dio resta profanato | da preghiere borghesi e contadine», «in Suo nome | si continua a mentire e l’uomo fa | come sempre le guerre per procura»). La poesia di Pizzarelli non è musicale, ha l’aspra musicalità interiore del pensiero che cerca soluzioni, è vicina ai ritmi di Campanella (del quale egli è studioso particolare) nella sua ricerca di integralità: «Non dividere tu cielo da terra | vita da morte ed anima dal corpo | ricreando fantasmi ed altri miti», «Per quanto tempo ancora | ci morderemo la coda | chiusi nel guscio dei nostri dogmi? | […] piegarsi ai potenti è un reato grave», «Saggezza e rabbia, quasi vecchio ormai, | squassano il petto, ma vince l’orgoglio | d’essere stato padrone di me | libero uccello di bosco», «impietoso | spezzava il cuore il ghigno dei fascisti. | Il verso mi restava grumo in gola». Pizzarelli nella sua sofferta e dilaniata ricerca di assoluto dà anche il giusto posto all’amore:
Finché traccia di affetto è nel ricordo,
piuma d’uccello nel fresco mattino,
a questo incanto tutto m’abbandono
e al tuo sorriso di fiorito pesco.
Franco Riccio di Cosenza (1923), traduttore di poesia francese contemporanea, in L’equilibrio difficile (1965), La vita con coraggio (1976), Pause d’eclissi (1979), Lacerazioni (1989) nel cantare le ambiguità del mondo moderno, le alienazioni della società è attento al linguaggio con cui esprime delusione, nostalgie e affetti: «Ti attraverso d’un tratto mentre | la scarna mano levi a salutare | e ridi con l’angoscia consapevole di chi | irraggiungibile si sa», «un affanno che logora e fa vivere | e mi tiene in spietata alternativa, | facendosi castigo e premio», «Adesso che sono rimasto fuori | dalla mischia e dispongo | di tempo illimitato, | […] Ritorna la vertigine, si ricompongono | le squilibrate stagioni». Vasta è la produzione di Rocco Cambareri di Gerocarne (1938), vissuto per lungo tempo a Santiago del Cile e in Spagna: «A Santiago sono uomo | che piange con il lustrascarpe | alle calcagne e m’umilia | e l’ispido barbone | agnello che dorme | sul lastricato di luna», «Mi è pace l’itinerario | alberato del ritorno. | Il guanciale è tra i plenilunii | che spiovono su ondulati | miei cari colli | […] Ho desiderio di lucciole», «Sette anni di umori alterni, | di sismi terraquei e di antitesi | ideologiche, di cime e abissi | d’amore, sette anni sacri | come i sacramenti e dannati | come i vizi capitali | […] Addio, Cile, brano di vita | nella mia vita gitana!», Callao, Lima, Curasao, La Guayra, Madrid ritornano spesso in questi versi come note di vita peregrinante, come poesia delle distanze e degli stacchi: «Enumero gli smacchi», «Date una rosa a mia madre, | una rosa con dieci petali | raggiera delle mie mani | al volto suo quasi avorio | […] a mia madre | piccolo sole declinante | oltre oceano, ormai | vaporosa essenza, densa | luce che lenta si spenge», «Oh il tepore del corpo | che ancora odora | del notturno abbandono. | Bellezza fuggitiva, | giovane colma – di linfa, occhi di fata. – Opime e pingua | mi dormirai in cuore | petalo, dedalo, corallo». Abbiamo citato soprattutto dai Versi scelti (1963-1982) ma nelle successive raccolte Cambareri, «sbigottito e meravigliato», «risentito e rassegnato» è spesso in contrasto con la realtà che non accetta soprattutto nella sua estraneità all’uomo: «Mi pare sopravvivere | a eventi che sorprendono, | pigro superstite tra ostaggi». Forse nessun poeta calabrese, scrivevamo dieci anni or sono, ha espresso la fatale ubiquità-nostalgia e la «saudade» in modi così moderni e in forma così sofferte:
Muore pure Iddio
in filosofia e tu e io
siamo (che imbroglio!)
cancellati, su lastricato
muore il drogato
d’attese rapinato,
muore la morte:
check-up/black-out
buio asfissia
all’esistenza mia
e tua: è l’eutanasia.
Raffinata esperienza di stile dimostra Rocco Antonio Messina di Polistena il quale canta il ricordo-silenzio (in Vetri d’aria, 1990) della realtà che gli appare lontana:
Noi siamo dentro
a un sorriso di terra
palpebre di un universo
chiuse alla notte.
Respiriamo un affanno
saturo di gelsomino.
Messina tende a smaterializzare, a cancellare il corporale o a renderlo soggetto a qualcosa che lo regola da lontano e lo riduce a inazione: albe di brume, nuvole grigie, fiotti che gorgogliano, guglie di arcobaleni, sogni nell’ombra, fiamme fatue ecc. sono immagini di una finzione, il ricordo non è ricordo del concreto ma immagini in nuvole di ruggine; perciò il poeta non sa, non spera, vive in un lucore di aria trasognata, in un anfiteatro di indifferenza, intorno a lui c’è sempre qualcuno che chiede qualcosa che non è definito, l’essenza non è, lo stesso spazio non è misura. Le creazioni di Messina sono di alta qualità, richiamano atmosfere di poesia europea metastorica e metafisica originalmente rivissute.
Messina è sradicato dalla Calabria e vive a Forlì; a Novara vive il reggino Michele De Giacomo (1938) nel quale c’è una fase onirica e una elegiaca (La parola è vana), a Modena vive Antonio Nesci che è nato in Calabria nel 1948. In Calabria vivono Giuseppe Blefari di Paludi (1956), Eugenio Nastasi, Franco Pasqua di Cosenza (1931) che in Dissolvenze (1992) trova uno stile individuale rifacendosi ai ricordi scavati, Vittorio Chindamo di Polistena (1965) poeta asciuttissimo e tagliente, autoironico e perciò critico e produttivo
(Poche frasi davvero
sono quelle che restano.
Eppur le trovi, moribonde
dentro uno straccio, messo lì
ad asciugare al sole),
poeta vero di inquietudini, di analisi terribili, di derive, di amarezze, di agonie coraggiose (il contrario dei poeti dolciastri, senza pensiero), Salvatore Paolo Putortì di Reggio (1935), Alberto Calogero di Palmi (1926) autore di La Pietra del diavolo (1975), La Pietra di Dragut (1978) e di Il fiume di Stesicoro (1984), lettore dei movimenti psicologici propri e altrui in brevi componimenti che hanno il gusto alessandrino di comporre nella forma l’ardore di passioni e di vita vissuta, del sentimento civile, Maria Teresa Liuzzo di Reggio.
Numerose sono anche le poetesse del secondo Novecento; tra quelle che vivono in Calabria ricordiamo Antonia Maria Corsaro, Gilda Trisolini, Adriana De Gaudio. La De Gaudio, di Francavilla Marittima, porta nei suoi versi elementi figurativi della tradizione popolare, motivi di un diario interiore espresso con molta delicatezza e inquadrato in una cultura che si sente vivere con colori e forme come una pittura; Licia Calarco Malara, di Reggio, ha consapevolezza delle radici crude della vita, dell’essenza biologica di «felini e uccelli, bramiti e gorgheggi», del «forte ed eccitante odore» delle linfe che portano palpiti sotterranei, del gusto «dolce amaro della vita» (in Afa del Sud, 1987); Livia Naccarato, di Aiello Calabro, in Andare e tornare (1988) alla distruzione delle forme oppone l’illusione dell’eternità scaturente dalle radici della vitalità
(ma non hanno fondo
la vita e la morte
groviglio forsennato
di morti
come di serpi
stretti l’un l’altro
in poderoso nodo);
in Cercando amore (1981 la Naccarato tende alla lirica e alla sublimazione del rapporto io-natura con ricchezza di situazioni; Clara Monterossi, di Cosenza, in Spartiacque (1991) canta in versi di preziosa abilità il divenire che è simile al moto di un cerchio:
Direzione difficile il presente:
a volte corre, come dimezzato,
su un binario di già preordinato
dove si sfasano arrivi e partenze,
Eppure, a volte, come in un sogno, sento
come colmarsi un vuoto di memoria
e poi me ne persiste un’illusoria
sensazione di acque in movimento;
la Monterossi con il simbolismo crea atmosfere magiche per esprimere il proprio estraneamento, la perdita di ogni certezza:
E non mi raccapezzo
né sull’ora né sul giorno,
c’è come la bava s’un sogno
in questa luce incerta
e in questo doppio cuore
che cerca la più idonea cesura
su cui impostare l’andatura
per il prossimo verso;
l’originalità poetica della Monterossi è indiscutibile ma i critici non si sono soffermati su di essa.
Isabella Scalfaro, nata a Bergamo (1932), residente a Catanzaro, nella dichiarazione di poetica interpreta la poesia come avventura, coinvolgimento con la realtà che solo attraverso il rapporto più intimo si può intendere, nella sua indecifrabilità; in tale avventura il linguaggio si densifica, diventa più complesso per rispondere alla «poliedricità» di un fatto, di un sentimento; la parola, perciò, è strappata «ai rivi densi del sangue, sospesa | tra il fiato vostro e il mio | a continuare il gioco» che è un gioco di vita, non di finzione; la Scalfaro ritorna spesso sulla poetica come verifica, riscatto, sonda di valori, saggio morale, reinvenzione che si distacchi dall’abitudinario ma non sfugga nell’evasivo. Da tale posizione interiore nasce la ricchezza di disponibilità verso la poesia-avventura, l’opposizione al quotidiano, all’estetismo, all’impostura del piacere, l’accettazione della «crudeltà delle cose che altro non sono | che se stesse». I critici oppongono a tale disposizione due rilievi: l’ostentazione della poetica, la prosasticità espressiva. Ma bisogna dire che per la Scalfaro la scoperta della poesia è avventura, termine rarissimo che implica anche la polemica (e i critici non amano, oggi, la polemica) e bisogna dire che lo strumento espressivo della chiarezza è fondamentale nella Scalfaro e non può essere confuso con la prosa. La Scalfaro si è scoperta e si canta; ma non è questa una prerogativa di tanta poesia femminile nuova? L’autrice «si rinventa la vita | e le stagioni nei suoi giorni di fiele | e di stupore», «Mi riprendo un cuore di carne | e dilato i pensieri nella quiete calda | del mio sangue rinato», «Avevo un basco rosso ma grige strade grige | sotto i miei passi» sono temi della poetica antiborghese, antilocupletaria, antidiota; imperdonabile se insistita, se la scoperta della poesia non è un gioco di società; ma lei, la Scalfaro, non desiste: «Non sottraetemi a questa lacerante | ebbrietà dei pensieri | finché io la consumi stilla a stilla». Il raro incontro tra una vita morale fortemente accentuata e la perizia espressiva e il coraggio di essere se stessa si verifica in questa poetessa: «Com’è pesante | da reggere questa bontà che sa d’incenso | e di cera», «I nostri volti raccontano odiosi baratti | tra l’avere e l’essere».
Amore è per la Scalfaro «rivolta», «voglia di gridare sul muso di un tiranno | parole di riscatto, di rivalsa», la vita non è abbandono delle ossa «al vischioso sciroppo di un collettivo | benessere», Natale non è quello «da vetrina» che non vede giungere alcun rinnovatore della vita umana. Abbiamo citato da Partita a due (1982). In Luna bianca luna nera (1990) è un disteso epicedio per la tragica morte del figlio giovane, un colloquio che non è solo un documento umano ma anche un esemplare letterario dell’affermazione di una presenza insopprimibile in un’altra vita
(Ora
dormi il sonno nero dei morti e nero un fiume
denso mi scaverà le vene senza argini o rive
a un rintocco improvviso di campane a un odore
di felci di muschio. Verrà Natale a regalarmi lacrime di pietra…).
Giusi Verbaro, di Catanzaro (1940), ha cominciato a pubblicare nel 1971 senza far capo a una scuola, a una disciplina, affidandosi al proprio temperamento (molto ricco e sfaccettato), volando verso l’allusivo, l’elusivo, il sogno, il «delirio della mente», verso il mito, l’altrove, l’isola che non esiste, il viaggio, l’onirico-visionario ecc.; sono espressioni della Verbaro in sue dichiarazioni di poetica-confessione. Si tratta, nei primi versi, di poesia eloquente, ingorgata di parole, in cui l’illogicità sembra voglia essere un valore, quello dell’irrazionale, della fantasia. La Verbaro non ha trovato un critico che mettesse dei paletti, dei picchetti; anzi il linguaggio torbido veniva definito «linguaggio nuovo». Lei stessa chiama «produzione orgiastica» quella del 1971 ma anche un critico incomprensibile le propone:
Razionalizzare la propria ricognizione poetica con il dato conoscitivo del reale circostante è certamente impegno arduo e complesso, ed ecco allora che il partner-interlocutore immaginario diventa il sintomo di una coscienza cartesiana, che al cogito affida gli strumenti dell’individuazione e della saggezza.
Solo Mario Sansone con un colpo di barra cercava di riportare fuori degli assoluti la Verbaro nella prefazione a Un dio per la domenica (1982) indicando che il percorso precedente era di ricerca ma non di poesia, di sperimentazione ma non di approdo, togliendo ogni preoccupazione alla poetessa intorno al pericolo del provincialismo nel trattare materia calabrese. Il nuovo libro sente la Calabria stremata: donne rimaste sole e diventate più severe, emigranti strappati dalle «tane», alluvioni che disgregano case ecc. In questi eventi tutto ha un pathos, e quasi figurativo, nella liricità non visionaria ma interiormente pacata: c’è un sentimento offeso che sembra storicizzare i fatti i quali si sciolgono in un paesaggio mitico e fatalistico. Questo piano di limbo fatale è trasceso da un’indifferenza sorda ai crudi inverni, ai gridi delle donne, ai silenzi desolati, alla morte. Il cosiddetto «romanzo esistenziale» continua in Mediazioni e ipotesi per maschere (1985) su una ipotesi di vero e non vero ma in cui più che le effusioni trovano sostanza le condensazioni:
Tu lo sai che arriva la stagione delle piogge
con i venti del nord deliranti di rabbia
e disseccate schegge di luna
sui pendii della notte
che è una prosecuzione lirica del libro precedente. Ma ritorna oracolare il tono in Utopia della pazienza (1986) in cui tutto appare provvisorio («Provvisori i passi e le impronte») perché soggetto a un divenire dirotto. Questa drammatizzazione mimetica, che non trova la sua forma e rimane convulsa rappresenta la prima fase della poesia della Verbaro, poetessa che ricerca sinceramente coincidenze impossibili; essa ha buoni strumenti polifonici ma vuole sconcertare e si fa sconcertare (altrimenti non li elencherebbe) da giudizi (!) come il seguente:
la poesia di G.V. sembra tutta agglutinarsi nel magma composito di una razionalizzante ricognizione d’un’umana avventura nella quale plasticamente si connotano di significazioni testamentarie dati desumibili da notazioni generazionali e valenze gestuali motivate da analitici impatti con resistente.
Demenziale.
La poesia di amore è un nuovo momento per la Verbaro che in Otto tempi d’amore (1989) lascia cadere le pseudo-problematiche dei primi libri e resta serrata nella concretezza lirica del sentimento che rievoca, nel ricordo che supera «la follia del quotidiano» («Mi basta per riaverti | il fiato caldo di un’estate breve | di gelsomino sfatti e di memorie»). In L’eroe (1989) lo sfondo di realtà-ipotesi è una sorta di telaio strutturale per dare verosimiglianza ambigua, per non cadere nel realismo, per formulare esemplarità e una certa solennità al «romanzo» di amore, per dare un pathos doloroso al racconto:
La sconsolata assenza del tuo sguardo
somiglia a questa luna opaca spenta
a tratti ricoperta dalle nubi.
Ti somiglia il silenzio col suo vuoto
che trema sulle ciglia della notte,
Non fu follia ma grazia
inventarti a mia immagine
darti sembianze ed ali,
Ma sei fantasma inquieto
che il desiderio non diseppellisce
dal muschio e dalle ortiche.
Tu sei perpetua assenza anche quando mi stringi
e la tua bocca si fa fuoco vivo.
La concentrazione lirica intorno al sentimento del dolore rende questo libro il più intenso ma anche in Le lune e la regina (1993) le ambiguità (amore-disamore, realtà-gioco) trovano condensazione espressiva in un lessico ironico che è l’ultima conquista della Verbaro. Qui lo straniamento è reale nel ritmo di un endecasillabo che scende dall’alto e afferra le situazioni, le domina e le illumina.
La poesia è anche questo artigianato vigoroso, questo sapere controllare col ritmo; non è l’endecasillabo del ritorno all’ordine ma della decisione interiore né qui è solo l’endecasillabo a vigoreggiare ma tutte le strutture metriche obbediscono al ritmo interiore di chi canta il disamore, la liberazione dall’amore di sé «riflessa nello specchio». Nel gioco di paradossi e di irrisione, di sfarinamento dell’amore, di frantumazione «come un vaso di coccio | che va solo in frantumi» la Verbaro è di una maturità tecnica, stilistica, che recupera addirittura testi e linguaggi arcaici con preziosa proprietà letteraria: «Insabbio la tua voce per negarti | come fa la farfalla prigioniera | nella crepa del muro», «Se tu m’avessi cara | solo per quante volte t’ho chiamato | non avresti più voce», «So che sei torre vuota | ma ti assedio: | di te non mi rimane | che un’immagine fatta a mia misura», «Ti instillo alito e senso bocca a bocca | e torno a custodirti | mio povero tesoro | in lungo sonno», «Cade giù dalla luna | l’ampolla che reggeva | punteggiato di lumi | il tuo ritratto», «se ti fermi subito ti prendo | ma poi ti lascio, sai? per troppa noia | ché la corsa mi ha già tutta sfiancata». La «impura» (così diceva Pomilio) ganga lirica carica di conglomerati della prima Verbaro non esiste in questo libro di effettivo valore poetico che supera i limiti della regione; in esso c’è anche il rispecchiamento ideale della molteplicità della personalità di Pessoa, via tecnica (la Verbaro tra i poeti calabresi è l’unica ad usarla) per compiere il viaggio verso la poesia europea.
La raccolta complessiva La vita divisa (1992) comprende l’attività produttiva di Gilda Trisolini di Reggio (1924), oltre un trentennio di esercizio che non ha ceduto al crepuscolarismo, al limbo di una falsa condizione umana ma ha sempre affermato con vigore la presenza individuale lirica di voce alta. La Trisolini ha tenuto presenti i grandi modelli e non si è perduta nell’historiola (lo specchio è, nelle prime poesie, Saffo; in Viaggi si sente la lezione della Florio): se mai, può esserci un eccesso di orfismo e di letteratura (il ricordo di Calogero c’è come emblema) ma nei momenti migliori la Trisolini dimentica le ascendenze e i ritmi altrui ed emerge con voce personale:
Cade lontano l’amore
tra i tuoi passi e me.
Il tuo sguardo si posa
su una guancia, s’intorbida
su un sorriso
che non mi appartiene,
Ora ch’è notte
tu vivi come me
della solitudine di echi […]
La vita fu uno schermo
agli occhi che legano te alla nube,
al caldo sapore della rosa.
Si leggano anche i versi (di altri poeti non esistono) sulla città perduta, quella sommersa nel cemento, quella in cui
il mandorlo
di sera si schiudeva nel vento
e rincorrevo quelle voci di bimbi
a rimpiattino sui fossi.
Alla poetica del neo-realismo e alla poesia ha dato buoni contributi Aldo Dramis di S. Giorgio Albanese (1926). Dramis muove dalla realtà sociale calabrese e dal mondo contadino, dall’insita drammaticità di quel mondo di sofferenza per rappresentare una realtà difficile, personaggi che hanno radici lontane le quali affondano nella storia della regione. Così in Io tomo al Sud (1957), Poesie nuove e vecchie storie (1972), Calabria ’75 (1977), Storie contadine (1989) c’è una costante asciuttezza di intaglio che caratterizza questo poeta ben diverso dagli effusivi e dai lirici intenzionali.
Dell’incontro con la poesia nuova del Novecento, da predilezioni ad interim montaliane, ermetiche, neo-surrealiste nasce il mondo poetico di Antonio Piromalli di Maropati (1920) sul quale riportiamo i giudizi di un critico (da Poesie, 1945 e, accresciute, 1961 a Sei tu il bolero, 1991, ampia scelta antologica, a Ti estraggo dai tifoni, 1994). Così Renzo Frattarolo:
Antonio Piromalli è una delle voci più moderne del dibattito culturale italiano, studioso attento ed esemplare per la coerenza delle idee e per la fedeltà ai princìpi metodologici ispiratori delle sue ricerche storiografiche che gli consentono di spaziare in un vastissimo arco della nostra letteratura moderna e contemporanea con rigore critico.
Mosso da più decise e stimolanti simpatie s’è rivolto, certamente, e con dilettosa passione, a un Ariosto, a un Bertòla, a un Parini, in studi di cui non va taciuta l’importanza; ma anche un Pascoli, un Fogazzaro, un Gozzano, una Deledda, per non dir d’altri, letterati del secondo Novecento compresi, sono stati ugualmente fedeli, direi quasi, suoi «compagni di strada» con i quali ancora un colloquio rimane aperto e naturale.
Uomo, per questo, di studi severi, i quali son ragione morale e spirituale della sua esistenza, e sempre volto a illuminare non solo la letterarietà dei singoli ma più i valori intellettuali e l’accento poetico e pure, senza dubbio, lo spirito di un’epoca, Piromalli, fedele com’è al suo temperamento di scrittore visivo e di memoria, non poteva a un certo momento non rendersi conto di una sua intima verità rivelatrice di una determinata posizione di gusto delineando quasi una storia ideale di una sua precisa educazione letteraria egli stesso collocandosi nel filone di una poetica di raffinatissima cultura accesa da una fantasia creatrice aperta a tutte le infinite e segrete suggestioni della poesia moderna. Ha raccolto così un bel gruzzolo di poesie, quante in gran parte rappresentano tutta la sua esistenza poetica dal principio ad oggi, riprendendo qui antiche tonalità liriche di un suo volume del ’45 e di un altro del ’61 e aggiungendovi le più vicine nel tempo in una continuità che ci offre con concretezza la misura di sé poeta: una misura di riguardo, come è quella di Piromalli saggista.
Ritrovandole in questa edizione si vuole ancora dire, delle prime, quanto siano affidate a una tesa intimità della parola raccolta nella ottimale fattura ritmica del verso: poesie che, se pure par di scorgervi certo riverbero alcionico, più sono infiorite, qua è là, di una espressività montaliana che man mano si dilegua, pare a me, in un composito impasto tutto suo non senza una libera sintassi metrica incastonata in un evocativo neo-classico sullo sfondo di una sensibile malinconia crepuscolare. Probante, fin da Penombre e Serale, l’atmosfera di un recupero memoriale, tanto aderente alla commozione del poeta quanto più gli risveglia momenti di vita; e certo la trama mnemonica si fonde alla dignità interioristica della poetica della parola che concede al paesaggio uno scoperto abbandono sentimentale con la intensità fonica di un parlato dolcemente confidenziale che trova attimi di stupore visivo nella accensione di amorose elegie con l’intima partecipazione di un caldo sensualismo e di accorati trasalimenti, ai quali fa eco una composizione di immagini-ricordo ove si specchiano volti adolescenziali di palpitanti figure femminili immesse nel lirismo della ispirazione paesaggistica e stagionale. Ma nei documenti poetici di questa raccolta, dove il dato esistenziale di stati d’animo e di sensi ottici si rivela particolarmente significante, non può sfuggire certo diarismo non esente da un operante didascalismo del fatto lessicale, in un alone di contrappunto metafisico che si trasporta in un, se posso dire, magismo verbale, o cala nella reinvenzione della parola. Per esempio: «Novembre, il tempo rabbrusca. | Ulivigna avanza Varia. | E le labbra si sfogliano. | Tra il bacchiare dei rami. | Che sbalascio di spari. | Oloturia di calde acque di coralli | finita tra sargassi e strongilure», ecc. ecc. Vi si coglie, oltretutto, un qualificante impegno impressionistico-descrittivo di lussureggiante (avrebbe detto Contini) immaginismo a mezzo tra tradizione e spontaneità lirica.
Scontato, naturalmente, l’altissimo filologismo di Piromalli e il gusto stilistico-grammaticale che talora lo porta a un ripiegamento prosastico, pur di grande effetto comunque, nell’organico dell’atmosfera poematica come, mettiamo, in Tropico del ’56, in Ninna nanna del ’60 (ma includerei anche Parole dell’87): formula […] formale di scavo moderno in incisivo linguaggio che impreziosisce, mi pare, il clima espressivo e il simbolo memoriale dell’altre poesie. Tra cui piace ricordare la vitale trasparenza di Elegia per ragazza padana, Versi per ragazza di Romagna e Versi per ragazza giuliana, dove il fatto privato diventa, appunto, elegia. E piace ricordare certi scenari di paesi e di mare, di strade e giardini, di cieli e di albe e notti di luna, temi di canto, come gli estremi dell’incanto amoroso e dello smarrimento panico, che accentuano l’avventura del suo sentimento.
Una poesia che sta nel quadro della contemporaneità come una delle cime più alte.
Di un gruppo di poeti nati negli anni Trenta e variamente atteggiati nei confronti della neo-avanguardia Gregorio Scalise di Catanzaro (1939) e Giacinto Di Stefano di Vibo Valentia hanno scarsissime radici calabresi in quanto il primo ha vissuto infanzia, adolescenza e il resto della vita a Udine, Trento, Bologna e il secondo (di famiglia catanese) dal 1947 alla morte (1995) ha lavorato a Piacenza. Scalise ha nei poeti degli anni Settanta la sua tradizione, la sua ideologia letteraria che vuole frantumare l’esistente per trovare la realtà nel caos del magma artistico. Ciò avviene in Scalise in una forma di magismo, di gioco dilettante e leggero, di creazione di bolle di sapone destinate a scomparire ma che suscitano un breve incanto che inventa le cose col solo nominarle. Tutto è soffiato e diventa smaterializzato, scivola (la poesia «non è atto di dolore: | non si comprende quest’aria | se non con l’ombra delle cose», la frase «si dispone secondo leggi | dell’opera interna | premeditando nella sua struttura | un disegno di insieme»), il poeta si ritrova in equilibrio nella precarietà inventata, nella soluzione epigrammatica. Da A capo (1968) a La resistenza dell’aria (1982), Danny Rose (1988) Scalise (che si occupa anche di teatro, cinema, arti figurative) cerca di ricreare il reale in modo illusorio.
Giacinto Di Stefano è molto conosciuto in Italia settentrionale, pochi lo conoscono in Calabria. Il Di Stefano ci sembra una delle voci più vere della nostra regione. Della Calabria il ricordo è amaro (Capodanno: «Mia madre | stava zitta | dietro i vetri | e forse | piangeva»; di coloro che nell’infanzia rappresentavano la «bella epopea» «i furbi si sono travestiti | i deboli rassegnati»; «Quando sono lontano | la sento rinascere come gramigna | tutti i pensieri») e a ogni ritorno «è questa triste allegria | per le apparenze provvisorie», il paese è «cimitero di vivi | irto di lapidi e chiese | […] dove ora torno come | a conversare coi fantasmi» e «i vecchi amici parlano | un gergo indecifrabile e | mi considerano un estraneo. | Qui non potrei restarci | se non per morire».
Di Stefano è poeta amaro:
La sola cosa che resta
è questo tedio
di cose morte
il disgusto
dell’immortalità;
è lui
questo male
che detta i miei versi
che dà un senso alla vita
che mi fa compagnia.
È amaro perché interpreta i casi che succedono: «la vittoria sofferta | dell’Undici azzurro» (quale evento!), «l’accorato appello del santo vicario», «Dal di che nozze […] | si scagliano solo armi gentili di pandette | e bombe e razzi e la diossina e il laser […] | e i morti | non si mangiano»; e sono casi che coinvolgono: «appresi | che possedevo finalmente un impero | sui colli fatali di Roma, un posto | nel sole» ma si ritrovò «in cima a una casa scoperchiata | fra ritratti di morti, la muffa | e un ammasso di macerie bruciacchiate». Per questo è stato costretto ad andare in «una terra dove non abbiamo radici | e la nebbia ci offusca i sentimenti». Questa poesia è impietosa, virile, scabra, non socioelegiaca.
Sopra una cetra di corda
orchestro il mio canto
che non fa eco, perché la voce risuoni
bisogna urlare sopra una croce
o davanti
ai fucili puntati;
ai vivi bisogna parlare «senza rime né tropo»; l’infanzia è d’oro ma «non m’avvidi del complotto infame | che si ordiva nell’ombra» e il poeta si farebbe
mozzo di mare
su navi che vanno lontano
e non ritornano mai
dove c’è acqua di pantano
poiché nessuno che ha voce brandisce «penne spuntate a sostenere | una causa perduta». Se a De Amicis la madre a sessant’anni appare bella Di Stefano, invece, scrive:
Non eri bella, Madre, a sessant’anni,
che avevi partorito venti figli
e allestiti diciotto catafalchi
usando spesso gli stessi lumini. Poi
avevi fatto a pezzi le gramaglie
e indossata una maschera d’amianto
e se pioveva «tu sprezzante seguivi ombre sul muro | animate da una stearica di sego» mentre imperversava «l’acqua dal tetto in stillicidio | dentro cocci e barattoli smaltati». E quando arrivarono gli aerei che bombardano «ti mettesti a urlare forsennata | con pianti e pugni | fin sui quadri dei santi». Poesia come questa se ne scrive poca in Italia, saggisti che si occupino di questa poesia non ce n’è uno. Oggi, scrive Di Stefano i tempi sono cambiati ma «comune è la sorte dell’uomo che si apparta | ch’è dannato a sbarrare occhi in solitudine» o si aggrappa a fili d’erba «a evitare un abisso che sgomenta | eppure attira e chiama | da inesplorate immensità». La Calabria è terra dannata («Nel nostro universo | c’era un albero sghembo | e intorno una cresta di case») ma (sembra il mondo pittorico di Enotrio)
noi soli sappiamo inventare la vita,
edificare castelli di polvere
tra gorghi di vento,
attendere un treno a ogni bivio ignorato
e partire restando.
Qui dovrebbe fermarsi, dove «il silenzio è come un’ira che rimbomba» «ma di doveri delusi è lastricata la via | del mio sterile pellegrinare». Nel Sud «discriminato in divise e livree | in amare certezze e smarrimento» il poeta ritorna senza speranza:
I vecchi baroni
hanno gettato alle ortiche le maschere
dopo la farsa della fratellanza, ora
predicano il verbo legale a viso aperto
in paradigmi d’ordine e patria
e «dentro il teatro gremito | facce dipinte di bistro e serietà».
Le grandi speranze in Calabria sono cadute e ora «controvento agitiamo la protesta, e la memoria | è una ferita che non si rimargina». I componimenti familiari hanno un tono virile come non accade nella lirica del genere che è solitamente elegiaco-pietistica; al padre morto, «ombra crucciata»:
Dispensami,
te ne prego, di fìngermi figlio-pentito, non dirmi
che sei pronto a perdonare: è più giusto
riconoscersi uomini
che gli eventi travolsero, velleitarie
comparse più che autori di scena;
al fratello andato a morire su un’amba africana: «il caso | ti volle dalla parte sbagliata | controvento alla Storia»;
Fratello, io spero che quando indugerà
trepidante il mio passo nell’androne del buio,
pronta io trovi la tua mano a stringere. Ti dirò
della mia solitudine, e stupirai, forse,
nell’udire che l’uomo è sempre solo
se la coscienza lo disarma;
la morte è «l’aborrita vendetta | dei nostri giorni vili»; a Rico poeta da rimario la scuola non insegnò
mai l’ira, la gragnuola
che non pestò le aiuole del giardino
e resistette il tetto della casa […] Così
preferisti trescare con le muse, deprecando
il folle ardire degli iconoclasti;
a Elisabetta «bellissima sfinge dagli occhi verdi | coetanea di scarsi talenti»:
consentimi
di conservare di te un ricordo straziante:
un composto sembiante tra gigli e garofani rossi
nel declinare dell’estate;
a un vecchio libro desiderato:
ora che ti possiedo in edizione di lusso, ora
sei inutile come un sasso di greto
nella valle deserta dell’esodo, come
un grillo stecchito tra resti di stoppie
dopo la vampa dell’estate;
a Lorenzo dichiarato disperso in guerra: «io | ti sento come una parte di me che sopravvive | alla catastrofe dei sogni»: spero che «il mondo ascolti | la tua giusta protesta, e al fine spezzi | la lapide sul cippo che ti addita | come un esempio da imitare»; a Rosa sodale nell’antifascismo:
Cadde il feticcio e fu arso
tra ghigni e sberleffi tardivi. Noi
restammo ancora in disparte, come nell’orgia-imperiale;
poi salimmo decisi su un treno
verso la nebbia e la bora senza voltarci più indietro:
ora
abbiamo una casa e l’automobile. Eppure
ancora rimane tenace il segno alla radice,
il ricordo di quanti rimasero
a rivoltare e a ridipingere
la vecchia livrea dell’hidalgo decaduto;
ad Alberto il poeta raccomanda di non affliggersi per la sua impenitenza:
starò meglio,
credo, tra i reprobi, ad urlare in eterno,
indignato, verso la casa del Padre,
se il Padre davvero dà asilo e conforto
ai suoi patetici vicari;
nel Sud è un’angoscia ritornare perché «si è tutto contratto, imputridito […] | non c’è sguardo amico o che non sia ostile» e quando si scende nel Sud si riesumano «panni di clown allenato», «stridore di ruote | gabellando vittorie come teste recise», ci si mostra degni di un Sud
che rivive
per noi la sua illusoria giovinezza: siamo
la sola forza strabocchevole che resta,
a puntellare la diga che l’orda respinge e il grido
spento e aggrumato dietro un pallido sorriso
ma
A voi che siete rimasti
a lustrare le facce di bronzo delle statue […]
a voi tutti io dico
ch’è prossima la grande rimpatriata.
«La Valpadana si mostrò benigna | verso i miei mali», qui
io tolsi udienza ai vecchi miti
e li lasciai crucciati ritornare
alla mia terra senza tempo […]
credetti
ch’è davvero dove tu mangi, la tua patria
[…] E andammo, puntualmente, a ogni feria
a far vedere la vettura nuova
la moglie con gli anelli e i cappellini
e i figli paffutelli, inguainati
in stravaganti vestitini;
a farsi ascoltare dai compaesani tranne che da coloro che «hanno acquistato ville e fuoriserie | ed inventato per seguitare a ridere, | una nuova realtà»: «Ma non c’è sasso di fiumara | non c’è muro né strada | che pare riconoscerti […]».
Abbiamo dato solo una pallida idea, con le citazioni, della ricchezza di questo poeta che in Calabria è stato recensito da Liberti, Trisolini e qualche altro ma è sostanzialmente sconosciuto nonostante una diecina di libri di poesia da lui scritti; ma si tratta di poesia significante, lirica, discorsiva, che nasce dalla interiorità e da una dialettica Sud-Nord che non ha eguali nel panorama di oggi, poesia non retorica, forte e di opposizione alla mistificazione e alla vanità.
La critica ha dimenticato Vincenzo Marvasi di Rosarno caduto a El-Alamein, autore di Medmea (edito intorno al 1937; l’autore firmò con lo pseudonimo di Tersite), poemetto eroicomico su un aspetto delusorio della realtà regionale, le lotte tra paesi. Qui si tratta della lotta tra i ranocchi che abitano un luogo pantanoso (Rosarno) e le zucche che vivono in cima a una roccia (Nicotera). Per secoli i due borghi sono stati in lotta per la definizione della sede di Medma, colonia greca dei Locresi; perfino Vito Capialbi scese in lizza sostenendo bizzarramente che fossero esistite due Medme. L’operetta, che ha i soliti indugi burleschi del genere eroicomico, è stata esaltata da Natalino Lanucara, amico di Marvasi e autore di un romanzo burlesco, La città delle corti e di uno studio su Diego Vitrioli.
Poesia di testimonianza interiore eppure schiva, contenuta nella misura dello stile, lontana dalle effusioni slavate e impudiche di tanti narcisi è quella di Salvatore Lazzarino di Gallico. Il poeta ha notevole cultura classica che serve come filtro della sua sensibilità attenta a registrare le note morali del costume dei giovani degli anni delle rivendicazioni, il sentimento di amore quasi sempre sfuggente o perduto, l’aspirazione religiosa. La cruda gioia (1969) e Viatico di grazia (1990) sono le raccolte principali in cui la parola è parola di verità, di accenti seri sia che tratti della fragilità dello stato umano sia del proprio «silenzio di pena». I modi quasimodiani sono quelli prediletti per esprimere il sentimento religioso
(allora saprò che il mio tempo
non avrà più domani
[…] nulla di me resterà
tranne l’essenza del mio esistere
e il ricordo soave
del mio patire.
Dall’amore del mito e della parola che si trova in Alfredo Di Grazia di Lamezia Terme (1934) nelle raccolte Ore di Clio (1968) e Parola marginale (1986) si passa, nelle gradazioni di toni, alla ricerca morale attraverso uno stile individuale in Alfonso Cardamone di Paterno (1939) che vive a Frosinone dove dirige «Dismisura» e preferisce nella sua curatissima attività la fiaba moderna, l’epigramma, l’animalistica dei vizi; voce forte e di opposizione è quella di Demetrio Calafiore di Reggio, prematuramente scomparso, autore di La terra rossa (1968) e I pareri discordi (1971); alta e con accenti campanelliani è quella di Italo Palmieri di Gizzeria (1935).
Volontà di dire il vero più che di esprimere bellezza, di non mascherarsi negli equilibri passivamente ricevuti o nelle deformazioni del reale troviamo in Carlo Cipparrone di Cosenza (1934) autore di Le oscure radici (1963), L’ignoranza e altri versi (1985) e che predilige le forme prosastiche a quelle liriche per meglio sperimentare il valore della comunicazione e del colloquio. Di Cipparrone sono importanti le premesse autobiografiche, semplici, che non sono parole di poetica (il mondo intenzionale, secondo lui, raramente trova riscontro nei risultati) ma di riflessione: pervenire a una maggiore conoscenza della realtà, non cedere alle mode (per le quali si scrive un libro l’anno: caduco e inutile), esprimersi «con parole il più possibile semplici e aderenti alla realtà». Effettivamente non c’è cosa peggiore per un poeta che parafrasare gli eventi, descriverli con alone, fare il giornalista in versi. La poesia di Cipparrone non ha enfasi né le fastidiose impennate pseudo-liriche del sentimentalismo psicologico meridionale spesso privo di pudore; al poeta piace l’andatura dimessa, quasi prosastica ma che scava nella realtà e nell’interiorità e anche i surrealisti quando vollero ricostituire il reale predilessero il vero alla bellezza, eterna maga della nostra tradizione: «Pur volendo | non riusciamo a parlare terra terra, | dire pane al pane» perché è una cospirazione intellettuale quella di parlare in modo criptico (gergale, chiuso, da setta). Manca «il senso profondo della terra» che richiede lentezza e pazienza («Basterebbe pensare a come | lentamente essa matura i frutti | per sentirci suoi figli, | fatti della sua creta»), rinunzia agli errori acquisiti, alle proprietà consolidate (tutte: «poiché noi non tiriamo che le somme | di ciò che è già nell’aria» e non è giusto apporre la firma d’autore che congloba presunzioni e abusi, crea arroganze). Cipparrone demitizza le sublimità dell’ispirazione; il progetto poetico consiste in «sviluppare l’idea, sintetizzare il concetto», poi la materia «in quello spazio trascurato | più agevolmente agisce, | cresce, si fa grande»; la bellezza può nascondere gravi mende:
Gli eleganti prospetti
rivestiti di ceramica
coprono frodi pregresse
[…] e reati peggiori (corruzioni,
sfruttamenti, evasioni, morti bianche) e
anche il contenuto morale non può essere semplificazione morale perché l’angelo del bene che protegge dal male deve albergare nella mente «sporchi pensieri» e «pattume» perché «la purezza ha un passato-chiacchierato, fiorisce | da un cumulo d’immondizia». Questa poesia essenziale, profonda, che fa pensare, antilirica, rara, smascheratrice, virile è stata giudicata favorevolmente da intenditori quali Manlio Dazzi, Diego Valeri, Nelo Risi e V.S. Gaudio.
Voci aspre e non liricizzanti sono quelle di Carlo Alberto Augieri (1949) di Cosenza e Elio Stellitano (1951) di Reggio. Augieri è uno sperimentalista pasoliniano che ricerca il «diverso» in Skarnificazione (1978) in cui c’è la frequentazione dei sotto-linguaggi, della parola come suono significante, scomposta e ricombinata in prefissi, suffissi, desinenze per creare termini nuovi; la scrittura come «segno» è criticata per potere giungere a una sintesi tra lingua scritta e fonismo:
per calco il t/uo Korpo
di mapre alla Bruzia
per petto pro/pilene di minne
succhia si butta
l’in/fante-al/meno il per cento;
il divertimento non è ameno.
Elio Stellitano, un medico reggino vissuto a Padova in anni di turbolenza, pubblica Lo sperma culturale (1986) in cui è il succo poetico di un profondo ragionamento sulle ideologie, sulle cristallizzazioni del pensiero e della coscienza: la didattica baronale fatta di coordinate, variabili, percentuali che ha il nome di scienza senza la minima capacità di operare per un progresso diverso da quello industriale; il filosofo religioso che medita come gli Esseni e prega per non turbare la propria serenità; la rivoluzione che si fa con le scelte di vita dura (emigrazione, povertà: chi ricorda gli artigiani e contadini calabresi che in dialetto espressero la loro rivoluzione?); il fabbricante di cultura con pezzi di scarto per paura di incidere sul reale e che si riduce a fornicare con semiologia; con la memoria di speranze deluse da viltà il poeta si guarda intorno: «Con ali insanguinate sto planando | sopra questa città colma di mostri», esperto che il lamento meridionale è una inutile forma di restaurazione, di dissociazione da chi veramente lotta:
La moglie del tiranno nel porcile
della Storia falsi cospiratori
inganna. Ma il Potere resta sulla canna
del fucile,
«Ed ora lo Zoo | di Berlino è vicino». La poesia che non nasce dalla volontà di cambiamento è inutile, la poetessa che allinea, prima di scrivere, versi altrui è una disonesta:
Scrivi intingendo il calamo
nello sperma versato.
Versi di umor segreto
diversi perché di talamo.
È un segno dei tempi mutati come Ibico che non vive più nel tempio di Hera Lacinia ma sulla strada «fiuta coca taglia eroina».
Stellitano in Cronache del mesozoico (1987) sente che i barbieri attesi come assediatori erano già entrati nella città umana fin dal «tempo medio». Nella storiografia letteraria questo tempo di dogmatismo, di diavoli, di roghi, di ignoranza è stato esaltato dai romantici reazionari, dai sostenitori di un umanesimo devoto (della soggezione, della rassegnazione, della restaurazione) perenne; c’è stato anche chi lo ha proposto come primum di civiltà, radice della cultura latina conservata da esso. Stellitano poeta civile vede che un «tempo medio» c’è sempre stato, come aveva detto De Sanctis, sempre, dentro la nostra storia: le scorie adesso sovrastano l’Italia, i gironi delle malattie la circondano e la fasciano, le connivenze mafiose la rendono inguaribile:
C’erano i soldi e c’erano le pistole
col numero di matricola limato
c’era il delitto c’erano le prove
c’era il colpevole: era un magistrato.
Ovvero il progresso è messo in opera dal crimine:
Morte da impulso radio
il crimine s’aggiorna
fra progresso ed eccidio
il conto torna.
La perfezione avanza: «La strage cominciò dai caporali […] | Ma quando si trattò di generali | la cupola cambiò la strategia». La cupola domina la città, la città si sente erede di antica gloria magnogreca e vive il tempo di attesa ricantando l’elegia defunta:
Quasimodo tradusse l’elegia
greca? Della stirpe dei vinti
ingenui eredi noi perciò convinti
ancora siamo di possedere poesia.
La elegia continua a fiorire mentre si sponsorizzano conflitti in medioriente, si programmano golpes [plurale?] in Sudamerica, la violenza viene giustificata col pretesto che i sopraffattori potrebbero a loro volta subire violenza per cui è bene che abbiano posizioni di privilegio e occupino nuovi territori, cittadini innocenti vengono uccisi con licenza. Elegia è anche fingere di difendere i cucchiai grecanici, la tarantella alla festa e non scomporsi per la uccisione di Aquino, di Sabra e Citatila, del Cile mentre «un timer segna già l’ora in cui fare | esplodere un treno in galleria». A questa realtà violenta corrisponde la finzione: il genere letterario (l’elegia) finge il sentimento, lo stilema obsoleto (la retorica) sublima l’ira. La mancanza di cose vere genera sogni vacui, culture essiccate da rivivere proiettati verso il passato senza possibilità intellettuale di cogliere i messaggi e i codici interpretativi del presente. Gli antichi vogliono parlare e vivere con gli antichi («Ora siamo come gli scorpioni | dopo che fuggirono dai mari»), la loro è paleolalìa: «Nel Quaternario sarà la soluzione | futura del meridionalismo». Essi non sono più Africa ma non sono ancora Europa, vivono nella protostoria attendendo «la glaciazione prossima ventura». La realtà della città deprecata è quella della «logica assurda perversa», dei sequestri, delle «famiglie» particolari, città che «ricicla violenza e folklore | usura la socioelegia».
Scrivere poesia in un clima non contemporaneo, di «morte e terrore» in cui «la soluzione dei problemi ha canne mozze» è una provocazione perché poesia è vitalità, comunicazione attuale. Il libro di Stellitano ha come sua cifra l’ironia, modo critico di porsi di fronte agli avvenimenti, chiave di lettura dei mascheramenti, superamento del cordialismo lirico del poeta che si imbroda di nobilitudini e non muove un dito per intervenire sulla realtà. Stellitano è una voce autentica (non un falsetto); autentica nel senso che ha il linguaggio originale e moderno che istintivi, cordialisti non hanno. La tecnica moderna lo pone tra i migliori poeti della Calabria e alla pari di quelli delle altre regioni.
Corrado Calabro, nato a Reggio nel 1935, ha cominciato a pubblicare i suoi versi nel 1960 (Prima attesa), sono seguite le raccolte Agavi in fiore, Vuoto d’aria, Presente anteriore, Mittente sconosciuta, Deriva, Vento d’altura fino alla raccolta completa del 1992. Una potenzialità psicologica e artistica compressa si libera nei suoi versi. Per il poeta ciò avviene «inaspettatamente», per ispirazione. A noi pare che l’esuberanza artistica, nel significato positivo, sia il dato di una dialettica naturalistica – il mare Ionio, il paesaggio dalle colline al mare –, il primum dell’attività poetica di Calabro. Una intelligenza ampia e lucidissima ha, poi, elaborato quei dati con felicità estetica dovuta anche alla distanza dell’autore dal professionismo letterario. Fin da principio Calabro nuota alla grande in quel mare così poco letterario, un mare visto da un esploratore dei fenomeni della «occhieggiante lastra di cristallo». La fenomenologia non è, però, semplice descrizione, il poeta vive con essa, con fondali, correnti, folate, respiri, sabbia; essa diventa anche espressione dell’essere, la fisiologia marina oltrepassa la fisiologia individuale: nessun poeta calabrese ha mai personalizzato il mare come Calabro. Il lontano modello è «Mediterraneo» di Montale ma i ritmi del Calabro nascono da una diversa partecipazione. Il mare diventa metafora nelle poesie d’amore; è peso di angoscia che grava su un amore carico di sofferenza per l’alterità della persona amata, è sensazione di deriva, è fine della speranza di poter vivere in armonia: «Muto e pallido è il mare | tumefatto dall’alba, | tra riva e riva teso senza un’onda».
C’è un mare che sembra parlare da un’insondabile distanza, un mare lago di rugiada con lame di spiaggia, con estuari di torrenti disseccati nei quali d’istinto si riconosce un’immagine esistenziale: «Ingoiato per sempre | nella terra porosa è il mio passato».
La donna appare, come «una nuvola fredda | che in un istante è grande quanto il cielo», mutevole, non possedibile, esistente soprattutto per i segni che proietta. Quando essa è visitatrice rimane straniera (si veda una delle migliori liriche, La luna nel pozzo) e non potrà avvertire l’acqua del pozzo elevarsi, al passaggio della luna, «come se risentisse la marea».
Mare e donna sono due metafore della inconoscibilità dei singoli in quanto tali e della necessità di una relazione, di una circolazione per giungere a un approdo: «di te io so quello che ne sa il vento».
Perciò l’immagine della donna è senza volto, è desiderio di acqua che si sollevi come l’erba fitta che cresce, come le giornate che si allungano, la terra che si riscalda con tutte le conseguenze di relazioni fenomeniche che ne derivano. Questa suggestiva e originale metafora fa parte di quella ben più ampia, di significati, del filo di Arianna, il solo che l’uomo può filare per conto suo:
Non dimenarti e non dare strattoni;
più si conficca e più fa male l’amo […]
e quando un giorno ne verrai a capo
lì troverai che il filo è terminato.
È questo il punto più alto della poetica di Calabro trascendente le funzioni delle persone empiriche fondate sulla rispettabilità borghese e sui ruoli precostituiti, come nel componimento Perché la borghesia.
Rosso d’Alicudi (1992) è il nuovo libro di poesia di Corrado Calabro. Carlo Bo sintetizza nel mare come ritorno alle origini le tensioni private e pubbliche (talvolta disperate) del poeta. Il mare è, in definitiva, immobilità, impossibilità di penetrare nell’essere i cui aspetti sono di crudeltà, al pari delle manifestazioni psicologiche (particolarmente quelle femminili); la poesia non è consolazione, è sguardo sul «vero» (destino, condanna, «altro» dall’apparente). Anche per noi il mare di Calabro era una metafora, traslato dell’amore, della lotta, peso di angoscia che grava su un amore carico di sofferenza per l’alterità della persona amata, sensazione di deriva, fine della speranza di poter vivere in armonia. Il mare sembra parlare di una insondabile distanza in cui la donna appare come nuvola fredda, esistente soprattutto per i segni che proietta.
Nella poesia di Calabro il mare è misura (non lieta, cruda), gli occhi della donna sono specchio d’acqua irridenti, l’amore non potrà mai raggiungere le tenaglie a perpendicolo del sole, tutto è disseccato. È qui la sofferenza, l’incapacità di adeguare alcuna bellezza o alcuna forza a quella della metafora marina. Il viso amato è come un sasso, l’individualità persiste nella sua «forma» prefissata, «un uomo è incapsulato nel suo ruolo», è impossibile succhiare acqua profonda da una creatura. Questo è il punto più alto della poesia di Calabro, originalissimo nel quadro della poesia contemporanea in cui la meditazione esistenziale è assai banale, egoistica, non problematica, misticheggiante.
Il mare è un rischio perché la sua immobilità-eternità fa apparire ridicole le mosse umane, come il far segno di nuotare, il tentare. La condanna è questa: la non autenticità. La donna levigata non si può scalfire, l’enigma della bellezza è una ambiguità, un possesso ne richiama un altro, l’assenza dell’amore è secchezza, è una vela riflessa su una vetrata, «la saldatura avviene solo in sogno», il determinismo annulla la creatività («nella terra porosa è il mio passato»), la politica è piena di individui «pidocchi» ecc. I segni dell’impossibilità sono in questa poesia innumerevoli, e inquadrati nelle situazioni della vita contemporanea.
Il risultato più positivo, dal punto di vista artistico, dell’incontro con la cultura della neo-avanguardia si ha con la severa, rocciosa, umanissima poesia di Anna Borra (1933-1991) nata a Catanzaro da madre calabrese e padre umbro. In una frattura di tempo (1976) è il libro poetico di un materialismo monistico lucido e scientifico che si ispira certamente a un sentimento cosmico universale ma a nessuna relazione mistica come in Onofri o altri poeti della prima grande avanguardia novecentesca. Il quadro di questo universo è fisico-matematico-biologico, le passioni sono gridate in modo lacerato:
vivo questo mio tempo
chiusa dentro un triangolo
dai lati uguali;
ogni angolo è un giorno
ieri oggi domani
ITERAZIONE infinita;
è un felino tranquillo
la sera che viene:
ci guarda con occhi di gatto
le iridi sono due LAME
che frugano l’oggi
e l’aspetto del cosmo;
ripiegata su me
avvolgo il mio pensiero in mille spire
come una biscia presso un sasso
desolata
agli occhi dell’uomo che non vede.
Poesia è conoscenza nel magma della materia e dell’essere, il sistema è quello cosmico sentito come respiro al quale non si adeguano i negatori della vita, coloro che vivono tra convenzioni e ipocrisie. La Borra vive la primavera della contestazione come liberazione, disprezza l’idolatria delle cose, le nuove scienze accrescono la tensione di amore verso gli altri, la solidarietà verso i non dotati, i mancanti, i disabili, gli esclusi, la rabbia contro le discriminazioni. Nessun poeta della contestazione ha sciolto se stesso nel movimento come la Borra che è lontanissima dai giochi intellettuali della neo-avanguardia elitaria, ha un linguaggio energico e pietroso, campanelliano e crede veramente che sia possibile una palingenesi.
In Quoziente intellectivo (1979) l’elemento sensoriale dà spazio all’emotività del vissuto, all’autoanalisi, allo studio dell’anima. È un nuovo tipo di donna-poeta la Borra, lontana dalle consuetudini della femminilità tradizionale e portata, invece, a vedere negli altri – soprattutto nei vinti (è questo il suo grande apporto, insolito nei poeti vanitosi e narcisisti) – in coloro che non hanno il quoziente intellettivo delle normalità ufficiali, i veri compagni. Ai trionfatori senza amore oppone la ribellione:
anche la pietra si scalfisce
se la bombardano acqua sale
con furia disumana il vento il tempo
lapidata
sotto quel mucchio di sassi
lanciatimi contro
sei tu che rimani senz’ali voce respiro
non io;
io amo la VITA
proprio quando da me s’allontana
nella luce violetta
di un tramonto d’amore solo mio
e allora: io sull’IPPOGRIFO
tu nel concime del pianeta
io inizio tu fine
la terra è una croce capovolta;
più facile
che il cuore qui dentro nello sterno
cessi di ritmarmi il tempo e poi scompaia
sotto bulldozer come te impietosi
prima che si distacchi la materia
fatta d’acqua d’amianto di terra
di questa delusione.
L’ultima parte di questo denso altissimo canzoniere è la ministoria di un transfert negativo di un’esperienza viva.
Natino Lucente di Aprigliano in Cassetto (1991) vuole apparire uno sradicato che scrive in modo antilirico, prosastico, antieroico, schivo delle illusioni, che osserva dal suo angolo crepuscolare con pena contenuta le maschere umane, le città, il decadere delle illusioni, il ripetersi di cose conosciute; il poeta si sente estraneo al proprio mondo e costruisce una immagine non comune di esistenza strascinata e aggrappata all’impossibilità di agire.
Echi riflessi della neo-avanguardia si hanno in Calabria in coloro che per età avrebbero potuto parteciparvi direttamene; e sono echi della psicologia onirica in Albarosa Sisca di Crotone (1945), dell’eros quale comunicazione, dell’eros evento dell’assurdo e dell’inconoscibile (in Il tempo della memoria, 1969; Poesie, 1979; Medievale canterino, 1983): la Sisca sa fare diventare individuali tali echi per la forza della personalità espressiva. In Rodolfo Chirico di S. Stefano d’Aspromonte (1941) l’incontro dilata il sentimento del naufragio dell’esistenza che nella frequentazione con il teatro assume rilievo anche drammatico: ma nei suoi versi c’è anche l’illusione salvifica (miti, favole, surreali dialettiche) di una vita reale dell’assurdo, delle «albe capovolte».
Lontani da tali riflessi sono Rosario Belcaro di Maropati (1941-1970) e Raffaele Proto (1941) di Soveria Mannelli morto suicida. L’uno e l’altro affermano il loro amore alla terra natia. Belcaro, che morì di tisi, cantò il Sud derelitto, la miseria dei contadini del suo paese (che è quello di Fortunato Seminara), l’emigrazione dei lavoratori: «Spietata matrigna è la mia terra», «in questo villaggio deserto | vivo anch’io come loro | i miei giorni dolenti», «aspetterò sui colli | cantando l’amore | colle madri dagli scialli neri | che guardano sempre lontano». Questa forte resistenza alle tentazioni di evadere è in E sono pietre i giorni, 1964; Una lunga ossessione, 1967 (una antologia di Poesie, 1973, è stata curata da Emma La Face). Proto nel 1985 ha pubblicato Tormenti bruzi, sonetti nati contro corrente e contro moda sia in quanto sonetti sia per i contenuti che racchiudono. Oggi, dopo tutte le rivoluzioni formali e l’avvento dell’essenzialità lirica, si possono scrivere sonetti solo con forte capacità di sintesi formale ed è quello che è riuscito a fare Proto che è ben lontano dal calligrafismo e lancia questi sonetti come strali animati da biblico vigore. Anche fin troppo dichiarativi negli argomenti e nell’espressione, si caricano di ardue sintesi ricche di cultura ed ammantate di quell’oscurità che è il velario dell’arte, di un’arte radicata in una tradizione campanelliana profetica: Campanella, Jerocades, il profetismo sono i modelli che creano sintesi brevissime le quali recuperano il linguaggio della tradizione e si accendono di sentimento morale che le rende epigrafiche («nel vortice gorgoglia la miseria», «la riflessione senza spada», «sfoggiano la zimarra di scorpioni», «l’orrido plaustro delle montature», ecc.).
La poesia di protesta di Proto è incentrata sulla figura del poeta che sente, riflette e pensa, sull’ethos della civiltà contadina plurimillenaria e che ha il suo monumento in Esiodo, la saggezza civile in Solone antibraminico e antipopulista, in Gioacchino da Fiore che presenta, contro la «lussuria di palazzo», mistiche trame di ascese purificatrici. Ai modelli antichi si oppone la sotto-politica empirica e sopraffattrice di arrivisti, nepotisti, traditori, corruttori mentre giovani dotati di capacità di lavoro languiscono nella disoccupazione.
Molto individuale per la formazione culturale e per lo stile è Paolo Arecchi di Catona (1941), quasi interamente inedito come poeta. Il suo mondo ha rapporti con la cultura di valenti studiosi i quali dal crollo dell’unità scientifica del positivismo cercarono di ricostituire altra unità ricorrendo alla cabala, all’alchimia, allo Zen, al Taoismo, alle filosofie indiane, ai mistici occidentali e orientali purché l’unità dell’Essere non andasse perduta nella frantumazione culturale. Furono coloro i quali aprirono la via alla poesia cosmica di Onofri, alla ripresa dello spinozismo. Arecchi getta tutti i ponti possibili (Dante, Campanella, Alfieri, Rilke, Leopardi ecc.) purché si affermi l’unità. La provenienza dallo storicismo e la lunga frequentazione della tradizione danno una forte struttura concettuale alla poesia liturgica, intuitiva, post-romantica, sinfonica di cui le citazioni non possono dare che una traccia:
Mi smorzo nel recinto,
mi scelgo un tocco di arpa,
misuro le distanze al labirinto,
mi giunge un pegno arcano dall’Olimpo,
Morte, in te mi specchio
in calma accanita,
Morte, immortale amata,
tu vera mia salita!,
l’ombra che passa
è Inno e Discorso
che regge una Causa,
contatto con l’Essere,
è Specchio profondo,
è Cuspide alata […]
è suono di tromba:
esalta il Creato»,
Contrasto, salto, ascesa:
la vita aspira a farsi
più ampia e infinita
come perfetta sfera […]
Opponi a ciò che lacera
movimento contrario.
Non è questa magia,
ma esatta arte alchemica […]
Questo amaro soggiorno
che noi chiamiamo mondo
è la tela di un ragno,
abisso senza fondo;
nel quadro cosmico hanno rilievo gli autobiografismi de sublimitate, eroici, le tensioni di assoluto che ricordano Michelstaedter:
Avrei dovuto darti la bambagia,
tenerti immune da battaglie amare,
garantirti i riposi, la mollezza?
Invece no, ho scelto la passione,
l’acqua che mugghia ed urta sulle dighe,
Anche il presente da me ti allontana
ed il presente non è più che un sogno
dove si perde anche la via eterna,
che solo io, che solo io indicai,
Io nacqui per non essere comune,
io nacqui dal respiro di un gigante,
mia madre suscitò in me il carattere,
e porto in fronte il marchio di Infinito.
Le citazioni sono dovute perché il poeta è inedito, perché il suo linguaggio è concettuale, denso, chiaro, perché i testi sono distanti dalle melense autobiografie narcisistiche e anche dai formalismi e dai velleitarismi della neo-avanguardia innamorata del proprio cupio dissolvi.
Un largo respiro poetico dovuto anche all’educazione letteraria oltre che a una singolare formazione culturale si nota in Marcello Vitale di Lamezia Terme, Dante Maffia di Roseto Capo Spulico (1946), Clorinda Nucera di Vibo Valentia.
Dante Maffia non ama le scuole sperimentali ma la diversità di toni dei suoi libri di poesia mette in evidenza che monologo, dialogo, diario, memoria, orfismo, familiare, sociale ecc. diventano sperimentalismi che tolgono consistenza alle notevoli capacità del poeta. Non è il solo, tra i poeti, a svariare. Maffia è divorato da pseudo-critici che scrivono libri sulla sua poesia, libri carichi di sciocchezze dei quali, per carità di patria, evitiamo di fare una schedatura, di esaminare la frequente mancanza di giudizio e di sintassi. Il primo Sud che incontriamo nella poesia di Maffia (Il leone non mangia l’erba, 1974) è quello para-mitico post-quasimodiano, post-scotellariano, un po’ torchiano, un po’ stregonesco, molto letterario, scarsamente vero e reale, fondato più sulle immagini (molto belle talune:
O forse eri tu, amore,
vestita d’aria, la gonna d’oleandri
e gli occhi dell’attesa
innestati sul petto tuo di smalto)
che sulla sostanza interiore. L’effusione è dominante ed è l’effusione non solo da assimilazione ma da troppa ricchezza che non si sa contenere e si espone: l’errore è esporre la retorica delle lune, dei mari del Sud. Chiarire, sceverare è ciò che consiglia Donato Valli per Le favole impudiche (1977), scegliere tra realtà e sogno seguendo la propria natura e i migliori versi di questo libretto sono quelli per Rosina, la madre, essenziali, Maffia poteva risparmiarci Passeggiate romane (1979) liofilizzate da Man-druzzato e gonfiate da Dario Bellezza; materiale per nuove costruzioni e da usare parzialmente, come quello di L’eredità infranta (1981) con quelle lettere inverosimili di emigranti che, però, possono consolidare il linguaggio per, almeno una parte, di Caro Baudelaire (1983) in cui il presente ha maggiore concretezza, un presente problematico in cui l’ansia di elevazione è spesso vanificata. Ci pare che, eliminato l’orfismo documento dell’ebbrezza fantastica (un nuovo Campana dovrebbe padroneggiare la cultura non solo europea), messi da parte i miti enfatizzati, Maffia sia poeta padrone di sé perché privo di enfasi e allineato con L’educazione permanente (1992) alla linea del migliore primo Novecento italiano. Le radici vere del poeta sono qui quelle delle sue origini con cui egli misura la propria resistenza. Il contingente, il privato si richiama alla necessità di schiarimento; non ci sono più le volontaristiche intrusioni, c’è un salto fuori dalle ambiguità psicologiche, dal non sentito per giungere al partecipato (anche qui, però, lo strazio per gli spari nel Libano e le sevizie in Argentina non regge). Il vero poetico è l’originalità dell’intuizione, l’armonia dell’espressione e i nostri tagli profondi (niente poesia sociale per Maffia, forse quella civile, un empiastro l’orfìsmo) mirano al riconoscimento della dignità letteraria del poeta perché ciò che non ha dignità non ha durata: qui si vedano le fiamme gialle che saettano dalle orecchie dei ragazzi che giocano, i cani senza guinzaglio che ridono silenziosi del congegno di illibertà che gli uomini si sono creati, Rosina che «si muove | seviziando gli oggetti. | Arriva imperioso il rumore | del macinacaffè» mentre «il tempo s’accorda | tra i suoi occhi e il mio tramonto», per trovare la maggiore altezza di Maffia, letteraria, intuita, espressa. «Educazione permanente» è «trovare un significato ai suoni, | corrispondere il suono con la cosa», scegliere le misure per non cadere nella stonatura. Le parole mutano pelle nel rapporto con la vita, sciolgono la loro energia monumentale o pratica. Per questa via il poeta esprime la delusione, il trascorrere labile dell’essere in colori, l’impossibilità di definire coi numeri il contrasto tra vita e morte. Stiamo sospingendo il poeta verso il suo vero problema, l’autenticità (che è l’opposto del successo) che egli intravede: «Il mio fare sempre più rassomiglia | al mio dire. Ah, vivere | come una pietra che si bagna | prende il sole». Qui Maffìa si è sciolto veramente in termini poetici, di stile contemporaneo che ha dietro si sé la grande tradizione del primo Novecento. Tale equilibrio non ritroviamo nella diffusione di La castità del male (1993).
L’opera prima (I tempi d’oro, 1985) di Clorinda Nucera si iscrive nella poesia italiana contemporanea e in quella meridionale e calabrese. La poesia della Nucera a prima lettura rimanda alla linea lirica novecentesca, alla purificazione da elementi oratori, ideologici, pragmatici, intellettualistici; anche gli elementi locali, regionali, sono filtrati in un superamento completo del folklore ma senza che la tradizione regionale decada ché, anzi, i legami con la migliore lirica calabrese (Tropeano, Florio, Calogero) esistono. Non vi sono i pesi del pascolismo che tanto hanno gravato in Calabria col sentimentalismo dei contenuti (Casalinuovo, Soffrè), la pietà patetica, l’oratoria umanitaria, l’autobiografismo psicologico, il bozzettismo della vita degli umili paternalisticamente guardati. Non troviamo neanche i pesi del carduccianesimo civile, paesaggistico, politico né quelli del dannunzianesimo come energia vitale dei primi anni del secolo quando tale ipotesi estetica era correlativa alla nascita del futurismo.
Abbiamo accennato a questi condizionamenti perché fino a un trentennio fa la poesia calabrese li rifletteva nei suoi ritardi formali, nelle imitazioni. La modernità della Nucera è nell’incontro fra strumenti tecnici nuovi – che non si risolvono mai in semplice sperimentazione linguistica avanguardista – e tensioni della personalità, rapporto con la storia. Se ci soffermiamo su questa poetessa è perché la sua poesia non è programmatica o celebrativa ma perché l’interiorità assorbe qualsiasi elemento esterno del paesaggio e della realtà risolvendo il rapporto in canto individuale. L’interiorità ha radici profonde antiche e tende alla ricostruzione di legami storici e formali: ciò avviene durante l’attuale disintegrazione di forme e arbitrarietà di contenuti. La poetica, pertanto, implica la dimensione di un mondo in cui la poesia ha la funzione di ethos integrale, di concentrazione del sentimento e di salvezza dall’empiria dirotta. L’interiorità nel caso specifico non è un generico alone di spiritualità ma è stato d’animo tradotto in arte che coincide con l’equilibrio etico-estetico di un mondo storico passato e con una stagione della vita che è trascorsa.
L’«antico, il passato non è un dato archeologico ma sentimento che soffia sul presente, mosso dal ritmo della natura; il presente è inquietudine e incertezza:
Fuori, gli animi della gente sono velati:
si assottiglia il lavoro
e anche la vita
né più il giornale conteggia i morti
per mano dell’uomo.
Ed altro ed altro ancora…
Solo l’amore, antico fra gli dei,
ci riconsegna inermi alla speranza
e al foglio bianco di nuovi cammini.
Uno dei centri dell’interiorità è la ricostruzione dei legami tra passato e presente, la ricostruzione della dimensione di un mondo che, nella terra della Nucera, è il mondo magnogreco. Di quel mondo la poetessa sente il fascino e la continuità delle generazioni estinte che per traducem ci hanno consegnato civiltà e sentimenti.
Ci pare, per qualificare la poesia della Nucera, che l’assenza di naturalismo e di impressionismo concorrano a dare maggiore rilievo alla grazia della sua lirica che sembra ispirata da un pinax di Locri trasmigrato a Hipponion e dalla lamina orfica in cui si ricorda la «fresca acqua corrente del lago di Mnemosine». Chi è qui nato, conferma la Nucera in una lirica sulla Calabria «incomoda terra» «ha impresso | un segno antico nel cuore».
In Barlume nel buio. Strafonghia sto scotidi (1991) Bruno Casile (1923) canta, senza toni lirici, senza aggettivazioni inutili, senza metafore e formalismi, in greco, la lingua greca della stirpe («i glossa ti jenìa»: «jenia» è ancora nella Piana la stirpe: si veda in Repaci la «jenìa» dei Rupe): le sue metafore sono i proverbi della cultura popolare che discende dai Greci. Si legga il bellissimo indirizzo ai giovani: voi avete la farina e lontana è la vecchiaia. Qui la «glossa» è tradizione di pensiero anche, è concetto: nei giovani tutto è bello e vitale – e si va da Tirteo a Leopardi e oltre – perché la debolezza della «jerusìa» ancora non ha portato le sue malattie. Ma le malattie possono venire anche dall’abbandono perché la lingua è come le persone (delle quali è, in verità, il contrassegno) e nella desistenza si sciupa, cade nell’«etticìa» (altra parola sopravvivente nel dialetto della Piana reggina, di Palmi), nella tubercolosi. Non vivificata da chi poteva la lingua è rimasta fra i monti, con le pecore e le capre.
La solitudine delle terre un tempo greche è uno dei motivi più vivi della poesia di Casile; c’è chi ha dovuto partire, lui è rimasto, legato alla sua identità, grato ai fratelli della Grecia che sono andati a trovarlo e il cui sangue è uguale al suo. Uno dei caratteri, ma fondamentale, di questa poesia è l’essenzialità; altri hanno raggiunto l’essenzialità attraverso un intenso lavoro letterario, in Casile il dono è connaturato alla sua essenza di poeta che sembra registrare i dati del paesaggio e del sentimento (che diamo in traduzione):
È ottobre e cadono le foglie,
gli alberi restano nudi […]
È notte e sulla montagna […]
il vento passa fischiando
e mi si stringe il cuore […]
Zappa, zappa,
maledetto chi ti ha inventata […]
Sei bella, estate, e lo dicono gli uccelli […]
La mia vita è perduta
se non ti ho con me;
guardo sempre lontano
per vederti arrivare […]
Il sonno della notte m’hai
rubato e lo hai portato a dormire con te…
C’è un’eco del Leopardi dei grandi idilli e della lirica greca. Ci sembra che sia poesia popolare sapienziale, nata in una cultura consapevole del suo valore e delle sue radici.
La poesia è legata alla cultura dell’etnìa e Casile la estrae da quel mondo naturalistico le cui particelle egli respira. Solo chi è innamorato di una terra ne ama gli atomi. È cosa quasi impensabile in questo periodo che chiamano post-moderno (l’espressione è insignificante), privo di radici e raffazzonatore di simboli disomogenei e causali. L’innamorato della terra è anche innamorato della parola e storia, geografia, scienze della natura tralucono nelle parole di Casile che le parole è andato coltivando nel rapporto Grecia-Calabria, mondo antico e vita contadina, mondo moderno e cultura contadina. Perciò Casile ha studiato la cultura sapienziale popolare grecanica dei proverbi: in questi bisogna ricercare i più antichi, quelli che più direttamente si collegano con l’Ellade o col mondo bizantino. Cognomi italiani di derivazione greca e genealogie della seconda parte confermano l’amore delle radici e la diaspora delle radici in tutto il mondo della Bovesia. Ma anche del territorio meridionale della Calabria: parole come pricàdi, pìgula e altre sono in noi dai primi anni e sono indimenticabili pur se la dialettofonia, in cui quelle parole erano sopravvissute, si venga sempre più restringendo.
Infine ci sono le favole come testimonianza del tessuto culturale di Casile, favole della Bovesia, del mondo della campagna grecanica, assai belle, dominate dal sentimento del dolore, del destino: la vita migliore, conclude una di esse, è quella «di colui che non è nato».
Ma sul passato carico di fatalismo si leva la coscienza moderna di Casile con le sue memorabili parole: «la vita che facciamo ora è migliore […] perché l’hanno fatta quegli uomini che conobbero la povertà con quelli che furono maltrattati e si batterono per liberare i lavoratori dal giogo degli aristocratici». Forse Casile non ha letto il Vittorini della coscienza offesa ma è, consapevolmente, a quel livello morale per esperienza vissuta sulla propria pelle e su quella dei grecanici disprezzati e chiamati «paddhechi» dai cittadini. La coscienza offesa può diventare alto livello di coscienza e noi ricordiamo Giovanni Andrea Crupi, un professore che dopo avere preso coscienza della sua natura grecanica umiliata si diede allo studio della lingua e pubblicò La «glossa» di Bova come strumento di lotta, come arma politico-culturale da consegnare ai suoi fratelli di Aspromonte.
Poesia delle radici e radici di etnìa nella poesia e non possiamo non ricordare che l’afflato poetico domina le pagine di Casile fino ai versi conclusivi, alti, umani, fraterni: «Stanca la mia vita, | ma non sazia | del mondo che lascia».
Vorea Ujko, pseudonimo del poeta albanese Paolo Domenico Bellizzi (1918) di Frascineto, sacerdote di rito greco, amico del poeta Esad Mekuli, autore di molti libri di poesia, è morto in séguito a incidente stradale a Bari nel 1989. La sua poesia è profondamente legata all’ethnos albanese: «Ho un pugno di terra | della mia patria | che grida nella mano», «Sono ancora un bambino | a cui girano il viso | verso la terra dei progenitori», «Vorrei | quando sono qui con voi (in Albania) | che crollassero tutti i ponti | perché non avessi possibilità | di tornare indietro»; non mancano nei suoi versi (dei quali diamo la traduzione) gli accenti sociali: «Io non canto | come il muezzin dal minareto | ma canto nelle piazze | col cuore dei fratelli».
Di fronte all’inaridimento del Sud (e alla obliterazione della sua cultura: si cancella il naturalismo filosofico, il verismo, il neo-realismo, si va verso la cultura europea dell’evasione) Marcello Vitale reagisce (Dal fondo dell’Aleph, 1992) con forza prosopopeica, opponendo il suo ictus di spettatore e attore con le risorse raffinate della letteratura. Ritorna il Sud dei miti e della memoria, fissato in immagini nel tentativo di riassumere la totalità attraverso emblemi come l’Aleph. Questo Sud ha elaborato la speculazione intorno all’essere e al divenire e le parole prima della connotazione dell’assoluto. Nella poesia di Vitale si rispecchia la purezza primigenia della parola sicché il linguaggio è, dopo gli sperimentalismi di questi ultimi decenni, un approdo all’essenzialità delle immagini
(Un pugno di ferro
c’invade ed emargina le nostre
volontà. Guaiamo come cani
aspettando d’essere uccisi)
e del pensiero.
Non si tratta soltanto di tecnica della parola ma anche di sintassi e del suo consustanziarsi con la visione. La metafora trionfa, l’arditezza è esaltata poeticamente nella visione di un Sud degradato che «ha gli occhi di animale sparato, inseguito», «con una lanterna accesa negli occhi». La letteratura brandita in alto («Luna mezzaluna mozza | come la scimitarra del turco») non elimina le ragioni della protesta (terra tradita: imbellettata e incementata), accende la storia collegando la vicenda individuale con gli istituti del passato, con il costume, in una atmosfera lirica che non è più quella dell’elegia ma del surreale: «Gorgogliò sinistra la bocca di Meridione | acre alitando il fiato tra i limoni».
Il Meridione aveva un archetipo iniziale di paesaggi e di persone; di calma e di sofferenza che il poeta può comprendere nella totalità mentre gli altri vedono solo il vorticare della vita e delle parole. Nella totalità si può dispiegare la fatica dell’uomo, la giustizia, il lavoro che ricostruisce e risana, si può comprendere il segreto dell’essenza che dipana la vita. In tale concezione la poesia di Vitale si dispiega e si amplia visitando il simulacro della storia con i suoi nominalismi, il suo falso sapere, le sue categorie in cui gli avvenimenti vengono circoscritti: «Scoprimmo vittime e imputati, innocenti | e colpevoli. | I negri soggiogammo e le donne». La visione totale riduce i concetti di gloria e di potenza, rende evidente che tutto è perituro e a tale attributo si proporzionano le azioni («gli eroi si votarono all’azione | perché obliarono il loro effimero destino»), ma nella totalità non è dimenticato il contingente, il «codice segreto» biologico di ciascuno perché la coscienza dell’io è la «sintesi finale | del circuito».
Quest’opera di Vitale è ricchissima di pensiero per i rapporti cosmici che tratta e si innalza su tanti libri di liricità empirica, scomposta, di tanti verseggiatori di oggi. Nell’opera è un disegno problematico che richiama i motivi più importanti del tempo nostro. Un suo grande merito è quello letterario, l’avere espresso una visione ardua e tormentata con linguaggio aderente contemporaneo, capace di volgersi alla rappresentazione dei moti interiori e di quelli astrali, delle scienze, di avere trasformato l’idea in parola individuale.
Accenti personali troviamo anche nella poesia di Pino Corbo di Cosenza, Stefano Mangione di Reggio. In alcuni testi si richiama a Lacan V.S. Gaudio di Trebisacce (1951) (Sindromi stilistiche, 1978; Stimmung, 1984) il quale distrugge l’oggetto con l’ironia linguistica, con traslati linguistici, con escrescenze linguistiche. Il linguaggio deforma, trasforma ma il vero valore è nell’inventare. Qualche sperimentatore in Calabria è arrivato alla poesia visiva, alla poesia grafica in figure geometriche ma per lo più si tratta di funambolismi slegati da qualsiasi rinnovamento. In tal caso è meglio leggere gli anagrammi e i giochi di parole consapevoli di un uomo di ingegno quale è Carmelo Filocamo, conosciuto nel mondo dell’enigmistica con lo pseudonimo di Fra Diavolo, nativo di Siderno e che vive a Locri. Ai bozzetti ironici che contengono motivi eversivi si dedica Nicolino Longo (Se sto zitto ascoltatemi, 1989). Tra i calabresi che vivono fuori della regione ricordiamo Filippo Falbo (1946) di Mesoraca, sapiente contemperatore di sublime e sotterraneo, Antonio Coppola di Reggio per Colloquio con il padre, Giovanni Chiellino (1937) di Carlopoli, medico a Torino, che si muove tra mito e attualità; Padano Ferrantino (1953) di Monsoreto, Eugenio B. Notaro di Lamezia Terme che vive a Roma (è autore di Idee di tempo e di sentimenti e di Da Bocca d’Arno a Ripagrande); in Calabria vivono Pasquale Bennardo e Luigi Pellegrini di Cleto che già nel 1951 pubblicava Scintille. Gaetano Previtera è autore di Esili giunchi in cui è la denuncia non socioelegiaca dei primati negativi della sua terra.
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